Lo Stato senza identità
e la Chiesa cattolica
di Sebastiano Ghisu
Ha luogo nelle nostre società, nelle società che usiamo definire occidentali, una grande estensione di ciò che, per dirla con gli antichi stoici, potremmo chiamare gli adiaphora, oggetti d’indifferenza. Vale a dire: sempre più numerosi aspetti dell’esistenza che un tempo erano sottoposti ad una regolamentazione morale più o meno rigida si collocano oggi al di qua e al di là del bene e del male. Che ci si sposi o semplicemente si conviva; che si ami un individuo dell’altro sesso, del proprio sesso o d’entrambi; che si sia atei o credenti e, in quanto credenti, si creda in una qualche divinità del passato o nel Dio di una delle diverse religioni monoteiste nelle sue molteplici varianti; che ci si vesta in un certo modo piuttosto che in un altro; che si decida di por fine alla propria vita o di continuare a vivere… insomma, tutto ciò diviene moralmente indifferente. Ed è bene che sia così.
Certo, a ciò si accompagna, per una serie di motivi che sarebbe troppo lungo ripercorrere, un fenomeno opposto o complementare: l’estensione del moralmente differenziato. Sono infatti divenuti oggetto di differenziazione morale (e quindi soggetti morali oltre che soggetti di diritti) gli animali non umani e, nelle sue più variate dimensioni, l’ambiente naturale. Non è tuttavia su quest’ultima tendenza che intendiamo concentrarci, quanto piuttosto sulla prima.
Essa, innanzitutto, rende evidente l’insufficienza del tradizionale principio di tolleranza e fa di contro emergere, con tutta la sua forza dirompente, ciò che potremmo chiamare il principio d’indifferenza.
Per descriverlo possiamo senz’altro partire dal celebre motto con cui il grande Voltaire concludeva il suo Candide: “bisogna coltivare il proprio orto”. Se lo ampliassimo e adattassimo alla situazione attuale, arriveremmo alla seguente, semplice formulazione: non invadere la sfera del singolo se non quando il singolo invade la sfera altrui. Ciascuno è proprietario di se stesso e può far di se stesso ciò che vuole, ma non può fare ciò che vuole dell’altro. Seguendo tale massima, il singolo dovrebbe essere indifferente a ciò che fa l’altro fino a quando l’altro è indifferente a ciò che fa il singolo. Dovrebbe essere indifferente alla morale dell’altro sino a quando tale morale non sacrifica l’altro alla propria morale. Potremmo anche dire: non sono indifferente a quelle morali di vita che invadono la sfera dell’altro… laddove per altro non va inteso solo l’altra singolarità, ma colui che è differente, diverso, colui che non partecipa a quella morale di vita.
Perché costringere l’uno a fare ciò che fa l’altro se egli non invade l’orto di nessuno? Perché impedire uno stile di vita se questo stile di vita non impedisce nessun altro stile di vita? Perché vietare un’opinione se questa opinione non vieta nessun’altra opinione? Guardiamoci da coloro che allargano il proprio orto sino a comprendere l’umanità intera, il cielo e la terra. Guardiamoci dalle morali e dagli stili di vita che non sono indifferenti a quelle morali o a quegli altri stili di vita che non intaccano alcun'altra morale o stile di vita.
Si tratterebbe di costruire una società fondata su questo principio, una società pienamente liberale (limito qui il significato di tale termine alla dimensione etica e giuridica). Una società è tuttavia pienamente liberale se amministrata e governata da un sistema statuale altrettanto liberale.
Questo, allora, non soltanto non deve vietare determinati comportamenti, ma deve dare ad essi, ove necessario, pieno riconoscimento giuridico. Lo Stato dev’essere indifferente a tutto ciò che non viola la sfera individuale del cittadino, l’integrità fisica e morale della persona. In questo è bene essere radicali. Perché anche laddove lo Stato non punisce più un certo comportamento – per esempio l’omosessualità – non riconoscendone pienamente l’esistenza – al pari dell’eterosessualità – di fatto lo impedisce, lo discrimina. Lo tollera, certo, ma non ne è indifferente, come dovrebbe.
Ora, uno Stato indifferente è uno Stato senza identità. Voglio dire: uno Stato che non difende alcuna identità (tanto meno una sua presunta identità o l’identità presunta della maggioranza dei suoi cittadini). È uno Stato che, di fronte alle tante o poche identità che comunque esistono, difende sempre gli interessi dell’altro, mentre rappresenta gli interessi del singolo solo in quanto altro possibile (“altro” anche rispetto allo Stato, che del resto non dovrebbe avere interessi, ma solo rappresentarne: chi rappresenta lo Stato rappresenta sempre ciò che lo Stato rappresenta: l’altro).
Di fronte al credente lo Stato rappresenta il non-credente, di fronte al non-credente il credente. Di fronte al cristiano il musulmano; di fronte al musulmano il cristiano. Di fronte alla donna l’uomo; di fronte all’uomo la donna. Di fronte all’eterosessuale l’omosessuale; di fronte all’omosessuale l’eterosessuale. Di fronte al bianco il nero; di fronte al nero il bianco… Lo Stato non ha identità. È questa la sua principale caratteristica.
Arriviamo così alla domanda cruciale: sono disposti i cattolici ad accettare pienamente il principio di indifferenza e uno Stato senza identità (così come lo abbiamo descritto)? Dei cattolici, nel loro variegato insieme, è difficile dire. Certamente la Chiesa sta contrastando con tutta la sua forza (ed è legittimo che lo faccia, sia ben chiaro) la tendenza alla indifferenziazione morale, contrapponendosi in tal modo alla costituzione di uno Stato senza identità.
Vi sarebbero molteplici esempi da riportare, non è certo il caso di elencarli. Uno di essi – lo ricordiamo perché teoricamente interessante – ci è dato dalla reazione dell’Osservatore romano alla recente sentenza di un giudice di Valladolid in Spagna che ha ordinato la rimozione del crocefisso da una scuola pubblica. Si tratta di un articolo dello scrittore spagnolo Juan Manuel de Prada dal titolo Una semplice croce (Osservatore romano del 25 novembre 2008).
Scrive de Prada: “A nessuna persona in pieno possesso delle proprie facoltà sfugge che il segno della croce non viola nessun diritto fondamentale…”. Ora, è davvero così? Mi pare piuttosto di poter dire (in pieno possesso delle mie facoltà) che la presenza del crocefisso viola un diritto fondamentale. Quale?
Lo Stato è lo Stato di tutti i cittadini. Non ha identità. Accettando dei simboli religiosi nelle proprie strutture (e a maggior ragione in quelle strutture particolarmente sensibili come le scuole, spazi di formazione e crescita) discrimina coloro che credono diversamente e coloro che non credono affatto. Assume un’identità e la impone. Non rappresenta l’altro, ma l’identico: una identità a scapito di tutte le altre possibili.
De Prada arriva addirittura a sostenere che “l’autorità avrebbe l’obbligo di perseguire, invece di concedergli una copertura giuridica”, quel “sentimento di odio antireligioso” che a suo avviso si nasconde dietro la sentenza di rimozione. Non solo va dunque affermata l’identità dello Stato (con tutto ciò che consegue), ma va anche perseguito colui che, al contrario, ritiene che esso, d’identità, non debba averne alcuna. Ed anzi, la costruzione di uno Stato “indifferente” viene subito etichettato come “sentimento di odio antireligioso”.
È dunque l’assenza di identità che de Prada condanna. E infatti “il laicismo che oggi trionfa in Spagna ci vuole sempre più orfani d’identità”. Ma l’identità di cui si è orfani è l’identità cristiana (sarebbe più preciso dire cattolica). E si è orfani d’identità, evidentemente, nel momento in cui emerge uno Stato che non assumendo alcuna identità non ne discrimina nessuna. Veramente i cattolici possono salvaguardare la propria identità soltanto facendo assumere la loro allo Stato di cui sono cittadini? Non è questo in fondo un segno di debolezza?
L’estensore dell’articolo sull’Osservatore romano dimostra inoltre una grande difficoltà a concepire uno Stato senza identità: “il crocifisso, in definitiva, può offendere solo quanti vogliono - e in questo consiste in realtà il laicismo, per quanto si nasconda dietro alibi giuridici - che lo Stato diventi un nuovo dio, con potere assoluto sulle anime”.
Ora, che lo Stato abbia talvolta esercitato nella storia un tale “potere assoluto” non c’è dubbio. Ma lo ha fatto nel momento in cui ha assunto un’identità negando radicalmente tutte le altre. Non lo fa certo nel momento in cui afferma la propria “indifferenza”. Ed è questa la posta in gioco.
Del resto il “potere assoluto sulle anime” più che dagli Stati è esercitato nelle società attuali dal mercato e dai mezzi di comunicazione di massa. Ed è soprattutto con questi ultimi che la Chiesa non esita ad allearsi, soprattutto in Italia, per conservare o espandere la sua influenza. È sufficiente ricordare alcune operazioni mediatiche con cui si rappresentano figure religiose verso cui la devozione popolare raggiunge livelli di idolatria “pagana” – un’idolatria che dovrebbe preoccupare chi crede nel messaggio evangelico.
Mi chiedo se queste forme di diffusione della fede non impediscano un accesso critico ad essa, ovvero la scoperta di essa come scandalo, eccezione, novità. Lo stesso insegnamento della religione nelle Scuole pubbliche non mira soltanto a fornire allo Stato un’identità. Esso tende soprattutto a rendere la fede qualcosa di scontato, un’identità per l’appunto data, trasmessaci in un certo senso automaticamente.
Dovremmo ancora chiederci, per concludere: davvero la fede ha bisogno dello Stato? È davvero lo Stato che può garantirne la presenza nella società?
Ricordiamoci il detto evangelico, mille volte pronunciato, mille volte ripetuto: “date a Cesare che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Ebbene: che fede è quella che ha bisogno di Cesare?