Due crisi coessenziali
di Enzo Roggi
Domande dalla nostra epoca. Spoliticizzazione della società e/o desocializzazione della politica? Società e politica distanti oppure in rapporto critico ma non debole? Hanno modi d’essere divergenti o sono legate da sindromi simili?
Può esistere una mediazione virtuosa tra l’una e l’altra entro una categoria come la democrazia integrale? L’opinione pubblica che si condensa nel momento elettorale è nutrita di consapevolezza progettuale o non è piuttosto
mossa, in quale misura, da impulsi meschinamente utilitaristici e feticismi indotti dalla comunicazione? C’è, non solo sociologicamente, una borghesia capace di farsi segno della comunità oppure s’è arresa a una minoranza che
assorbe violentemente il valore prodotto e indotto? E ciò che è tornato a muoversi oggi nell’agone conflittuale può essere inteso come sintomo di una politicizzazione della società civile?
Mentre la cultura indagativa s’interroga ecco lo scoraggiante paesaggio fotografato dall’Istat: un Paese «un po’ allo sbando, impaurito, che si organizza a livello privato tra famiglie e comunità» e sostanzialmente privo di «regia ed elaborazione politica e culturale». E Ilvo Diamanti sintetizza: «siamo una società familistica … , corporativa e localistica, immobile e chiusa» di cui la politica «riproduce ed enfatizza i limiti». Dunque, la grande crisi – prodotta dal trentennio liberista e mass-mediatico – del rapporto tra il sociale e il politico è tutta lì, intatta e sotterraneamente pronta a produrre, a breve o lungo termine, effetti ancor più devastanti. Ma l’indagine demoscopica così come l’elaborazione degli antropologi sembrano fermarsi al confine con la sintomatologia e indugiano ad affrontare una compiuta teoria del sistema e delle sue dinamiche.
Sembra si debba ripartire dal momento in cui il discorso fu avviato, ventiquattro secoli or sono, da Aristotele col suo «anthropos zoon politikon» ripreso e reinterpretato millecinquecento anni dopo da Tommaso d’Aquino col suo «homo est naturaliter politicus, id est socialis». L’impegno dell’analista
sistemico potrebbe iniziare proprio dal mettere a confronto queste due classiche proposizioni. La prima ci dice che, contrariamente agli altri viventi, l’uomo tende a superare i limiti della sopravvivenza biologica organizzando
una qualche forma di ordine associativo assegnandogli (di fatto o formalmente) regole di gestione producendo così l’artificio storico del «regno del discorso», delle relazioni consapevoli e ordinate chiamandolo «politica». Nel concreto
storico-ambientale dell’antichità ellenica questa visione è alla base della «polis» in contrasto esplicito con la «naturalità dell’animale uomo», cioè con la comunità parentale, regno di arbitrio autoritario impastato di sacralità
e di privatezza economica. Dunque, opposizione tra la dimensione
del «dialogo» capace di elaborare fondamenti vincolanti per tutti («zoon logon echon», il vivente capace di discorso) e la dimensione della separatezza di sopravvivenza fondata sulla diseguaglianza. La politica, insomma, non è un derivato meccanico del familismo economico ma il correttore del suo limite: è la sfera della libertà che si ordina contro la violenza autarchica della domesticità. Nella visione Tommaso questo conflitto genetico e finalistico scompare per dare luogo non solo a una insopprimibile coesistenza tra
politica e società ma a una vera e propria identificazione tra i due enti (si potrebbe parlare di un accostamento alla visione
marxiana della politica come «sovrastruttura» del sociale ma ben sapendo che all’Aquinate mancava il dato del conflitto lavoro salariato-capitale).
Che cosa resta oggi, nella realtà della società contemporanea, degli assunti del pensiero classico e medievale? Cos’è oggi la «famiglia», cioè l’economia sociale? E che cos’è il «regno del discorso», cioè la politica? Tra i due momenti è ancora cogente la distinzione «tirannia/libertà», cioè una distanza oppositoria senza mediazione? Cominciamo col dire che non esiste la «famiglia», esistono le famiglie socialmente categorizzate nella differenza. Non esiste la società monotipica, esistono le società polarizzate immerse in una comunità
conflittuale. Per dirla con Hannah Arendt, non c’è una meccanica identificazione che faccia della società una sorta di «comunità domestica allargata, collettiva», così come non c’è una politica che sia ontologicamente regno di libertà e di «discorso». C’è nella modernità il confluire necessario
dell’un fattore nell’altro, c’è insomma il regno della dialettica società-politica. Dunque, non ci possono soccorrere gli esegeti della polis antica come non dà risposta utilizzabile chi oggì pensa a una perfetta identificazione tra i due momenti: nella modernità «la società ha divorato l’unità familiare fino a costituirne un surrogato» così come la «politica» esercita una funzione ambigua, ora dominante sulla società, ora succube di essa. Dove per «società» deve intendersi non l’universo demografico unitipico ma la risultante
del conflitto – oggettivo e culturale – di cui la società è pervasa. Non c’è identificazione ma coesistenza critica, e si chiama «sistema».
La moderna democrazia – diritto codificato più volontà civica – ha in comune con la polis ellenica l’ambizione di porre nelle mani della politica la sovranità, ma essendo essa stessa il risultato della dialettica col sociale non può sperare
di essere immune da crisi, come ben dimostra la realtà attuale che ci consegna un pur caotico rispecchiamento in essa della crisi sociale, una sorta di «anarchica vendetta» (Max W Weber). La dialettica virtuosa tra i due ordini si tramuta in reciproca alimentazione della crisi che è dunque crisi della democrazia politica e sociale.
Il trentennio liberista-globalista con la sua falsificazione del rapporto produzione-finanza fino alla creazione di un universo artificiale di valori cartacei, con l’esasperazione delle distanze di reddito e di opportunità, con il saccheggio della natura, con la riduzione dell’intervento pubblico ad ancella delle dinamiche predatorie del ‘libero mercato’, con l’esasperante incitamento a consumi inessenziali che si tira dietro la massificazione dell’indebitamento
privato e pubblico, con l’istaurazione vanagloriosa del successo senza riguardo a mezzi e conseguenze: questo trentennio giunto a ‘fase suprema’ ha alterato dialettica società-politica gettando nel caos il primo fattore e nella crisi funzionale il secondo. Non è più un rischio ma una certezza l’incrociarsi di due debolezze. E come l’indebolimento della sfera pubblica minaccia la sfera privata, così l’impazzimento della sfera privata richiama quella pubblica
al soccorso, cioè all’indifferenziato sacrificio delle risorse statali. Vanno messi in conto di tale duplice minaccia i fenomeni tipici di questa fase: l’atomizzazione antropologica con una sorta di ritorno indietro millenario al «familismo»,
il moltiplicarsi delle fortezze catastali con vero e proprio ritorno feudalistico, l’assunzione della dimensione localistica che si oppone alla condivisione del sistema, la rivolta crescente contro le regole di una sovranità giuridica che moltiplica caoticamente i suoi editti, l’impulso a individuare il nemico ovunque qualcosa si muova, specie se si tratta di pubblici servizi, l’uso lievitante del discrimine etnico e religioso.
Quel che rende ‘rivoluzionaria’ la vittoria di Obama – al di là dei risultati che potrà e saprà conseguire – è il fatto che uno dei fattori decisivi della crisi, la politica, mettendo in discussione sé stessa ha saputo sollecitare e ottenere l’incontro tra uno spirito pubblico ridestato e il progetto politico attorno al nodo gordiano della crisi: quale proprietà privata? Quale funzione pubblica? La risposta, la speranza è in due obiettvi: emancipare la ricchezza (cioè la totalità
del prodotto sociale) dalle attuali forme di proprietà; riportare la sovranità democratica nel sistema politico in nome dell’universo sociale non più discriminabile. Insomma, tutto l’opposto dello stato di cose osservabile in Italia e non solo. Si potrebbe dire un ritorno alla virtù civica di Machiavelli contro il «particulare» di Guicciardini.
Se una simile prospettiva non è utopia ma obiettivo concretamente perseguibile, occorre intrecciare virtuosamente i due campi di riforma. Ma deve cominciare anzitutto la politica, dunque riforma delle istituzioni e, in essa, del suo attore organizzato, il partito politico. In quanto alle istituzioni la situazione è a dir poco drammatica, sembra di vedere qualcosa che ricorda la Grecia alla vigilia del golpe militare: un Parlamento pletorico e impotente quando non
esplicitamente umiliato, poteri locali soffocati dal debito e sempre più frequentamente penetrati dall’affarismo e perfino dalla mafia, organi di garanzia tanto lamentosi quanto disarmati. E tutto questo mentre agiscono, premono, decidono poteri di fatto a costituzione separata. Per questo
non si può sfuggire all’urgenza drammatica di un cambiamento
profondo tra Stato e mercato con recupero della sovranità nella regolazione dei rapporti, dei comportamenti ora quasi totalmente arbitrari degli attori del mercato, con la capacità di promuovere un più equo meccanismo
di distruzione del reddito anche come fattore di crescita economica, con la volontà e gli strumenti atti ad imporre energicamente la compatibilità esistenziale tra economia e ambiente.
In quanto alla forma-partito parlare di crisi è puro eufemismo: un campo questo in cui teorie ed esperienze storiche non soccorrono più, mentre i conati di novità producono mostri o labili esperimenti. Il nostro ben strano bipolarismo
sta camminando a tentoni, avvolto non da una dialettica produttiva, ma da una sorta di paranoia dell’ incompatibilità.
Siamo nella fase in cui a destra la risposta è ciò che lo stesso Fini chiama «cesarismo», cioè estrema falsificazione della democrazia, e nel campo demo-riformista si cerca piuttosto caoticamente la risposta epocale al dover
essere rischiando l’indeterminatezza per un deficit dilettura delle trasformazioni della fase. L’antico presupposto identitario – la visione della storia, il progetto del necessario umano – sembra revocato in dubbio sotto la categoria
impressionistica dell’anti-ideologia senza che un nuovo apparato concettuale riesca a prendere forma e consegnarsi alla prassi. Il rischio è un lungo e confuso viaggio nel deserto. E non è vero che l’umanità è sempre riuscita a forzare lo stallo critico per affermare qualcosa di migliore: la polis democratica greca morì schiacciata dal globalistico impero macedone.