La tenuta di Rajani di Alon Hilu e La controvita di Philip Roth
Olocausto spirituale
di Graziella Falconi*
È sbarcato in Italia La tenuta Rajani (Einaudi 2011, pp. 306), romanzo di Alon Hilu che nel 2009 vinse il più importante e ricco premio letterario di Israele, il Sapir. Premio che dopo tre mesi di polemichesui giornali, gli è stato ritirato con la motivazione che tra gli organizzatori del premio c’era un suo parente; un conflitto d’interesse. Maquesta è soltanto una parte della verità. Il libro era piaciuto a SimonPeres, che ne aveva apprezzato le qualità artistiche, ma aveva suscitato anche l’interesse della Knesset che invece lo aveva trovato orribile.
Il romanzo osa parlare, infatti, di catastrofe, usando cioè il terminecon cui gli arabi indicano l’esodo palestinese, e proprio nel momento in cui il governo di Netanyahu ha deciso di abolire questaparola dai libri di testo degli studenti arabi d’Israele. La famiglia di
Hilu (nato a Jaffa nel 1972) ha una sorta di biografia ebraica anchese è musulmana, originaria della Siria – Damasco – Paese che ha lasciato per Israele. Non che i palestinesi siano contenti di come sonotrattati nel libro dove appaiono rozzi, selvaggi aggrappati a superstizioni, succubi del più forte, assetati di vendetta, così come recitala XXVII sura del Corano: «Li faremo perire insieme con tutto illoro popolo. Ecco le loro case in rovina a causa dei loro misfatti».
Il romanzo è costruito sul ritrovamento e sulla lettura congiunta didue diari, l’uno arabo e l’altro ebraico. Diari entrambi inaffidabili,contraddittori e contorti. Il protagonista arabo, Salah, dal nome di unprofeta del Corano, discendente della famiglia Rajani di Jaffa, è vittima delle sue allucinazioni. E il protagonista ebreo, Isaac Luminsky,un immigrato polacco – dal nome di una persona reale, HaimMargaliot Kalviirisky, mutato in Luminsky nella versione inglese a
seguito dell’azione legale da parte dei discendenti di Kalviirisky, rinomato agronomo e pioniere della prima immigrazione degli ebreiin terra d’Israele fra il 1868 e il 1947 –, della sua falsità. E non puòessere che così, poiché scrive Hilu «c’è un rapporto complicato tra raccontare la tua storia e vivere la propria vita». Anche uno dei piùgrandi autori ebrei Shmuel Agnon si era cimentato nel raccontodelle origini dell’insediamento ebraico in Giudea; il suo Solo ieri si svolge anch’esso a Jaffa tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio della Seconda guerra mondiale, e l’Autore non cita mai un nome arabo, ignora totalmente la presenza palestinese. L’intento politico di Hilu era quello di rompere un tabù nella narrazione degli anni della fondazione. Un progetto che condivide con alcuni storici,come Benny Morris e Olan Pappe. Una scelta politica e una lettura dei primi anni del sionismo assai controversa che ha causato aPappe il trasferimento obbligato a Londra. In Israele non si tollerano né ombre sui pionieri fondatori del Paese, né l’ironia sui sionisti«che prendono a calci gli abitanti e costruiscono kibbutz proclamando che sono paradisi socialisti», tanto meno contraddizioni sul racconto ufficiale secondo il quale chi fu espulso o se ne andò nel1948 non ha alcuna voglia di tornare. Il romanzo ha inizio il 18 av 5655 (ossia la primavera-estate del 1895) con un incrociarsi di sguardi di curiosità, ammirazione e fiducia reciproca tra il ragazzino dodicenne Salah e Isaac che gli appare biondo e riccioluto come l’arcangelo Gabriele. È la serva della famiglia Rajani, Amina, a riferire a Salah, con parole tratte dal piùvieto repertorio antisemita, che quell’arcangelo «era ebreo, membro di quello strano popolo che infestava ogni angolo del mondo
come pulci e pidocchi, uomini privi di dignità e di onore, con gliabiti sbrindellati e gli occhi velati, sempre immersi nella preghiera egiunti in massa anche a Jaffa per esercitare il commercio e sfruttare gli abitanti conformemente a un istinto scellerato. Tra loro vi erano strozzini che succhiavano il sangue alla brava gente». Salah hadodici anni, nella sua sensibilità malata, non desidera che morire eintanto coltiva storie, prevede il futuro, predice che un uomo dalla
barba nera e folta, parlando con sagacia, cercherà di convincere nobili e sovrani a cercare un regno per gli ebrei. Per non causare vergogna e umiliazione alla famiglia, su ordine di suo padre, Salah è
rinchiuso nella tenuta. Una tenuta in stato di abbandono che tuttavia nasconde una grande forza e una rara bellezza e che fa moltogola a Isaac: «Sarò amico e compagno di tuo figlio e farò il possibile per aiutarlo», promette alla madre Afifa, bella araba dagli occhiverdi, posandole una mano sulla coscia. E così insinuandosi comeun gatto sornione nella stanza da letto di Afifa, tenendo per manoil bambino, Isaac guadagna terreno verso la conquista della tenuta i cui mezzadri ubbidiscono ciecamente alle sue direttive.
Quand’ecco che ritorna Mustafa, il marito di Afifa: è malato, soffredi spasmi e disturbi strani. Verso la fine estate del 1895, muore. «Michiedo quale sia il significato e quale ruolo io abbia in questo evento. Il cielo ha stabilito un curioso destino per me: rendere visita alle terre degli arabi e alle loro mogli. Forse ora mi si spalancherà lastrada per ottenere entrambe e potrò diventare padrone e signoredella tenuta che tanto desidero», così argomenta tra sé, Isaac. Agli occhi di Salah, novello Amleto – non mancano infatti Rosencratz eGuildestern nelle figure di Salim e Salam – Isaac colui che era stato l’arcangelo Gabriele, pur nel fulgore dei suoi riccioli d’oro, appare come il più infido, squallido e spregevole degli individui. Ilbambino nel tentativo di far confessare a Isaac il delitto, lo provoca sul carattere degli ebrei, ancora una volta attingendo a una consolidata tradizione antisemita: «Mi misi a parlare allora in manieravaga del carattere del popolo dell’arcangelo, gli ebrei, domandando se fossero vere le accuse che molti muovono loro circa la tendenza a mentire, a ricorrere al sotterfugio, il perfido arcangelo rispose che in effetti gli accusatori hanno ragione … se fosse pure tipico degli ebrei bramare le proprietà e le mogli altrui e il perfido arcangelo confermò anche questo con una risatina disinvolta, quasici stessimo scambiando battute e barzellette. Egli non sa cosa sia l’onore». Salah è insieme il profeta del Corano, ma anche Amleto e
Ofelia, i molti riferimenti alle tragedie di Shakespeare lo colorano diuniversalismo. Mentre per Isaac il carattere predominante è quelloebreo, un assoluto a sé stante. Isaac, secondo Salah porta alla follia labella Afifa, a sua volta ora Gertrude ora Ofelia ora Lady Macbeth, la
ricatta in continuazione, si dichiara disposto a badare ai braccianti ead occuparsi della tenuta alla sola condizione che l’atto di proprietà,il kushan, della tenuta Rajani passi nelle sue mani: «Altrimenti me neandrò e ti lascerò sola con quel tuo figlio squilibrato e strampalato».
Le pagine del romanzo sono così precipitate dai giorni del sole nell’inverno dello scontento. Salah prevede tutto, il nuovo paesaggioisraeliano, la perdizione degli arabi. In un incontro decisivo tra l’uomo e il ragazzo, quando Isaac chiede: ma insomma, perché sei arrabbiato con me?, Salah risponde di non essere infuriato per le cose cheIsaac ha fatto ma per quelle che farà. Allora Isaac lancia il suo ultimatum, dice basta: «O sei con me o sei contro di me. Se sei con me spogliati di questo manto di rabbia e di astio e indossa la tunica della fratellanza e del rispetto. Se sei contro di me ci dichiareremo guerra».
Hilu lascia quindi nelle mani dell’ebreo Isaac la responsabilità della dichiarazione di guerra, ancorché essa sia causata dalle visioni diSalah, prima ancora che dalla sua ‘sfrenata malvagità’ e dall’incapacità dell’arabo di assumere un principio di realtà. Grava su Isaacl’accusa di una insensata bramosia della terra che oscura la tenerezza del suo cuore, a fronte della quale le maledizioni di Salah nonsono niente. Non bastano tutte le tragedie di Shakespeare per narrare la complicata tragedia dei due popoli, ordita secondo gli uni egli altri (almeno in questo concordi) da Dio.Secondo un detto ebraico quando l’uomo pensa, Dio ride, il pensiero dell’uomo e la parola che ne discende sono la risata di Dio. Èuna risata amara se il Creatore, come scrive Jean Daniel (La prigione ebraica) – per superare la delusione della sua stessa creazione hadovuto inventarsi un piccolo popolo – «che non mette soggezione» – e scegliere di amarlo. Ma affinché Dio non abbia a pentirsidel suo amore, infinito e impietoso, a questo piccolo popolo è imposto di praticare un alto livello di spiritualità. Se così non fosse, senon fosse sacro, Dio stesso non potrebbe amarsi in esso.
Non c’è altro popolo che affondi, come Israele, la sua storia e la suaidentità in questo mito poetico.
Nell’universo ebraico il vincolo identitario è totalizzante. Esso si manifesta anche tardivamente e contro la volontà e le certezze dell’individuo, arriva cioè un giorno in cui un ebreo si dice: «Non sonomai stato niente, quanto sono un ebreo». Il resto è niente. Così in Philip Roth – (La Controvita, Einaudi 2010, pp. 394 ) – a confermache l’ebraismo sopravviverebbe anche se Israele fosse perduta, come sostenne Karl Jaspers: «L’ebraismo è più che lo Stato d’Israele».
«E chi, allora» gli aveva obiettato Hannah Arendt «ha il diritto diparlare per gli Ebrei, come ebrei nel senso politico del termine?».
L’Occidente, l’Europa in particolare , dal 1947 ha inteso dare una risposta al quesito della Arendt concedendo agli ebrei una terra, laGiudea, che non gli apparteneva più da tanto tempo, molto più deiquattrocento e passa anni della loro permanenza in Egitto. Accolti e riconosciuti dalla comunità internazionale che li spronava ad andare avanti, ma non accettati dai loro vicini, gli ebrei concepironolo Stato di Israele come l’ente con il diritto di parlare per gli ebrei, che si assumevano così sia l’onere di «esercitare collettivamente l’ebraismo come etica del diritto e della giustizia» sia quello di badare alla propria sopravvivenza anziché lasciarla nelle mani degli altri.Per questi motivi, sostiene Jean Daniel, il legame degli ebrei con Israele «va molto in là», è molto più forte rispetto alla solidarietà verso qualunque Stato nel quale abbiano scelto di vivere. Il legameebraismo-Israele si rivelerebbe così più forte e intricato di quanto Jaspers sosteneva, aprendo tuttavia delle contraddizioni. Di questecontraddizioni sono diversamente testimoni sia il romanzo di Hilu,sia quello di Philip Roth. Israele suscita simpatie solo quando è piegato e piagato, gli ebreisenza Olocausto, dice Roth, saranno ebrei senza amici. Israele è accusato di aver imparato ad Auschwitz a comportarsi da nazista congli arabi, la forza e la militanza degli ebrei viene considerata immorale, quando attacca e vince unanimemente si grida alla suamalvagità mentre il vinto, pur continuando a esercitare tutto il suoodio, è lodato per la sua virtù.
Che cos’è Israele? Il Paese dove diventare un ebreo normale, il «terreno di coltura per ogni ramo di follia che il genio ebraico possa concepire», «l’ossessiva prigione degli ebrei par exellence», il luogo ideale per gli americani della diaspora che vanno e trovano rassicurazione nelle barbe che gli ricordano la «santa debolezza yddish»?
Secondo Roth il sionismo ebbe le sue origini oltre che dal sogno di sfuggire al pericolo dei ritratti dell’ebreo, come quelli di Salah/Hilu,della crudeltà, della ingiustizia sociale e della persecuzione, dal desiderio di spogliarsi di un comportamento distintamente ebraico, e dicostruirsi «una controvita, che ne fosse l’antimito». Israele come camera di decontaminazione dalla sacralità, il luogo «dove disebreizzarsi», dove diventare laici? Anche se i laici, afferma uno dei personaggi della Controvita, dai tratti fondamentalisti, non sanno per cosa vivono. Nella Controvita, arriva il giorno della riscoperta dell’ebraicità, per Henry, fratello diNathan Zuckerman (alter ego di Roth, come in questo romanzo lo èanche Henry), afflitto da una ipertensione che influisce sulla sua attività sessuale, incapace, com’è, di vivere senza erezione, senza sesso.
Henry fugge dai betabloccanti e si rifugia in Giudea. Nathan, chenon aveva visitato Israele dal 1960, va a riprenderlo. Appena sbarcato in Terra Santa, Nathan è accusato di essere un cattivo ebreo, lo ènella misura in cui non si interessa al fatto che il mondo intero vedrebbe volentieri questo Paese cancellato dalla faccia della terra e anche per non aver coltivato quell’appuntamento ‘l’anno prossimo aGerusalemme’, esattamente come gli arabi se lo danno per la Mecca.
Il tema del ritorno, breve o lungo che sia, come atto sacro. Un po’meno questa sacralità è riconosciuta alla diaspora palestinese, che hafini più utilitaristici. In Roth, uno dei personaggi «in arabo mi diceche sogna di tornare a Giaffa – che un giorno ci tornerà – lo hanno
convinto i siriani, tieni duro continua a prendere a sassate gli scuolabus degli ebrei e un giorno tutto sarà tuo». Nathan Zuckerman è uomo della Diaspora, l’ebreo errante è l’archetipo della diaspora, ossia vive la condizione di quanti, individui epopoli, a seguito e a causa di una situazione di forzatura, abbandonano il territorio di origine per un altro luogo dove vivere e dove siadoperano a mantenere un’identità collettiva sostenuta da un mitoV. S. Naipaul, ad esempio, analizza la grande ambiguità di ricreare l’India a Port au Prince, dove la sua famiglia si era trasferita.
L’alienazione, causata dalla perdita, si trasforma in sentimento diesclusione o di superiorità, in incapacità o in mancanza di volontà diessere pienamente accettati. Il risultato è che pur essendo inevitabilmente trasformati – ogni processo identitario non è che una costruzione variabile e utilitaria – i membri del circolo chiuso degli indianidi Trinidad cercano di ricreare un’India a sua volta non più esistente.
Oggi la condizione di popolo deterritorializzato è una condizione comune a molti popoli e nonostante la globalizzazione continua ad ardere il mito del ritorno. Emozioni disordinate risalenti alla cacciatadal Paradiso terrestre di Adamo ed Eva, alla lotta tra Caino e Abele, alle grandi ere delle origini dell’uomo, alla trasformazione/passaggioda popoli cacciatori-raccoglitori in coltivatori e al timore di essere ricacciati dalla condizione di stanziale a quella di nomade. Ma non sono tutte lacrime quelle che brillano. L’anomalia della diaspora , come sotto linea con cattiveria uno de ipersonaggi di Controvita, è che nella diaspora si conduce una vitacomoda, indipendente. Molte volte senza alcuna vergogna. Accusache viene rivolta anche alla diaspora armena. Così come agli ebrei diNew York che hanno la possibilità di sentirsi a casa propria, arrivati e rispettati. Le contraddizioni dei sentimenti e delle condizioni diasporiche generano tensioni che invertono l’ordine: il vero fanatico non è più ilsalmodiatore davanti al Muro del pianto, ma l’ebreo della diasporail quale – secondo quanto afferma un fanatico, ritratto da Roth nel romanzo – mette l’egoismo davanti al sionismo, il guadagno personale e il piacere personale davanti alla sopravvivenza del popoloebraico, dimentico che per esso non c’era un futuro nell’Europa cristiana dove «non potevano continuare a essere se stessi senza incitare alla violenza forze sinistre contro cui non avevano la minimapossibilità di difendersi». Dove – riassume Roth – la vita dell’ebreo,la sua sopravvivenza doveva essere caratterizzata da: «servilismo,deferenza, diplomazia, autoironia, sfiducia in se stessi, depressione,buffoneria, amarezza, nervosismo, introversione, ipercritica, suscettibilità, ansietà sociale, assimilazione sociale».
Non che la democratica America, dove pure gli ebrei si sentono al sicuro, non stia preparando, con il suo melting pot, i matrimoni tra religioni o razze diverse, di ebrei con non ebree, un secondo Olocausto,un olocausto spirituale.
Roth introduce dunque il tema dell’olocausto spirituale, una filiazione della cultura del dubbio.
Un Primo Levi* stanco e deluso da tutti è messo alle corde, in uncantone, da un giovane che, durante una visita a una scuola, glichiede: perché privilegiare il racconto degli ebrei dopo il Vietnam,i genocidi Stalin ecc.? Roth chiama in causa un processo di ellenizzazione della cultura
ebraica che renderebbe gli ebrei sempre più affetti da autodistruzione, autocontorsione, malati di autoinganno. Un suicidio di massa. Alon Hilu potrebbe dunque essere iscritto a questo club, pur
provenendo da una cultura islamica che ha molto meno frequentazione col dubbio e molto più con la certezza. Quando si parla di Israele invece è vero ogni sinonimo e il suo contrario, la normalità e l’anormalità, il dritto e il rovescio, l’oppositioconcidentorum e la conciditio oppositorum. In questo senso essa èparadigmatica della contemporaneità. Purtroppo non sempre riesce ad arrivare a una sintesi come nello splendido avvertimento diGolda Meir: «Noi forse vi perdoneremo un giorno di aver ucciso inostri figli, ma mai vi perdoneremo d’averci messo nella situazione
di uccidere i vostri».
*In collaborazione con la Rivista mensile Argomenti Umani diretta da Andrea Margheri