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Le stecche del pifferaio magico

 

di Andrea Margheri*

 

(…) Dobbiamo ritrovare nelle storie diverse che stanno confluendo verso l’alternativa, le ragioni di un progetto unitario di governo capace di cambiare l’Italia e di ricollocarla da protagonista nella corrente delle grandi trasformazioni mondiali. E per la verità, i grandi successi elettorali del centrosinistra ci spingono a riproporre con forza quelle diverse ragioni come radici ancora vitalissime di una nuova cultura e di una nuova proposta. Ma queste saranno adeguate all’analisi della crisi economica mondiale, saranno consapevoli dei rischi attuali della democrazia e dell’economia del nostro Paese nella stessa misura in cui saranno attraversate dal coraggio dell’autocritica.

Dobbiamo innanzitutto rispondere alla domanda: perché in questi decenni siamo rimasti frantumati e, alla fine, soccombenti? Perché non abbiamo fatto valere le ragioni politiche, culturali e sociali della riscossa progressista che pure a tratti sono riemerse anche sul piano elettorale? Che cosa è mancato finora alla cultura progressista e riformista per opporsi con efficacia alle forze di coalizione di Berlusconi e del centrodestra?

9Non credo che l’entusiasmo dei trionfi elettorali possa essere turbato da simili domande. Semmai può essere correlato alle risposte che si possono dare. Occorre una premessa metodologica: dobbiamo ricondurre il concetto di mistificazione ai suoi limiti razionali. La mistificazione elevata a ‘categoria dello spirito’– strumento per interpretare e duplicare la realtà, creandone un’altra parallela cosiddetta virtuale, ma capace anch’essa di plasmare le vicende umane – sino a pochi anni fa si poteva rintracciare solo nel pensiero più negativo intorno alla nuova civiltà della comunicazione generata dalla inesausta rivoluzione tecnologica. E negli incubi letterari che l’hanno descritta. Abbiamo vissuto i decenni in cui essa è via via diventata uno strumento, in certi casi decisivo, della lotta politica. Con la variante ‘anomala’, così rilevante nella vicenda italiana, del populismo berlusconiano. Esso è vissuto della straordinaria capacità del Grande Imbonitore di vendere la mistificazione come merce genuina; gli annunci come realizzazioni, i fantasmi del passato come nemici in- combenti e minacciosi, i più ‘vieti’ luoghi comuni come principi innovativi e dinamici, le regole del vivere civile come vincoli intollerabili imposti di volta in volta dallo statalismo, dalla magistratura ‘rossa’, dai comunisti annidati nei posti di comando.

Se guardiamo alla nostra storia recente un enigma irrisolto fa pensare: perché una gran massa di cittadini e di elettori lo hanno seguito come i fanciulli seguivano il pifferaio magico nella favola? Basta a spiegare il successo quasi ventennale della mistificazione berlusconiana la capacità imbonitrice e trasformista del premier? Possiamo tentare di rispondere con una riflessione sull’attuale e crepuscolare ‘esondazione’ di mistificazione. Questa, ora, dopo il crollo elettorale delle amministrative funge da ‘mantra’ consolatorio («il Cavaliere vince ancora 4 a 1»), da promessa di rivincita sul terreno delle gran- di riforme a partire dal fisco, da appello alla riscossa dei fedelissimi contro i traditori, gli ignavi, i dubbiosi. E ancora in certi settori dell’elettorato funziona la sindrome del pifferaio magico.

Possiamo dire che ciò avviene anche a prescindere dal grado di credibilità dello stesso pifferaio, per una spinta diversa e più profonda dell’attrazione che essa esercita. Oggi, infatti, l’efficacia dell’armamentario storico di Berlusconi è stata seriamente vulnerata sia sul terreno del governo effettivo del Paese e della inconcludenza degli annunci miracolistici, sia da quella commistione di privato e pubblico che appare comunque, indipendentemente dal giudizio penale riservato solo ai giudici, indegno di uno statista. E le stesse invettive minacciose contro la magistratura, la Corte costituzionale, la stessa Carta sono ora dei boomerang incontrollati.

La riflessione, dunque, ripercorrendo l’intera parabola del berlusconismo, consente di confrontare le diverse fasi. Scopriamo allora che le ragioni del consenso e del sostegno sono ben più generali e profonde della sua efficacia propagandistica e riguardano la natura stessa del ‘sistema Italia’, le sue caratteristiche essenziali, nello sconvolgimento economico, commerciale, demografico, geopolitico degli ultimi decenni. C’è un significato profondo, che la cultura di sinistra ha il torto di aver sottovalutato, nelle paure che hanno at- traversato i diversi settori della società italiana di fronte alla globalizzazione, in forme ed esiti diversi certo, ma sempre in un quadro potenzialmente unitario.

Confrontiamo, dunque, la traiettoria ‘asincrona’ dello sfaldamento della maggioranza del 2008 e dei suoi interni contrasti, con le ‘esondazioni’ della mistificazione berlusconiana sempre più grottesche. Si ricava la conferma che la propaganda come sostituto della politi- ca non è, come è sembrato a molti, l’origine culturale e il nocciolo forte del berlusconismo, ma è stato lo strumento sinora efficace di una concezione delle relazioni sociali e politiche molto più ampia e generale. Questa scaturisce dall’insieme degli interessi e dagli adat- tamenti competitivi che hanno costituito il ‘modello Italia’ negli ultimi decenni (dagli anni Settanta al Duemila) e che ora cerca di sopravvivere alla grande crisi finanziaria e alla nuova competitività mondiale. Un modello che sopravviveva e sopravvive sfruttando non solo i suoi ‘punti di eccellenza’ così efficaci sui mercati mondiali, ma anche le sue interne arretratezze e contraddizioni, così come le sue ‘zone oscure’ sul piano del rispetto delle regole e del fisco. Così, nel tessuto della piccola e media impresa che costituiscono la grande massa del tessuto industriale italiano con le ‘punte’ di eccellenza qualitativa coesistevano, finché è stato possibile, la forza incontrollata del sommerso, la svalutazione competitiva, l’affidamento dell’innovazione non già a un collegamento sistemico delle imprese singole o associate con la ricerca nelle sue diverse articolazioni, ma al ‘fai da te’ più o meno dinamico dei collegamenti informali e quasi casuali su scala mondiale. Grazie alle generazioni di artigiani-imprenditori e alla cultura specifica e diffusa di alcuni contesti sociali industriali e mezzadrili l’informalità ha funzionato, ma non ha generato sufficienti elementi per essere all’altezza della fase nuova, di più generale e dura competizione sul terreno scientifico e tecnologico. Negli stessi decenni il sistema bancario e assicurativo è rimasto in ritardo nei rapporti con l’impresa rispetto al livello di dinamicità raggiunta in altri Paesi: basta pensare alla mancata introduzione del ‘venture capital’. Negli stessi decenni, il sistema delle imprese maggiori, anch’esso ricco di punte di eccellenza, in altre parti veniva devastato dalla rincorsa alla finanziarizzazione delle attività a scapito degli investimenti in innovazione di prodotto. L’uno e l’altro pro- cesso era indipendente dalla natura pubblica o privata della proprietà: si è trattato di una spinta generale a collegarsi alle più rischio- se tendenze internazionali.

A questi elementi di crisi presenti nel tessuto industriale pur ancora così forte corrispondeva una generale arretratezza nella scuola e nelle aziende dei processi di formazione delle risorse umane, un disimpegno crescente dalle problematiche della qualità e del ruolo sociale del lavoro. Tutto ciò si è rivelato drammaticamente con la superficialità colpevole con cui l’economia italiana e le istituzioni hanno guardato alla precarizzazione del lavoro. Frattanto si mostravano rigide e incrollabili le piazzaforti organizzative e legislative entro cui si annida il privilegio corporativo e che si ergo- no contro il libero accesso delle nuove generazioni alle professioni e a molti mestieri. Queste pesano gravemente sul costo complessivo del modello, paralizzando la mobilità sociale e favorendo, tra l’altro, la fuga dei cervelli.

Se a questo si aggiunge il perdurare della crisi di più antica origine, che però in quegli anni ha continuato a colpire in vari modi la scuola e l’università, se si aggiunge l’incapacità di organizzare e adeguare ai tempi e alle opportunità tecnologiche le reti infrastrutturali, si ricava – come ben hanno documentato molti autori come Andriani, Gallino, Ruffolo, Vaccà, Rullani, Zamagni e tanti altri – quel quadro di stagnazione e di frammentazione che ancora perdura e che sta al- la base del ritardo italiano in Europa e nel mondo.

Come viene ripetuto dagli storici, dal Guicciardini in poi, la stagnazione e la frantumazione dei ‘particulari’, degli interessi specifici di territori, categorie, famiglie potenti è un «ricorso» permanente dell’Italia, è nel suo Dna di nazione divisa e invasa per secoli. Ma in quel momento specifico, nel momento della creazione di Forza Italia. quelle caratteristiche assistenziali furono affrontate con piglio propagandistico veramente eccezionale – per la verità favorito dalla lunga preparazione teorica di tanti ‘maîtres à penser’: basti pensare alla P2 e, per altro verso, al craxismo – con l’ipotesi e la promessa berlusconiana di portare in fondo la ‘rivoluzione’ liberista italiana. Non già nuove regole per un mercato competitivo, ma deregolazione spinta e ‘alleggerimento’ dello Stato e del fisco; potere accentrato e personalizzato di modello aziendalistico per dare uno strat- tone imprenditoriale al Paese; qualche lusinga alla richiesta leghista di un aspro protezionismo razzista sia sul terreno sociale e territoriale, sia sul terreno economico.

La frammentazione viene unificata sotto la bandiera di un’Italia in cui tutti devono diventare proprietari, in cui sono messi in discussione la Costituzione e l’assetto istituzionale, in cui lo Stato deve solo ritirarsi come un servizio secondario gestito come un’azienda. È chiaro che nella visione di Forza Italia del ‘94 l’Europa appare distante o addirittura ostile; c’è invece, nella Lega la nostalgia della lira e della svalutazione competitiva. Entrano, poi, in campo, co- me elemento politico non secondario, ma connaturato con il berlusconismo, l’attacco permanente alla magistratura in nome del ‘garantismo’. In realtà, la magistratura è colpevole di non veder chiaro negli affari del Cavaliere, come dubiterà, in seguito, dei suoi comportamenti privati. Ma questo diventa un pesante scontro istituzionale; non privo di echi a livello internazionale.

Questa concezione potrebbe essere definita con questo slogan: manteniamo i caratteri del ‘non sistema’ italiano e andiamo fino in fondo con un pragmatismo spregiudicato, al limite della provocazione, nell’adeguamento della Costituzione e dello Stato agli interessi ‘particulari’. Ma non solo essa si rivela nel tempo completamente irrealistica, soprattutto dopo la crisi globale e la svolta che il mondo sta imprimendo ai rapporti competitivi tra i diversi sistemi economici e so- ciali, ma si rivela terreno eccessivamente fertile per le cricche che gestiscono, in un sottobosco melmoso, l’intreccio tra politica e affari, facendo impallidire il ricordo di Tangentopoli.

Questa è la rivoluzione liberista che dal ‘94 con varie traversie, come la rottura con la Lega, poi sanata, ha sdoganato e unificato le componenti del centrodestra, eredi dei democristiani, dei liberali, del socialismo craxiano, di una parte dei repubblicani, sino ai neofascisti di Fini già incamminati sulla via di Damasco di An. Un cemento che ha retto a molte prove, che ha ‘organizzato’ il populismo privatista e antistatalista di Forza Italia con il localismo settario e discriminatorio della Lega e il nazionalismo di An. Miracolo non della propaganda, ma di quel coacervo di interessi che si è nutrito e si nutre degli elementi peggiori della realtà italiana, umiliando nel contempo il lavoro e le punte di eccellenza, le grandi risorse di inventiva e di intelligenza. Così facendo esso aumenta le disuguaglianze e, in certi casi, come per i giovani, le rende intollerabili.

Il crepuscolo di questa concezione non deriva dall’esaurimento della verve propagandistica di Berlusconi, ma dal fallimento del suo nocciolo programmatico, della sua idea forza. La crisi, le difficoltà del capitalismo finanziario, il travaglio dell’Europa, la corsa impetuosa dei Paesi emergenti non tollerano il ‘non sistema’ degli interessi particolari, chiedono, più sistema, più capacità di elaborare un disegno razionale e unitario non solo di crescita economica, ma di riorganizzazione sociale. Nella nuova situazione europea e mondiale un Paese che vede decrescere il suo livello di produttività e che si riconosce incapace di programmare e organizzare la crescita è destinato a una deriva senza speranza. Sono, dunque, le condizioni oggettive e impellenti che richiedono anche nelle ristrettezze finanziarie che la crisi impone, non la ‘ritira- ta’ del pubblico, ma un pubblico migliore e meno caro, liberato dalle cricche, autonomo dagli interessi particolari e totalmente rispettoso del mercato competitivo; e soprattutto una politica industriale degna di questo nome. Sono le premesse necessarie anche per sperare di affrontare con qualche risultato il dualismo tra il Nord e il Sud del Paese.

Richiedono una vera guerra di liberazione (anche in questo devono consistere le riforme) contro i privilegi corporativi. Richiedono più eguaglianza, maggiore giustizia sociale, una vera apertura alle opportunità di accesso al lavoro e alla vita delle nuove generazioni. Richiedono non annunci, ma severi programmi e seri controlli per lo sviluppo di nuove ‘reti’ infrastrutturali che facciano dell’Italia il crocevia del Mediterraneo e dell’Europa per l’energia (il gas), per i trasporti marittimi, per gli scambi commerciali.

Richiedono valorizzazione del sapere, della ricerca, dell’innovazione, del lavoro in tutte le sue forme. Su queste esigenze sbatte la faccia e si frantuma il centrodestra, non sulla stanchezza ripetitiva della mistificazione berlusconiana. È la realtà che si impone, contro le illusioni della propaganda.

Ecco perché è necessaria la percezione autocritica della nostra storia presente. Come è stato documentato molte volte e da vari autori su «AU», i progressisti italiani hanno dovuto subire la risposta di centrodestra alle difficoltà degli anni Novanta perché la loro risposta era frammentata e contraddittoria per l’incidenza di analisi e formule invecchiate.

Ora, le lezioni degli ultimi anni devono spingerci a dare compattezza, omogeneità all’ipotesi di riforme efficaci per l’uscita dalla crisi attraverso il rafforzamento e, in certi casi, la costruzione del ‘sistema Italia’ con la valorizzazione delle sue eccellenze, delle sue opportunità competitive. Un programma che le culture progressiste già hanno nel loro patrimonio di idee ma che devono rendere esplicito agli elettori, ma anche di fronte al dibattito europeo e mondiale. Per questo, nel crepuscolo del berlusconismo e nella frantumazione strutturale del centrodestra, il motore dell’unità non sta nella scelta pregiudiziale delle alleanze, ma nella forza del progetto, nella proposta di rilancio di un rapporto interattivo e dinamico tra pubblico, privato e comune. A cui le alleanze, caro Pd, seguiranno necessariamente. 

 

 

*In collaborazione con la Rivista mensile Argomenti Umani diretta da Andrea Margheri

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