
Sulla rappresentanza politica del lavoro
di Silvano Andriani*
Mi concentrerò sul tema della rappresentanza politica del lavoro. La issue più caratteristica del movimento socialista alle origini non fu quella, peraltro molto importante e molto sottolineata da Norberto Bobbio, dell’uguaglianza, che è stata propria di tutti i movimenti progressisti. Fu invece quella di trarre il lavoro fuori dalla condizione di merce cui l’aveva ridotto il capitalismo. Soprattutto su tale aspirazione, credo, sia stata fondata l’idea del partito della classe operaia e la stessa idea della lotta di classe. Nelle diverse componenti del socialismo era generale la convinzione che la liberazione del lavoro sarebbe venuta da un ricongiungimento di esso con il controllo dei mezzi di produzione, ma sul modo come tale ricongiungimento avrebbe potuto essere realizzato le idee non erano identiche e non erano chiare. Lo stesso Marx ipotizzò che, alla fine, si sarebbe creata una società autogestita, nella quale lo Stato sarebbe scomparso, senza dare, però, di essa una descrizione convincente.
Ci sono state alcune esperienze e lo stesso movimento cooperativo trae origine da quella idea, ma l’esperimento più importante resta quello del «socialismo reale». L’insuccesso di quella esperienza ci dice molte cose a proposito della pianificazione centralizzata e dei regimi a partito unico, ci dice anche che la liberazione del lavoro non può realizzarsi in un colpo solo con un atto giuridico, sia pure rivoluzionario, come la statalizzazione dei mezzi di produzione, visto che le condizioni di lavoro nelle imprese socialiste non sono certo risultate migliori di quelle dei Paesi capitalisti. La liberazione del lavoro può essere solo il frutto di un processo di lunga durata, ma esplicitamente orientato a quel fine. Nel corso dell’esperienza del socialismo reale il partito cambiò la sua natura. Il partito bolscevico non era mai stato il partito dei lavoratori, era un’avanguardia rivoluzionaria, nel tempo divenne il partito delle tecnocrazie e delle burocrazie che gestivano le imprese e la pianificazione. E il sindacato una cinghia di trasmissione delle direttive del partito.
Come sono andate le cose sul versante riformista? Dal punto di vista del processo lavorativo molto male direi. Il cosiddetto compromesso socialdemocratico comportava l’accettazione di un modo di produzione – parcellizzazione del lavoro, taylorismo – estremamente alienante; in compenso, il processo di valorizzazione del capitale, tanto per continuare a usare il linguaggio di Marx, fu sussunto all’interno di un meccanismo di distribuzione del reddito determinato e gestito politicamente e orientato a creare condizioni di benessere per tutti i cittadini. La piena occupazione, tra l’altro, era il principale obiettivo dell’approccio welfarista. È bene ricordare che nel quadro dell’approccio riformista cambiò anche la visione dell’impresa e non è un caso che a lanciarla fu proprio Henry Ford, colui che aveva introdotto il nuovo modo di produrre. Nel suo «Piano Americano», che fu anche punto di riferimento per l’esperimento di «Comunità» fatto da Adriano Olivetti, l’impresa venne teorizzata non più come semplice coacervo di contratti individuali, ma come un costrutto sociale,un sistema di relazioni fra parti diverse che doveva comportare un certo bilanciamento del potere.Il ruolo della rappresentanza del lavoro mutò rispetto al passato. Il sindacato diventò il principale artefice del bilanciamento del potere,che in alcuni casi giunse anche a forme di autogestione, mentre il partito, nel modello socialdemocratico puro, cioè quello scandinavo, divenne il regolatore, attraverso lo Stato, del meccanismo distributivo e quindi dell’allocazione delle risorse. Si può dire che il focus dell’impegno a dare un senso al lavoro si spostò dal come il lavoro veniva usato nell’attività produttiva a per che cosa si lavorava, cioè per una condizione di benessere. Schematicamente si può dire che il modello welfarista dovette fare i conti con due contraddizioni. La prima dovuta al fatto che durante«i trenta anni gloriosi» successivi alla Seconda guerra mondiale, nei quali il modello welfarista si affermò nei Paesi avanzati, il distacco tra questi e i Paesi del «terzo mondo» non fece che crescere. Vale la pena di ricordare che analizzando questa tendenza, alla metà degli anni Sessanta, Gunnar Myrdal, il principale padre fondatore dell’idea dello Stato sociale, sostenne la necessità «to go beyond the welfare state». L’altra contraddizione era intrinseca al modello: più aumentava il benessere e il livello culturale della popolazione, meno appariva accettabile ed efficiente il modo di produrre taylorista. Entrambe queste contraddizioni esplosero nella crisi degli anni Settanta.
Il neoliberismo ha vinto in quanto è riuscito ad accreditare due idee chiave: che nel processo di globalizzazione trainato dai mercati vincano tutti, come già sostenuto nell’Ottocento dalla famosa teoria dei costi comparati di David Ricardo e che la centralità dei mercati, di per sé, ampli la sfera di libertà degli individui, soprattutto in quanto consumatori, ma anche come produttori, visto che i mercati premierebbero il merito e perciò aumenterebbero la mobilità sociale. I fatti hanno di nuovo ampiamente smentito queste tesi; del resto, è intuitivo che se aumentano, come sono aumentate quasi dappertutto, le disuguaglianze, le opportunità di vita non possono che divergere.Col prevalere dell’approccio neoliberista cambiò ancora la visione dell’impresa: la teoria dominante negli ultimi venti anni è diventata la«shareholder value», che tornò a concepire l’impresa come semplice coacervo di contratti individuali, coordinati però da un soggetto forte: il capitale finanziario. Unico compito dell’impresa sarebbe, secondo tale teoria, di «produrre valore per gli azionisti», cioè profitti. In esso si esaurirebbe ogni ruolo sociale dell’impresa, giacché, per dirla con Milton Friedman, «The business of business is business». Il management opererebbe come agente del capitale finanziario e l’unico problema sarebbe «the agency cost», cioè il rischio di un disallineamento dell’interesse dell’agente rispetto a quello del proprietario. Le stock option sono state usate per contrastare tale rischio coinvolgendo il management nella proprietà. Sappiamo come è andata a finire.Le crisi finanziarie e i grandi scandali societari del decennio trascorso hanno ferito a morte la shareholder value minandone la base teorica e cioè l’assunto della razionalità ed efficienza dei mercati. È stata ormai ripudiata da tutti, ma in pratica resta dominante. La sinistra ha disertato questo terreno di confronto sul quale, è evidente,si definisce anche il ruolo del lavoro nell’impresa e nella società e questa, a mio avviso, è la prova più evidente della sua subalternità culturale. Nella visione neoliberista, è chiaro, non ha senso una rappresentanza politica e neanche sindacale del lavoro e la sinistra ha reagito spesso allentando il suo rapporto con i lavoratori e spostandosi al centro.
Ora vorrei fare tre considerazioni prima di porre la domanda conclusiva.Innanzitutto, Karl Marx è stato il primo a individuare nel capitalismo la tendenza a una potenziale separazione della gestione dell’impresa dalla proprietà, definendo i manager «funzionari del capitale». Solo negli anni Trenta del Novecento la dottrina ufficialeè riuscita, con Adolf A. Jr. Berle e Gardiner C. Means, a teorizzare l’impresa manageriale. Nell’approccio marxista, tuttavia, resta, a mio avviso un limite importante: la sottovalutazione della funzione imprenditoriale. Questo fu un limite di tutta la scienza economica dell’epoca e oltre; basti pensare che la teoria neoclassica, dominante per quasi un secolo, aveva difficoltà a spiegare l’esistenza stessa dell’impresa. A superare quel limite è stato Schumpeter, non a caso l’economista accademico che più conosceva Marx e che ha elaborato una teoria del ciclo, in qualche modo, parallela a quella del terzo volume del Capitale.
Nell’approccio di Schumpeter ha un ruolo chiave l’imprenditore, definito come differente non solo dalla proprietà, ma anche dal manager. Per lui, infatti, l’imprenditore non è colui che si limita a gestire l’impresa, ma colui che crea l’impresa, che crea nuovi modi di produzione, o nuovi prodotti, o, addirittura, nuovi campi di attività. Quella imprenditoriale è, dunque, una funzione creativa, che riveste un’importanza particolare nelle fasi di «distruzione creatrice» che segnano, per Schumpeter, ma in qualche modo anche per Marx, il passaggio da un ciclo economico a un altro.
In secondo luogo vorrei richiamare un concetto elaborato dopo la crisi della shareholder value da Neil Fligstein: «conceptions of control». Secondo questo autore la ratio dominante nella governance delle imprese cambia nel tempo in seguito al mutare delle alleanze che si stabiliscono tra i diversi soggetti che insistono nell’impresa. Secondo questo autore ora saremmo in una fase di passaggio. Avevo notato, commentando qualche anno fa questa tesi, che i mutamenti di fase non avvengono semplicemente nelle singole imprese, ma sono indotti dal mutamento del contesto sociale e politico.
A me pare evidente che la politica di Roosevelt, le leggi con le quali rafforzò il controllo delle imprese sui mercati e affermò un potere di controllo monopolistico dei sindacati sul mercato del lavoro, crearono le condizioni di quel bilanciamento del potere nelleimprese che fece da base a un’alleanza fra capitale industriale e sindacati e rese dominante la visione dell’impresa che Henry Fordaveva lanciato qualche decennio prima. Così la politica e le leggi antisindacali di Thatcher e Reagan spianarono la strada all’alleanza fra capitale finanziario e capitale industriale, cioè management,che ha caratterizzato gli ultimi tre decenni e che trova riscontro nel fatto che quasi dappertutto rendite e profitti sono aumentati a scapito della quota del lavoro sul reddito nazionale. L’ultima c o n s id e r a z io n e c o in c i d e c o n u n a c it a z io n e d i
Claudio Napoleoni. Siamo in un convegno sul neoliberismo organizzato dalCespe nel 1981. Allora usavamo analizzare i processi della realtà intempo reale. Tutti convenimmo che eravamo di fronte a un mutamento di fase del capitalismo di lunga durata.
Claudio sostenne, tuttavia, che eravamo alle soglie di una nuova rivoluzione tecnologica, «… che è certamente basata su una nuovacombinazione di scienza e tecnologia…»; aggiunse: «Credo che i
meccanismi innovativi del mercato su questo terreno falliscano». E disse inoltre che la piena utilizzazione del potenziale di tale rivoluzione tecnologica spetterebbe alla sinistra assumendo la questione della liberazione del lavoro, della possibilità che oggi è diventata storicamente matura, di superare, in un processo che sicuramente sarà lungo, quella scissione, che ha caratterizzato tutta l’epoca capitalista, tra lavoro meramente esecutivo e lavoro cognitivo. Ciò che colpisce in questo intervento è, da una parte, l’intuizione profetica dell’«economia della conoscenza» di cui oggi tutti parliamo; dall’altra, la convinzione che il mercato, di per sé, non è disposto a utilizzarne tutto il potenziale. Importanti ricerche in corso ci dicono che la scelta delle tecnologie non è neutrale, dipende dal soggetto che comanda nell’impresa e che il capitale finanziario ha in generale interesse ad adottare quelle tecnologie che più gli consentono di mantenere il controllo sull’impresa e mantenere un orientamento a ottenere profitti nel breve periodo. D’altro canto ricerchesu come si sono distribuiti i guadagni di produttività negli ultimi anni ci dicono che sono state penalizzate anche figure di lavoratori tipiche dell’economia della conoscenza. L’orientamento del ciclo tecnologico è determinato dalla distribuzione del reddito e dalle forme della governance delle imprese.Vengo così alla domanda conclusiva. E possibile oggi, pur in presenza della maggiore diversificazione del mondo del lavoro che il convegno ha già messo in luce, trovare una issue unificante che ponga il lavoro al centro di un nuovo modello di sviluppo e dia nuovo senso alla rappresentanza politica del lavoro? Sono convinto che lo impaginato sia, se si assumerà come obiettivo centrale di un nuovo modello di sviluppo quello di consentire alle persone di realizzare nella misura massima possibile attraverso il lavoro le proprie capacità; capabilities, per dirla con Amartya Sen. Questa, evidentemente, è un’aspirazione comune a ogni tipo di lavoratore ed è nell’interesse della società renderla realizzabile.
Se si pensa a uno sviluppo economico siffatto, allora bisognerà orientare diversamente le imprese e la società. Questo ci riporta al tema della visione dell’impresa, della governance e della ricerca di modi di produzione che consentano nella misura massima l’uso della conoscenza. Certo il mondo delle imprese e anche le forme di governance resteranno diverse e anche il livello di conoscenza e i tempi nei quali essa sarà introducibile nei processi lavorativi saranno diversificati; importante sarà che il processo vada nelle diverse situazioni e,sia pure con tempi e modalità diverse, nella direzione desiderata e che si sia in grado di operare con quell’obiettivo in modi diversi nelle diverse situazioni. Ma andrebbero riorientati la visione e il funzionamento dell’istruzione e del complesso delle attività formative, della cultura e riorganizzato su nuove basi il mercato del lavoro e le politiche di welfare.In una tale visione, sono convinto, sia arrivato per la sinistra il tempo
di elaborare una propria teoria positiva della funzione manageriale.A partire da Schumpeter. Funzione imprenditoriale e lavoro cognitivo non sono la stessa cosa, ma il confine è molto mobile e le sovrapposizioni crescenti; anche l’imprenditorialità, ovviamente, si basa sulla conoscenza. Se si assume l’imprenditorialità come una funzione creativa, allora è nell’interesse della società diffonderla in massimo grado, il che significa renderla accessibile al maggior numero di persone,
allargando la base sociale della selezione degli imprenditori e separando sempre più questa funzione dalla proprietà. Significa premere nelle grandi imprese per un decentramento delle informazioni e delle responsabilità, contrastando la tendenza a concentrare le informazioni sensibili nel top management che è alla base dell’enorme attuale divario retributivo fra manager e altri lavoratori.
Significa trovare forme di governance più decentrate anche nei distretti industriali e nelle reti di imprese. Significa realizzare in taluni casi quella «impresa di capitale e lavoro» preconizzata da James Meadee in una certa misura già realizzata in esperienze tipo Silicon Valley, esempio di un diverso modo di operare della finanza e di un’alleanza positiva tra capitale finanziario e conoscenza.Una strategia di questo tipo potrebbe favorire l’unità del mondo del lavoro e la formazione di un blocco sociale per l’innovazione.
*In collaborazione con la Rivista mensile Argomenti Umani diretta da Andrea Margheri