top of page

Il disfacimento

del berlusconismo

 

di Andrea Margheri

 

I fatti confermano ogni giorno che un ciclo politico si è chiuso con il fallimento ‘rovinoso’ della stessa idea-forza che gli ha dato vita.

Quell’idea-forza non lascia di sé neppure un nome, un vocabolo che semanticamente richiami una prospettiva storica. Si può chiamare solo «berlusconismo» perché il personaggio, nelle sue molteplici incarnazioni, nella sua variegata – talvolta grottesca, ma sempre efficacissima – propaganda, si è sovrapposto come solo deus ex machina al suo reale messaggio politico. Ma ha ragione Reichlin quando, analizzando le macerie dell’amalgama sociale e politico berlusconiano, ribadisce che le diverse radici e componenti di quello schieramento sono state ampiamente sottovalutate e spesso non comprese dall’analisi culturale e politica. Alcune di esse derivano da fenomeni epocali che superano di gran lunga i nostri confini. Altre sono più legate alla nostra storia e alle nostre tradizioni peggiori; esse hanno fatto riemergere caratteristiche costanti dell’Italia che risalgono alla crisi della società postrinascimentale e ai secoli travagliati del Seicento e del Settecento. È merito di Berlusconi aver compreso prima di tutti la complessità dell’ondata di antipolitica che attraversò il Paese all’indomani di Tangentopoli. In quello tsunami distruttivo c’era innanzi tutto la paura dell’Occidente e, quindi, dell’Italia, di fronte ai movimenti migratori che cominciavano a cambiare le società industrializzate.

Questa paura era l’humus in cui fioriva il localismo della Lega di Bossi e della Liga Veneta, destinate rapidamente a confluire. È ovvio che essa si collegava, come sempre, al disprezzo contro lo Stato imbelle perché paralizzato dai partiti e dalla corruzione, incapace di reagire e di proteggere adeguatamente le ‘piccole patrie’ storiche come nel Veneto o inventate di sana pianta come la Padania celtica. E questo disprezzo rinfocolava sia la protesta antifiscale sia la visione populista che opponeva ai meccanismi complessi della democrazia la visione aziendalistica di un uomo solo al comando che sa decidere e operare senza ‘lacci e laccioli’. Egoismo sociale strettamente connesso all’antipolitica del potere personale. Da qui la critica via via più aspra alla Costituzione sia nei principi sia nelle procedure istituzionali. Da qui l’intolleranza sempre più accentuata per il compromesso capitalismo-democrazia, che è l’eredità essenziale del XX secolo. Erano i rigurgiti possenti degli egoismi e dei particolarismi che hanno attraversato la storia italiana e che solo in momenti di alta mobilitazione ideale e politica sono stati sconfitti. Ma non c’è stata una vera mobilitazione alternativa perché quei rigurgiti (ecco il capolavoro di Berlusconi!) erano raccolti in un involucro ideologico di liberalismo riformatore ed efficientistico che riecheggiava il «pensiero unico» di origine anglosassone e che la mitologia della «terza via» aveva trasmesso in qualche misura anche alle forze progressiste.

D’altra parte, ben sappiamo quanto la società italiana ingessata e corporativa ha richiesto e richiede davvero alcune battaglie di ‘liberazione’ per garantire un’adeguata mobilità sociale, per far avanzare la creatività delle migliori risorse delle nuove generazioni, per non costringere i giovani a emigrare. Questo spiega perché ci sono stati molti che si son lasciati abbacinare dall’uso del termine «liberismo» che si è rivelato, nei fatti, una pura mistificazione ideologica, utilizzata abilmente dal «grande imbonitore» per garantire un cemento culturale allo schieramento di centrodestra. Ovviamente, utilizzando al massimo l’immenso potenziale finanziario e mediatico accumulato come imprenditore che il vuoto legislativo sul conflitto di interessi e una insufficiente normativa antimonopolistica gliha messo a disposizione sin dalla sua discesa in campo con Forza Italia. Elementi questi che hanno costituito negli ultimi due decenni un vulnus per la democrazia e per la stessa convivenza civile.

Con alle spalle questa miscela di localismo e populismo antistatalista è riuscito nell’azione di saldatura con la destra di ispirazione fascista e nazionalista. È riuscito il tentativo di rottamare lo stesso concetto di «arco costituzionale» attraverso lo scambio tra la prospettiva di superamento della pregiudiziale antifascista e di partecipazione al governo offerta da Berlusconi, e la rapida evoluzione dei neofascisti verso il pieno inserimento nel cosiddetto ‘quadro democratico’, garantito da Fini con la fondazione di An. Un altro colpo da maestro.

Quando si sono manifestati i diversi e ovvi motivi di conflitto culturale tra An e Lega, e anche dopo la rottura del ’94 e la riappacificazione prima del 2001, la propaganda si incarica di minimizzarli e renderli innocui, riducendo le manifestazioni di insofferenza leghista a puro folklore e nascondendo sotto il tappeto i sussulti nazionalisti. In definitiva, con il Popolo della libertà e il consolidamento dei rapporti di fiducia con Bossi, Berlusconi stravince le elezioni del 2008 per il vuoto di alternativa aperto con il fallimento dell’Unione di Prodi, ma soprattutto con la corrosione delle culture politiche progressiste tradizionali di fronte alla crisi democratica e la fine del compromesso novecentesco tra democrazia e capitalismo.

Ma nei due anni trascorsi la costruzione del Grande Imbonitore è stata fatta a pezzi e il fallimento si riflette pesantemente sulla crisi già in atto nel sistema politico italiano, sui conflitti tra le istituzioni repubblicane, sull’unità del Paese, rendendo più incerto il cammino dell’Italia attraverso le devastazioni provocate dalla crisi globale del capitalismo finanziario. La causa dell’implosione dello schieramento di centrodestra non è solo l’eterogeneo e contraddittorio assemblaggio culturale che è stato il contenitore iniziale. È più propriamente la prova dei fatti, l’insieme disastroso dei risultati. L’apparato propagandistico è mobilitato per mistificare la realtà, ma non ci riesce più: anch’esso diventa parte del problema, la confusione nel sistema mediatico diventa un segnale di fallimento. Se si scorre l’elenco dei fronti aperti si ha il risultato esatto del disfacimento disastroso della maggioranza di governo. Sul piano istituzionale: conflitto aperto con la magistratura accusata, spesso e volentieri, di complotto comunista; atti che hanno costretto il presidente della Repubblica a interventi correttivi sostanziali; duri colpi al prestigio e alle funzioni di controllo del Parlamento. Sul piano sociale ed economico: il rigore necessario nella finanza pubblica si è trasformato in un acefalo taglio lineare che colpisce indiscriminatamente ogni settore dell’amministrazione e del Paese; ogni criterio selettivo, ogni scelta di merito è rinviata sine die e ciò colpisce i punti vitali del sistema come la formazione, la ricerca, l’innovazione delle imprese e dei prodotti, le infrastrutture essenziali per lo sviluppo. Disoccupazione altissima, solo mascherata o dalla cassa integrazione straordinaria e in deroga o dalla ‘resa’ di molti disoccupati che non cercano più lavoro. La condizione dei giovani è la peggiore; schiacciati come sono dalla disoccupazione e dalla precarietà del lavoro, dal vuoto di prospettive. Intanto si sviluppa in varie forme un attacco regressivo ai diritti conquistati dai lavoratori: più deboli di fronte alla crescita delle disuguaglianze di reddito e delle opportunità di mobilità sociale. Le piccole imprese scontano una fase di difficoltà di fronte alle esigenze di internazionalizzazione. Un elenco, questo, che ormai appartiene al senso comune del popolo italiano, come dimostrano sia il dibattito tra gli imprenditori, sia la protesta sindacale. E non vale citare i punti di forza e di eccellenza internazionale del nostro sistema produttivo, frutto della creatività e dell’ingegno di cui pure il Paese è ancora ricco. Se il sistema si scompone e pezzi decisivi restano indietro, ne risentono la struttura unitaria del Paese, la coesione sociale, le prospettive dei giovani.

E, d’altra parte, la scomposizione del Paese non può certo essere scongiurata agitando il feticcio di un ancora per gran parte ignoto federalismo fiscale di cui anche l’ispirazione fondamentale resta incertissima. I tanti annunci propagandistici sono travolti da una realtà così pesante e visibile, così misurabile nell’esperienza concreta. Proprio lacosa più efficace inventata dal Grande Imbonitore, «il governo del fare», la prova di un pragmatismo spregiudicato ma efficace, gli si rivolta contro per la mole dei risultati negativi. Nel contempo si trascina e si accentua la questione morale irrisolta: la commistione politica e affari che coinvolge ancor più direttamente lo stesso presidente del Consiglio e che sembra più capillare e pervasiva di Tangentopoli; i comportamenti cosiddetti privati del Premier. Elementi questi che una grandissima parte degli italiani finisce per sottovalutare pericolosamente o assimilare a uno stereotipo di personaggio pubblico espressione di viscerali e inconfessabili aspirazioni di molti ‘italioti’. Tutto questo conferma che c’è in Italia una condizione particolare e gravissima, pur nella crisi dell’Occidente provocata dai saccheggi della finanza e dalle abissali disuguaglianze sociali. È un crinale che molte forze, anche del centrodestra, avvertono come il margine ultimo di fronte a un regresso irrimediabile nella

società italiana. Ecco il punto da cui deve partire ogni ipotesi di alternativa, di alleanza e di mobilitazione delle forze del cambiamento. E non è, come molti credono, una questione metodologica. Non sono decisive solo le ‘forme’ della politica (fare appello ai valori sin qui trascurati; puntare sulle policies settoriali e non sulla politica come prospettiva di sintesi). C’è prima, e più importante, la scelta nel conflitto reale che si svolge. Sappiamo benissimo che esso non è più il conflitto tra capitale e lavoro che attraversa l’impresa. Ma è nel conflitto tra quanti sono colpiti nei loro diritti, nella loro fondamentale libertà e dignità sociale perché privati del lavoro e delle opportunità di realizzare le capacità creative di cui sono dotati o delle prospettive imprenditoriali che hanno individuato. È la grande massa di lavoratori dipendenti e autonomi, di piccoli e medi imprenditori, di giovani professionisti che viene limitata nella sua libertà fondamentale da un modello di sviluppo che ha già mostrato nella crisi finanziaria del 2008 le sue insanabili contraddizioni, la sua iniquità, la sua inefficienza. Questa unità delle forze produttive è la questione vera dell’alternativa e il compito di un grande partito nazionale come il Pd. Ed è questa unità l’unica alternativa valida per il Paese.

Per questo trovo molto dispersivo e pericoloso il rincorrersi di veti e controveti sulle ‘alleanze’: di fronte alla vastità e alla difficoltà della missione storica del Pd l’afflato unitario, l’ispirazione federativa, la ‘forza di coalizione’ devono essere a 360° e affidate soprattutto a una scelta netta, risoluta, senza «se» e senza «ma» sulla questione sociale, sul nuovo conflitto che si è aperto con la crisi profonda dell’attuale modello di sviluppo. Ecco perché mi sarebbe piaciuto vedere Bersani nella manifestazione della Fiom, che non riguardava né punto né poco il diverbio con la Cisl e i riprovevoli episodi di intolleranza contro quel sindacato. Era un fremito di rivolta contro l’iniquità e l’ingiustizia sociale che sovrasta il pettegolezzo di palazzo e il teatrino mediatico come un elefante sovrasta delle formiche impazzite. !

bottom of page