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La fonte di validità dei valori e la loro configurazione storica: qualche spunto per cominciare

di Sandro Mancini

 

 

Un luogo comune attribuisce alla filosofia una capacità di osservazione delle tendenze sociali e degli orientamenti culturali più acuta e lungimirante di quella elaborata dai saperi specialistici; non sempre, tuttavia, i filosofi danno adeguata prova di essa, ieri come oggi. Ciò balza agli occhi riguardo al tema della presente riflessione: il valore. Infatti, mentre nel dibattito filosofico odierno esso occupa posizione sostanzialmente marginale, nel più vasto dibattito culturale, coinvolgente l’intero tessuto della società civile, lo stesso tema assume per converso una posizione preminente. Nel migliore dei casi, ossia quando non ignora del tutto la problematica in questione, il côté filosofico si limita a riformulare, in un linguaggio più sofisticato, le opzioni già delineate sulla scena politico-culturale riguardo alla pluralità dei valori, sospesi tra intolleranza e indifferenza, tra integralismo e relativismo.

Eppure tra i tanti tesori che la storia della filosofia custodisce ve n’è uno – neppure troppo lontano nel tempo – che potrebbe fornire preziosi lumi per una ripresa di elaborazione oggi: mi riferisco al tornante che si apre alla metà del XIX secolo con Lotze, all’insegna del ritorno a Kant, e che prosegue, variamente rimodulandosi, con Windelband, Rickert e Lask, Scheler e N. Hartmann, lungo i primi decenni del Novecento, intrecciandosi con l’apparentemente opposto itinerario del neostoricismo. Si pensi a Troeltsch, ad esempio: pur collocandosi fondamentalmente nel grande ambito dello storicismo, e quindi assumendo i valori come formazioni storiche, egli per un altro verso accoglie la tesi lotziana della sovratemporalità del valore, all’interno di una concezione della storia che attribuisce a ogni evento e centro singolare il carattere della relatività, insieme alla loro capacità di porsi in rapporto diretto con la sfera intemporale dei valori assoluti.

Certo, la stagione culturale della filosofia dei valori si chiuse bruscamente, nelle vicende traumatiche legate alla Prima guerra mondiale, a causa dell’incapacità, mostrata da parte dei suoi pur illustri esponenti, di sottrarsi all’ondata di militarismo che portò al collasso gli imperi centrali e con essi tutta l’Europa. A quel cruciale appuntamento con la storia, la genuina risposta valoriale, limpidamente contrapposta al militarismo prussiano, venne da altre sponde: dall’idealismo gnostico-rivoluzionario del Bloch di Spirito dell’utopia, come dal materialismo messianico di Benjamin, dalla dialettica antireificante del Lukacs di Storia e coscienza di classe, così come dalla teologia dialettica di Barth. È noto che la scena precedentemente occupata dalla filosofia dei valori fu poi conquistata, a partire dalla fine degli anni Venti, dall’esistenzialismo, che con Heidegger e Jaspers sostituì il valore, nella sua funzione regolativa, con il criterio dell’autenticità. Nei successivi itinerari della filosofia europea la problematica del valore non ha più riconquistato una centralità (tra le eccezioni mi limito a ricordare l’originale cammino di Enzo Paci, che concepì il suo esistenzialismo giovanile non come antitesi della filosofia dei valori, ma come suo fecondo inveramento).

Certo, questi sommari e parziali cenni omettono tanti altri fili, che pur costituiscono “l’eredità culturale” (nell’accezione blochiana del termine, designante le possibilità espressive racchiuse nel passato, suscettibili di sviluppi creativi) inscritta nella problematica del valore. Comunque, con forte approssimazione, e limitandoci al dato minimo enucleabile dai pensatori che hanno attribuito alla sfera dei valori uno statuto veritativo irriducibile a quello della realtà naturale, troviamo due asserti irrinunciabili. Da un lato, vi è il riconoscimento della duplicità costitutiva del valore, intramato sia di storicità sia di eternità, e dispiegantesi pertanto sia nella pluralità dei valori culturali entro cui si dispiega la dialettica delle civiltà, sia in un inoggettivabile nucleo invariante degli stessi, comune a tutte le civiltà e a tutti gli uomini. Dall’altro lato, vi è il riconoscimento trascendentale della singolarità e libertà della persona, quale centro individuale di senso, in grado di compiere la sintesi tra i due piani del valore.

Mi propongo di sviluppare in altre occasioni alcune conseguenze implicite in questo assunto. Ma già sin d’ora si può notare come, alla luce di una prospettiva critica trascendentale, si riveli teoricamente inconsistente l’odierna contrapposizione tra relativisti e antirelativisti: non è l’asserto del darsi nel valore di un piano di invarianza a comportare di per sé l’uso ideologico e legittimante del concetto di valore, bensì è la saldatura tout court del profilo empirico e di quello trascendentale a condurre a un tale deleterio esito, oggi sotto gli occhi di tutti. Il discrimine tra laicità e integralismo non passa, entro l’ambito filosofico, dalla statica, categoriale antitesi di immanenza e trascendenza, ma dal ruolo che spetta alla libertà della coscienza individuale nella declinazione della storicità e dell’universalità dei valori.

Ritengo che il punto irrinunciabile per la laicità stia nel fatto che nessuna autorità esterna al tribunale della verità custodito in ciascuna persona possa decidere di quell’intreccio, imponendo all’intera comunità politica una presunta tavola oggettiva di valori che siano storici e al tempo stesso incondizionati: ciò, infatti, attiva una logica dell’esclusione che opera essa stessa come antivalore. Di contro, il valore può dispiegarsi nella storia solo strutturandosi nella logica dell’inclusione, quale schema regolativo e anticipativo, in funzione dell’espressione creativa delle possibilità di senso compresse nell’uomo e nella società.

Meno che mai questo aut aut può declinarsi come surrettizia alternativa tra religione e ateismo. Abbiamo bisogno di una coscienza credente libera – in cui mi riconosco – e di una coscienza non credente altrettanto libera: entrambe volte a contrastare le pretese prevaricatrici dei rappresentanti del principio di autorità, indebitamente esteso alla dimensione personalistica della ricerca del senso; entrambe proiettate ad allargare lo spazio della dialettica dell’espressione, attraverso la costruzione dei processi teleologici dell’accordo e della giustizia, e attraverso l’esclusione di ciò che esclude.

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