Filosofia
della relazione
di Adriano Fabris
Brano tratto dal volume TeorEtica,
(Morcelliana, 2010)
III. 13. Responsabilità per l’universale
La responsabilità di ciò di cui non si è direttamente responsabili è responsabilità per l'universale. Parlando di questa forma di responsabilità non intendo promuovere l'assunzione di un qualche atteggiamento eroico, che si fa carico dell'impossibile, o sollecitare l'accettazione di un destino che non possiamo dominare. Tale idea è invece conseguenza dei vari passaggi che abbiamo fin qui compartecipato: il ripensamento dell'agire come un essere in relazione che è punteggiato da scelte, la messa in opera della relazione come dinamica che universalmente si diffonde, la risemantizzazione dell'universalità come farsi che al tempo stesso è scelto e coinvolgente, l'esperienza di tutti questi aspetti in una prospettiva che è non solo teorica, ma soprattutto etica.
Se infatti l'agire umano è realizzato propriamente come quella forma di relazione che si espande universalmente, allora viene meno l'idea – collegata a un approccio causale – per cui l'azione è tale solo perché produce effetti, questi effetti sono qualcosa di controllabile e la responsabilità di un comportamento dipende da questo specifico controllo. Invece la responsabilità non si annuncia solo nella misura e nei limiti in cui un controllo è possibile. In questo caso finirebbe per essere privilegiata, arbitrariamente l'accezione del rispondere come «rispondere di». E neppure, nel contesto che abbiamo fin qui delineato, si può parlare di responsabilità facendo esclusivo riferimento al filo conduttore del «rispondere a». Lo sfondo di relazioni nel quale mi trovo coinvolto quando agisco, infatti, può anche venir considerato impegnativo, e tale da implicare una specifica scelta in grado di assumerlo e di attivarlo: dove questa scelta è intesa come risposta a quanto esso implicitamente richiede. Ma ciò che non dice, in generale, la prospettiva del “rispondere a” è a che cosa, concretamente, siamo chiamati a rispondere. Ciò che qui non è chiaro è il contenuto della richiesta che m'induce a essere responsabile (oppure, certamente, a scegliere di non esserlo).
Lo è, al contrario, la prospettiva dell'agire capace di estendersi universalmente. In tale prospettiva io mi trovo io sono chiamato a essere responsabile non solo delle relazioni che risultano da me avviate, ma anche di quelle in cui sono inserito; non solo di ciò da cui singolarmente mi sento interpellato, ma da tutte le relazioni che mi coinvolgono. Perché, appunto, il mio agire è in generale essere in relazione. In una relazione che, virtualmente, si estende a tutto.
Emergono così, accanto ai due modi del rispondere e ai due sensi di "responsabilità" che ad essi si ricollegano, due ulteriori livelli in cui questa condizione può essere considerata. Si tratta della responsabilità collegata alla singola azione, da una parte, e quella implicata dalla struttura stessa dell'agire, come un essere relazione che è diffusivo di sé, dall'altra. Nei confronti di entrambe sono in grado di esercitare la mia capacità di scegliere. Ma appunto riguardo al secondo aspetto si delinea l'idea della responsabilità di ciò di cui, direttamente, non sono responsabile.
Una tale concezione non deve stupire. Essa serve anzi a evitare i problemi che contraddistinguono un'idea di "responsabilità" fin troppo vincolata al dispositivo del controllo. Sembra infatti che di ciò che si fugge al nostro controllo non siamo di fatto responsabili. E invece in alcuni casi riconosciamo di esserlo – come si dice – almeno «moralmente». Lo siamo anche se non abbiamo propriamente voluto un determinato esito, tuttavia è legato pur sempre a scelte particolari da noi compiute. Ad esempio siamo di responsabili, in quanto abitatori dell'Occidente e beneficiari dei suoi stili di vita, delle conseguenze disastrose che i nostri comportamenti hanno per l'equilibrio ecologico e per il determinarsi di specifiche diseguaglianze economiche e sociali. Anche se, magari, siamo contrari certe azioni proprio per il loro impatto a livello globale.
Una tale idea di responsabilità, che si determina ben oltre il nostro effettivo volere e la nostra stessa capacità di controllo, va tuttavia ulteriormente giustificata: tanto più in tempi irresponsabili come quelli nei quali viviamo. Possiamo fare se ci riferiamo, appunto, alla concezione dell'universalità che abbiamo in precedenza esposto. Sono responsabile, infatti, delle mie azioni. Ma sono responsabile, anche e soprattutto, delle relazioni in cui le mie azioni si trovano inserite. Di tutte le relazioni. Lo sono a patto che questa mia responsabilità sia veramente etica. Perché etica, come sappiamo, e ogni relazione capace di diffondersi in relazione sempre nuove. Ecco il senso del mio essere responsabile anche nei confronti di ciò che non dipende direttamente da me.
Ciò non dev'essere affatto inteso come un peso, un'incombenza, un gravame. Si tratterebbe solo di un modo parziale, esclusivamente negativo, d'intendere la questione. È in gioco qui, invece,un aspetto positivo, produttivo, espansivo, di ciò che posso fare e che in effetti sono. Io sono altro. Sono (in) relazione con altro. E questa relazione è qualcosa di dinamico: si realizzano e può realizzarsi. Sempre di più. La stessa scelta che si mantiene fedele alla struttura della relazione, appunto, è quella che fa suo il compito di elaborare ad estenderla. È la scelta nella quale con la quale si realizza il coinvolgimento.
Qui, allora, parlare di responsabilità per l'universale significa, in positivo, agire in modo tale che la relazione prenda il sopravvento sulla separazione, e in tal modo si diffonda. Significa, altresì, scegliere di farlo. Accanto alle dinamiche del «rispondere a» e del «rispondere di» emerge dunque quella del «rispondere per». «Rispondere per», tuttavia, è sempre rispondere per altro. È rispondere in relazione ciò che l'altro vuole o può dire. È rispondere per lui anche qualora lui non possa dire nulla. Perché io sono responsabile non solo del suo essere relazione, ma anche di ciò che altro, ogni altro, è in questa relazione. Lo sono, di nuovo, perché «io sono altro».
Sono dunque chiamato, nella mia responsabilità, a dar vita a relazioni, relazioni vere, relazioni feconde di relazioni sempre nuove, sono chiamato a realizzare quell'universalità è sempre si presenta, nella comunanza degli esseri, come qualcosa di universalizzabile. Sono chiamato a ciò in quanto, certamente, posso scegliere di farlo. Ma sono indotto a farlo nella misura in cui mi trovo coinvolto, comunque, in un contesto relazionale. Ecco perché, agendo in questo modo, il bene che realizzo non è solo il mio bene, ma è il bene generale.
C'è tuttavia da assumere, per far questo,un punto di partenza ben preciso: è il punto in cui io sono; è il punto che io sono. Il punto di partenza per l'attuazione dell'universale, in altre parole, è nel particolare nella sua assunzione in quanto particolare. Si tratta di ciò c'è, nelle righe precedenti, ho espresso con il pronome personale "io". Io sono il punto di partenza di quello stesso percorso di universalità – virtuale ma sempre possibile; possibile perché scelto, scelto a partire da una dimensione di coinvolgimento – che mette in opera il mio essere relazione. In quanto tale ne sono responsabile. Ed è solo perciò posso pensare ed esprimere l'agire filosofico con un linguaggio differente. Conforme alle categorie che sono finora emerse.