Le nuove forze produttive e il PD
di Alfredo Reichlin*
I temi sono tanti. Io avrei scelto di proporre qualche riflessione non solo e non tanto sul fatto che – come sappiamo – cambiamenti epocali sono in atto, quanto sul quesito se stiamo assistendo in conseguenza di essi alla nascita di nuovi soggetti. Parlo di nuove soggettività politiche e culturali sulle quali possa far leva un riformismo che voglia porsi all’altezza delle cose. Dopotutto è una nuova umanità che si sta formando. E i cambiamenti (anche in Italia) sono tali da spingerci a tentare di gettare lo sguardo al di là della contingenza. Almeno tentare. Personalmente sento molto questa esigenza anche perché non credo che basterà una manovra dall’alto per porre fine agli effetti più profondi del ventennio berlusconiano. E se guardo all’afasia della sinistra continuo a pensare che un grande partito si afferma e occupa la scena se interpreta la novità del conflitto dominante e rappresenta i suoi attori. Insomma se è chiaro dove si colloca. Con chi e contro chi.
Mi chiedo prima di tutto in quale quadro tendenziale ci muoviamo. La tendenza di fondo. Parto dal recente giudizio del «Financial Times». Dice Martin Wolf: Dopo tre anni dall’inizio della crisi ci rendiamo conto che dopotutto essa non è stata l’avvio di un crollo mondiale. Dopo
tre decenni di deregolazione la tendenza è per un maggiore intervento dei poteri pubblici ma pur sempre nel quadro intellettuale e istituzionale precedente. Un giudizio che Salvatore Biasco rende più esplicito quando sottolinea che gran parte degli effetti portati nel tempo (30 anni) dall’indirizzo neoliberista della mondializzazione persistono: frammentazione della società, rovesciamento dei rapporti di forza sul mercato lavoro, svuotamento della democrazia, allargamento delle
disuguaglianze. In più le banche sono diventate più grandi di prima e più potenti di prima e per ciò il cuore del potere, almeno in Occidente, resta nelle mani di una ristretta oligarchia. Non basta
quindi constatare che il modello liberista ha fatto fallimento. Pesa il vuoto di un nuovo pensiero capace di misurarsi con una domanda cruciale: il mondo può essere governato sulla base di un così grande squilibrio tra la potenza dell’economia globalizzata e il potere della politica intesa come libertà delle comunità di decidere del proprio destino?
Per molti segni questa contraddizione sta cominciando a manifestarsi. Guardiamo al sommovimento che sta scuotendo il mondo arabo con effetti geopolitici e geoeconomici che certamente saranno molto profondi e su cui non entro. Però non penso che si tratti solo di rivolte del pane o di fanatismi religiosi. Credo che – tra molte altre cose – stia diventando esplosiva la contraddizione tra l’avvento di nuove generazioni acculturate e la condanna di larga parte di esse alla disoccupazione, al precariato e all’emarginazione politica e culturale. Il «grande spreco» di cui ha parlato anche per
l’Italia il governatore Draghi (30% di giovani disoccupati), ma che tanto più esplosivo diventa in presenza di regimi autoritari e corrotti. È l’esempio di nuove soggettività su cui far leva. Aggiungo che è molto importante il venir meno della classica tesi americana (Huntington) secondo la quale tra l’Occidente e il mondo musulmano sarebbe inevitabile una guerra di religione e che, quindi, non
ci sono spazi per un dialogo. Potrebbe invece risultare vero il contrario. Potremmo assistere a un nuovo ruolo del Mediterraneo come centro di nuovi incontri politici e culturali.
Sottolineo questa speranza, ma non sottovaluto le enormi difficoltà.
Diventa obbligata la domanda: dove va l’Europa. L’Europa è più che mai il luogo che definisco il nostro modo di essere. Quanto alla Cina, l’interrogativo che pongo qui, per valutare il suo ruolo cruciale, è: come questo enorme Paese farà fronte all’avvento anche là di nuove generazioni. Il capo degli industriali siciliani, Ivan Lo Bello, si interrogava, di recente, sul fatto che (cito) si affaccia a livello internazionale un inedito capitalismo di Stato che cerca di coniugare mercato e compressione dei diritti politici e sociali. Un nuovo patto sociale sembra emergere (la Cina ne è l’epicentro): è un patto sociale che postula uno scambio tra crescente prosperità collettiva, benessere individuale, efficienza e capacità decisionale dello Stato da un lato e la rinuncia a rivendicare diritti politici e civili dall’altro. «Questo» egli diceva «è il nostro concorrente più temibile, che ha l’ambizione
di scrivere una nuova storia radicalmente diversa da quella che ha accompagnato la vicenda economica e civile dei paesi occidentali». Non so quanto un simile giudizio sia fondato. Lo smentirebbero i nuovi problemi che si sta ponendo la dirigenza cinese la quale appare decisa ad affrontare i troppi grandi squilibri dello sviluppo, spostando risorse verso la produzione di beni pubblici e servizi. Ma quali beni pubblici e quali servizi? Difficilmente potrà replicare il modello dell’Occidente. Dovrà inventare un nuovo rapporto tra produzione e consumo, quindi un diverso modo di vivere. Nasceranno nuovi protagonismi, bisogni nuovi di cittadinanza.
In ogni caso la crisi della democrazia è il problema centrale del mondo attuale. Ed è l’esito non della mondializzazione in sé, ma del modo nel quale essa sta procedendo, cioè come causa ed effetto di uno squilibrio crescente tra la potenza di una economia mondializzata e il potere della politica privata dei suoi strumenti fondamentali (il vecchio Stato nazionale come decisore ultimo a fronte di una economia nel passato largamente domestica).
Arrivo così al punto che mi preme. Come pensiamo di affrontare questo problema? Solo ipotizzando nuove istituzioni sovrannazionali (certo, anche) oppure affrontando, finalmente, il modo nel quale cambia il ruolo della politica in società che la rete della comunicazione unisce, pone a confronto ma che, proprio per ciò, ne mette a nudo le grandi differenze. E questo rende difficile il loro stare insieme. È una questione molto nuova rispetto a tutta la nostra esperienza storica. Si tratta essenzialmente del problema di come rappresentare e dare potere a una umanità che si deve confrontare con una molteplicità di opportunità e di rischi, di bisogni e di domande che si producono su una scala molto vasta, che scavalca i vecchi confini. Le risposte sono difficili ma una cosa mi sembra chiara: non basterà affidarsi al mercato che si autoregola né alla tradizione socialdemocratica. Bisognerà andare più nel profondo dei problemi sociali e culturali. Muovere da essi in nome di una visione più alta dell’interesse generale e, quindi, di una nuova idea del progresso umano. Dopo mezzo secolo – piaccia o no a qualcuno – torna in campo questo grande tema.
Pensiamo a che cosa hanno rivelato quelle duecento piazze italiane occupate dal movimento delle donne. Lì c’era non solo una nuova idea di sé delle donne, ma una visione più ampia della realtà. Si esprimeva una nuova idea della politica. Si andava ben al di là di una rivendicazione di autonomia. Era l’idea di cambiare non solo il proprio posto nell’ordine esistente ma il vecchio ordine nel suo insieme. A me è sembrata una nuova soggettività che occupa la scena. Un movimento che
sposta l’accento dalla rivendicazione dei propri diritti a una reinterpretazione del mondo, a una rilettura complessiva del sapere. C’è quindi molto da riflettere. Si avvertono anche segni di risveglio della sinistra in Europa, a cominciare dalla Germania. Ma è una sinistra diversa che si forma su nuove tematiche, come l’ambientalismo.
Ecco il senso di queste mie sommarie riflessioni. Spingere il riformismo a uscire dal pensiero debole di questi anni. Ma, attenzione, non per nostalgia di ‘sinistrismo’ oppure in nome di non so quale nuova ‘narrazione’, ma come risposta al modo in cui nel tessuto democratico occidentale ha fatto irruzione questa forma nuova di economia a dominanza finanziaria che obbedisce non solo a logiche di profitto (non ci sarebbe in ciò nulla di strano) ma tali da distruggere il legame sociale, a rompere quei compromessi e quei valori che sono il necessario presupposto dei regimi democratici. So che questo tema è molto ostico al pensiero liberal di questi anni. Tuttavia è un fatto che gli effetti sono stati catastrofici. E non solo quelli economici (la bolla speculativa), ma quelli morali e perfino antropologici: un sistema economico basato sull’azzardo morale, sul debito che genera debito e sul denaro che produce denaro, non può che condurre alla devastazione delle risorse naturali e all’impoverimento dei ceti laboriosi. Ecco la grande questione con la quale dobbiamo tornare a misurarci. Il destino e il ruolo del lavoro. È vero che nella società moderna il lavoro non è tutto, ma ciò che sembra venire meno è il grande edificio storico della modernità. Quell’edificio nel quale (a differenza del passato in cui le figure rappresentative erano figure del non lavoro: nobili, soldati, sacerdoti, avventurieri, mentre il lavoro era il sottosuolo della società, il servo) sono protagoniste le nuove grandi
forze produttive. La borghesia e il proletariato. E, attraverso il loro conflitto, il mondo occidentale converge verso la costruzione di un nuovo ordine: i diritti e i doveri, la libertà e la democrazia.
Ricordo a me stesso che quello che viene chiamato capitalismo (questa parola indefinibile usata pochissimo perfino da Marx) è una vicenda storica peculiare non di tanti secoli fa e non è solo un fenomeno economico. È stato ed è una civiltà, ed è stato anche, sia pure nelle forme più crudeli e tormentate, un processo di emancipazione dell’uomo da vecchi vincoli. La mia domanda quindi è: quella di oggi è solo una sua variante o una rottura che ci pone di fronte a problemi veramente nuovi di convivenze e di sostenibilità? Non mi voglio infilare in una disputa storiografica. Voglio solo ricordare che, se la cosiddetta economia di mercato è cresciuta in simbiosi con la civiltà europea, ciò è avvenuto non perché aveva scoperto il mercato (il quale esisteva sotto i regimi più vari da millenni), ma per il fatto che il potere politico dettava al mercato quelle regole
che lo rendevano, non certo il luogo dell’uguaglianza ma nemmeno quello della lotta tra belve. È ciò che un economista e uno storico come Paolo Prodi chiama il «dualismo», un dualismo inteso come non coincidenza del potere politico con quello economico e come compresenza e concorrenza di norme etiche e di diritto positivo con l’avidità dell’uomo economico. Il che ha rappresentato quel fattore che ha via via portato allo sviluppo dell’uomo moderno, e quindi alla
creazione della democrazia e dello Stato sociale. C’è qualcosa che non regge in una situazione che è tornata a considerare il lavoro un residuo. È una grande questione politica, non sindacale. La quale si intreccia con l’altra grande questione di cui parliamo poco e cioè con l’evoluzione in atto dell’idea di impresa (strumento per creare «valore» agli azionisti attraverso il gioco di borsa
oppure luogo dove con la collaborazione di forze diverse si fa l’innovazione e si crea l’economia reale?). A chi considera questi temi troppo radicali e poco riformisti vorrei ricordare che ciò che è in gioco è il fondamento della democrazia. Perché su che cosa si regge una democrazia e su che cosa si basa la vitalità delle istituzioni se (dico la cosa più semplice) un giovane sa in partenza che la sua vita e il suo destino saranno solo una successione di lavori precari? D’accordo,
il lavoro non è tutto. Ma come quel giovane, precario a vita, potrà costruire la sua persona e farsi carico di un’etica pubblica? Cosa diventa una comunità? Io non sfuggo alla impressione che qui si definisce il terreno del conflitto etico-politico oltre che sociale. Ma è proprio qui, è su questo terreno, che io penso si possa formare quella nuova sintesi tra la tradizione democratica del socialismo e l’umanesimo cristiano, l’idea sulla quale alcuni di noi lavorano da anni ma
finora con scarsi risultati. Siamo di fronte a qualcosa di paradossale. Governi e banche centrali si sono indebitati per migliaia di miliardi di dollari per salvare le banche. Con l’effetto che il debito privato si è trasformato in debito pubblico. E, quindi, il paradosso: mancano le risorse per gli investimenti produttivi, per lo Stato sociale, l’occupazione e lo sviluppo. La classica situazione in cui la ricchezza privata si nutre della miseria pubblica. Ho sotto gli occhi la bozza di programma che tra pochi giorni presenterà il Pd. Ma non è di questo che voglio parlare. Sollevo un problema politico. E cioè che affrontare un tema di questa natura impone di porre mano a una profonda riforma del sistema politico che da vent’anni condiziona pesantemente la situazione italiana. Il populismo. L’uomo solo al comando. Ciò che vediamo. Dico solo a questo proposito che una alternativa vincente dovrebbe fare meglio i conti con il fatto che Berlusconi non viene dal nulla ma dal vuoto creato dalla fine dei grandi partiti della Prima Repubblica. I quali però, a loro volta, erano stati minati non dai giudici, ma da qualcosa che riguardava il grande mutamento in atto della società occidentale. Non il «bunga, bunga», ma l’individuo definito dal consumo al posto del cittadino e della persona. Il consumismo al posto dei diritti uguali. Non parlo solo dell’Italia evidentemente. Noto solo che questa sorta di supercapitalismo finanziario è stato dopotutto la risposta
al venir meno di quel grande edificio della modernità di cui ho parlato e che fondava sulla libera impresa e sul lavoro la fonte del diritto e il bisogno di cittadinanza. Su questa base si sono fatti i partiti. La democrazia dei partiti. Cioè lo strumento attraverso il quale i cittadini possono non solo votare ma misurarsi con lo Stato e con i grandi poteri reali attraverso identità collettive. Questo è il punto. Altro che partitocrazia. È con le identità collettive che si era creata la possibilità di
passare dalla semplice alternanza tra ceti politici a reali mutamenti dei rapporti di potere tra dirigenti e diretti. Non dimentichiamo che questo fu anche il vero motore del «miracolo» economico. Se guardiamo all’Italia di oggi il dato di sintesi più significativo è che lo sviluppo del Paese si è fermato. È come l’inizio del Seicento, ci dice De Cecco citando Carlo Cipolla, quando come oggi il Paese reagisce poco al suo declino perché ne è poco consapevole e lo è perché vive consumando la ricchezza accumulata. È un giudizio discutibile se teniamo conto della vitalità perdurante dell’Italia. È un fatto però che un processo di declino è cominciato ed evitare di renderlo inarrestabile è in fondo il problema dei problemi. Personalmente penso che per affrontarlo bisognerebbe guardare oltre le ragioni economiche e porsi domande più di fondo, che riguardano gli assetti sociali. Che idea abbiamo di questi assetti? Che cosa c’è dietro il degrado crescente del Mezzogiorno e problemi irrisolti di natura dello Stato come la corruzione e l’enorme evasione fiscale? È colpa dei cattivi governi? Certamente. È colpa degli sbagli nella gestione del debito pubblico? Certamente. Ma gli storici di domani, dovendo spiegare questa cosa incredibile e vergognosa che un grande Paese si è fatto dirigere per vent’anni da Berlusconi, penso che non si accontenteranno di queste analisi. Valuteranno anche altre cose come – per esempio –
il peso, l’estensione, e i legami internazionali della criminalità organizzata italiana. Secondo stime sono 20 milioni gli italiani che di fatto non sono più protetti dallo Stato e dalla legge. E adesso questo cancro si estende anche nel Nord. Diventa difficile parlare di mercato quando
l’economia è sempre più governata da cricche, clan, consorterie. Quindi, la domanda che a questo punto porrei a me stesso, oltre che agli economisti, è: se insieme a tutte quelle giuste misure che riguardano la riforma dei mercati, la produttività delle imprese e la lotta agli sprechi e alle rendite non bisognerebbe anche tornare a pensare gli strumenti e i soggetti capaci di canalizzare il risparmio verso beni pubblici, servizi, conoscenze, capitale sociale e capitale umano.
Certo, non possiamo riprodurre il vecchio capitalismo di Stato. E so bene che siamo totalmente integrati dentro un meccanismo di sviluppo che solo a livello europeo può essere combattuto. E tuttavia, qualunque sistema economico è, alla fin fine, un rapporto tra persone non tra cose. E io penso che i programmi contano e incidono se sono animati da una idea adeguata ai caratteri di questa crisi. Bisognerebbe quindi pensare a definire un nuovo patto di cittadinanza. Un patto politico che sia una cosa diversa e molto più larga dei vecchi patti tra produttori del passato.
C’è un problema di risorse? C’è, ma ricordiamoci che l’Italietta miserabile dell’Ottocento fece le ferrovie, il decennio giolittiano usò la banca mista per creare il triangolo industriale, De Gasperi nell’Italia dell’immediato dopoguerra fece la Cassa per il Mezzogiorno: un investimento gigantesco nelle condizioni economiche di allora. Quali enormi possibilità ha l’Europa della moneta unica? Nella proposta di emettere eurobond c’è un possibile rilancio del riformismo europeo.
Servono nuove idee. Noi da anni non inventiamo niente. Ci flagelliamo con la crisi della sinistra ma forse non ci rendiamo conto che pur in presenza di società parcellizzate si è aperta anche una nuova
esigenza che è costitutiva del genere umano in formazione, l’esigenza cioè di un nuovo «noi». Un «noi» che guardi oltre i singoli territori (basterebbero le sfide ormai ineludibili dei diritti umani e della protezione dell’ambiente per rendercene conto). E questa sorta di nuovo «noi» è resa possibile anche dal modo nuovo con cui già oggi si mobilitano le masse e si organizza la partecipazione popolare. È il messaggio interattivo che ha organizzato le grandi manifestazioni di queste settimane in Italia e in Nord Africa. Qualcuno dice che siamo già entrati nell’era post televisiva (cioè oltre l’era della comunicazione passiva, unidirezionale, affidata al piccolo schermo) per passare a quella del social network interattivo, in cui è sufficiente un passaparola per veicolare un messaggio politico. Dunque, concludendo: pensare una forma nuova della politica come il luogo delle grandi scelte collettive. Necessariamente i partiti, che però a differenza del passato dovrebbero poggiare su una pluralità di organismi intermedi, il cui tratto comune è una idea di progresso ispirata dalla consapevolezza che il mondo è a rischio e che governarlo è una impresa comune. Insomma un orizzonte di valori neoumanistici all’interno dei quali ogni formazione politica e culturale si colloca a suo modo. Penso, perciò, che sia tempo di dare molta più attenzione a nuovi organismi intermedi, anche autogestionali, a cominciare dall’impresa cooperativa, il Terzo settore, il federalismo. Bisogna far leva su ciò che sta già emergendo: una economia sociale che fa leva sulle enormi risorse che la grande economia non vede e che affida la gestione delle risorse alle comunità locali, anche tra unioni e accordi tra persone.
La questione sociale non è più riducibile alla contesa tra l’impresa e gli operai. È l’insieme del mondo dei produttori, cioè delle persone che creano, pensano, lavorano e fanno impresa che subisce una forma nuova di dominio e di sfruttamento. Ma se è così ci sono le condizioni per alleanze più larghe. Sia il modello socialdemocratico come il paradigma neoliberista sono obsoleti. La politica deve saper riconoscere la ricchezza della vita sociale. Deve offrire soluzioni ai problemi collettivi che sfuggono alle vecchie identità. Torno così all’Italia. È perfino ovvio che il complesso di ristrutturazioni che ormai attendono improrogabilmente il nostro Paese, sicuramente non potranno
essere portate avanti in un clima di guerra di tutti contro tutti. Ed è qui che si ritrova la ragione fondante del Partito democratico.
*In collaborazione con la Rivista mensile Argomenti Umani diretta da Andrea Margheri