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Ermeneutica veritativa ed etica del riconoscimento

Alcune domande

a Gaspare Mura

a cura di Bachisio Meloni

La filosofia ermeneutica è oggi a fondamento di tutte quelle filosofie del dialogo e dell’interrelazione che, nell’attuale clima di incontro-scontro tra culture, tradizioni, religioni diverse, dovrebbero tracciare il cammino che indichi come tale incontro possa divenire un arricchimento nella verità e non un appiattimento relativistico o sincretistico. Ne parliamo con il Professor Gaspare Mura.

 

D.: A proposito della nozione di “verità” nella prospettiva ermeneutica, Lei sottolinea come quest’ultima, specie nei suoi maggiori rappresentanti – da Gadamer a Ricoeur, a Betti – abbia saputo “custodire in sé un’istanza veritativa autentica, la quale non può essere contrapposta per principio alla verità metafisica”. Con Gadamer, Lei distingue all’interno dell’orizzonte ermeneutico il carattere trascendente ed unico del Logos e della Verità che fonda in senso platonico, e agostiniano, la molteplicità delle prospettive sulla verità; prospettive che, come Lei tiene a ribadire, sono “destinate non a contrapporsi ma a comporsi in una ‘fusione di orizzonti’ capace di arricchire la nostra comprensione della verità, anche metafisica”. Si tratterebbe di portare avanti un’idea di scavo ermeneutico della verità come disposizione alla ricerca che, in senso agostiniano, sia in grado di permanere “nella verità e non al di fuori di essa”. Ho l’impressione che l’aporia – se di aporia si può parlare – risieda tutta in questa particolare “ermeneutica veritativa” del senso di “permanenza”, colta in una duplice prospettiva: sia in quanto esperienza “coinvolgente” di ricerca inesauribile di un fondamento, sia in quanto cammino a partire da una condizione di verità assoluta ed astratta quale fondamento indeterminato in grado di sorreggere qualsiasi prospettiva di ricerca.

 

R.: La sua domanda coglie uno dei nodi fondamentali della questione ermeneutica attuale, ma sembra tuttavia sottendere la tesi che la verità in prospettiva ermeneutica sia qualcosa di puramente “astratto”, e quindi incapace di coinvolgere la dimensione esistenziale della ricerca, la quale accentua piuttosto il fondamento linguistico, dialogico e quindi storico dell’interpretazione; per ispirazione del “pensiero debole” lei ritiene pertanto che siano incompatibili “ermeneutica” e “verità”. Di conseguenza, presuppone che la dizione “ermeneutica veritativa”, che personalmente ho espressamente usato nei miei studi di ermeneutica, nasconda un’“aporia” non sanabile, perché intenderebbe coniugare la nozione tradizionale di “verità” con l’“ermeneutica”, la quale ne avrebbe ripensato il fondamento e sostituito il ruolo nel contesto del pensiero postmoderno.

 

D.: Alluderei piuttosto ad un’idea di verità come procedimento di determinazione e di ricostruzione infinita di senso o come farsi e darsi stesso della soggettività partecipe nei termini dell’“esposizione” e in quanto tale, questo sì, segno di verità per altri.

 

Le risponderò allora riferendo le parole di uno studioso non sospetto, U. Galimberti, il quale riferendosi al commento fatto da Heidegger al verso del poeta S. George, che recita “nessuna cosa è dove la parola manca” – e quindi sottolineando come la questione del rapporto con la verità nasca, in contesto ermeneutico, dalla “svolta linguistica” della filosofia, che ha capovolto la tradizione ontologica che assegnava il primato dell’essere sulla parola –, si chiede quale tipo di essere è quello che ha bisogno della parola per poter “essere”, ed afferma che le interrogazioni di Heidegger sul rapporto essere-parola abbiano “aperto due itinerari ermeneutici giocati sul rapporto parola-cosa” (Galimberti, Parole Nomadi, 20062, p. 62). Primato della parola o primato dell’essere? Primato dell’ermeneutica o primato della verità dell’essere? Galimberti pone così una questione decisiva per lo statuto attuale della filosofia ermeneutica: “Si dà una cosa al di là della parola? Si dà l’oggettività di un testo al di là delle diverse letture? Si dà una verità al di là delle interpretazioni?”; questioni quanto mai importanti, innanzi tutto perché “dire ‘al di là’ è dire metafisica” (ivi). Galimberti distingue di conseguenza l’ermeneutica che nasce sui presupposti del “pensiero debole”, la quale ritiene intrascendibile l’orizzonte linguistico, dall’ermeneutica “veritativa”, la quale viceversa recupera la pretesa metafisica del conseguimento di una verità oggettiva. “Il ‘pensiero debole’ – scrive Galimberti –, inaugurato da Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, si propone di indebolire questa pretesa attraverso la riformulazione del concetto di verità, pensata non come dominio sull’essere, ma come trasparire dell’essere nel gioco delle interpretazioni in cui si esprime quella che Vattimo chiama ‘l’autonoma vita del linguaggio che vive nel dialogo’. A partire da questo modello – continua Galimberti – Maurizio Ferraris ha ricostruito una Storia dell’ermeneutica (1988) a cui si contrappone un’altra storia dell’ermeneutica scritta da Gaspare Mura con il titolo Ermeneutica e verità (1990; 19972), dove si dice che se le interpretazioni non hanno di vista una verità, almeno come concetto limite a cui tendere, non riescono a costituirsi neppure come interpretazioni” (ivi). Poiché l’“ermeneutica veritativa” si instaura su una lettura alternativa dei testi di Heidegger, Gadamer, Ricoeur, Betti, rispetto a quella del “pensiero debole”, ritengo che con questa affermazione Galimberti riconosca che l’“ermeneutica veritativa” abbia una sua legittimazione teoretica. In effetti l’ermeneutica veritativa, continua Galimberti, “scorge, nel pensiero che vuol indebolire la violenza nascosta nell’atteggiamento metafisico che ipotizza un Ordine dell’essere al di là delle interpretazioni, il massimo della violenza, il massimo della hybris, della tracotanza dell’interpretazione che assolutizza se stessa nel momento in cui nega la possibilità di uno sfondo interpretativo” (ivi). A parte ulteriori considerazioni, desidero qui sottolineare il fatto che venga riconosciuta, anche dal punto di vista storiografico – come peraltro ho personalmente cercato ti fare attraverso una lettura diretta dei testi di Gadamer, Ricoeur, Betti e lo stesso Heidegger –, la presenza di un’intenzionalità “veritativa” dell’ermeneutica, alternativa certamente all’ermeneutica del “pensiero debole”, ma legittimata a portare avanti le proprie istanze teoretiche, che non possono essere considerate puramente “aporetiche”. 

 

D.: Verità tuttavia che è tale se e in quanto aperta alla comprensione di ciascuno; che giunge proprio in virtù della relazione con un’alterità per sua natura costitutiva irriducibile, e pure sulla base di una relazione la cui spinta è definita da quanto si determina a partire da me. È come se l’assoluto della verità si articolasse entro la cornice della finitezza; che l’eterno si dischiudesse in virtù della caducità della temporalità e dell’esser proprio e autentico di ciascuno. Nel porre rimedio alle spinte nichiliste, dinanzi allo sfondo indeterminato ed oscuro dell’esistenza, più che il riferimento ad un’idea assoluta di verità, il relativismo – se inteso in particolar modo come possibile apertura di trasformazione e di ricostruzione della soggettività quale luogo di ogni possibile presupposto di verità, e se interpretato in quanto riscoperta in termini hegeliani dell’unificazione dell’io con la realtà; riscoperta che è al contempo individuale e universale – è presupposto che sembrerebbe calibrarsi con voce più discreta e suadente.

 

R.: La suggestione del relativismo, indotta in particolare dal “pensiero debole”, e che informa gran parte della cultura contemporanea, nasconde in realtà insidie molto maggiori, sia per la cultura che per la vita etica e la convivenza umana, di quelle che pretenderebbe superare. Dopo aver “delegittimato” filosoficamente, storicamente e socio-politicamente il pensiero moderno, il relativismo del “pensiero debole” consente con Lyotard nella concezione di una “condizione postmoderna”, che si esprimerebbe solo in una razionalità plurale, che ricerca legittimazioni fluide, parziali, reversibili e si riconosce nel pluralismo della comunicazione informatica e multimediale, nel pluralismo delle culture e delle fedi religiose, nella libertà incondizionata delle scelte etiche. Il relativismo del “pensiero debole” coniuga insieme l’affermazione di Nietzsche: “Dio è morto”, ovvero sono definitivamente tramontati gli assoluti metafisici ed etici, con la nozione epocale dell’Essere propria di Heidegger, secondo cui l’“Essere non è ma accade”. Ciò significa che la storia dell’uomo non ha un senso unitario, come pretendeva il pensiero moderno, non ha punti di riferimento, né può essere concepita come un corso unitario di eventi teso all’emancipazione dell’uomo: “La modernità, scrive Vattimo, nella ipotesi che propongo, finisce quando – per molteplici ragioni – non appare più possibile parlare della storia come qualcosa di unitario” (La società trasparente, p. 8); di conseguenza la società non è concepita come trasparente (Hegel), né come organica (Marx), ma come “opaca”, perché luogo di liberazione delle innumerevoli differenze culturali, etiche, personali, in cui vige un unico primato: quello dell’affermazione della propria “diversità”. La società postmoderna sostiene pertanto una piena liberalizzazione della comunicazione attraverso i media, la stampa e soprattutto Internet, perché vede in essa un antidoto ad ogni tipo di omologazione conformista. La società postmoderna è la società dei mass media e della comunicazione generalizzata al massimo: “radio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di Weltanschauungen, di visioni del mondo” (Vattimo, La società trasparente, p. 12). Sotto l’apparente caos della società postmoderna, indotto dal moltiplicarsi delle informazioni e delle comunicazioni, il pensiero debole vede l’affermarsi della vera emancipazione dell’uomo, e la realizzazione di una vera società democratica, fondata sugli ideali del pluralismo e della tolleranza. L’uomo postmoderno, liberatosi finalmente degli assoluti metafisici ed etici, nonché della voce inquietante della “verità” – quella che già Socrate voleva testimoniare di fronte all’assemblea democratica che lo condannava, ricordando ai suoi giudici che “una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta” (Apol. XXVIII, 38 a 5-6), e additando come missione al filosofo la ricerca della verità in un costante dialogo con le anime che “ne sono gravide” (Menone 80 a-b) –, non nutre più rimpianti per antiche certezze né inquietudini di ricerca della verità, ma si riconosce piuttosto nel nichilismo dei valori e della verità. È lo stesso Vattimo ad affermarlo: “Oggi non siamo a disagio perché siamo nichilisti, ma piuttosto perché siamo troppo poco nichilisti, perché non sappiamo vivere fino in fondo l’esperienza della dissoluzione dell’essere” (Filosofia del presente, p. 26). La conseguenza, come ha scritto uno studioso, è che “nell’età della crisi dei fondamenti – e non solo del sapere scientifico, sì anche della vita morale e politica – l’ermeneutica ha decretato il trionfo dell’opinione sulla verità, della storia sulla logica, del contingente e mutevole, del relativo sull’assoluto, in una parola: della doxa sull’epistème” (Vitiello, Dall’ermeneutica alla topologia, in “Aut Aut”, 2000). Ovviamente, l’ermeneutica di cui qui si parla è l’ermeneutica del “pensiero debole”, che come dicevo ritengo personalmente alternativa all’“ermeneutica veritativa”.

Sebbene non sia possibile qui approfondire una critica teoretica e storiografica del pensiero debole, che ho personalmente condotto in altri studi, vorrei tuttavia sottolineare che le opere dei maggiori rappresentanti dell’ermeneutica filosofica, da Gadamer a Betti a Ricoeur, mostrano di essere ben consapevoli, per usare un’espressione di Pareyson, che “non si dà interpretazione senza verità”. Vorrei qui invece contestare il relativismo del pensiero debole per affermare, contrariamente a quanto esso sostiene, che il primato dei mezzi di comunicazione di massa non genera una società più democratica, né più sensibile eticamente al rapporto con l’alterità, ma una società in cui vige la legge del più forte, una “folla solitaria” in cui gli individui sono resi incapaci di rapporti interpersonali fondati sull’autenticità, sulla condivisione, sull’amicizia. Senza un progetto educativo e pienamente personalizzante delle coscienze, la società dei media genera una catena di schiavi o, come si è espresso Sartori, dei “rimbecilliti dal video”. Contrariamente alle illusioni del pensiero debole, occorre riflettere a fondo sulle radici della crisi del dialogo e della comunicazione che attraversa la “modernità senza illusioni”, secondo la definizione della nostra epoca offerta dal sociologo polacco Zygmut Baumann (Paura liquida, 2007). In questo contesto postmoderno si inserisce l’illusione di un mondo unificato attraverso i moderni mezzi di comunicazione – televisione, internet, media – mentre in realtà, come ha affermato Gadamer, “la Tv è un sistema che produce una catena di schiavi, perché è il contrario del dialogo al cui interno si condivide la passione per la verità». Oggi, osserva il filosofo, “ai giovani manca proprio questo dialogo, ovvero la possibilità di fare domande e cercare una verità più profonda che non può prescindere dall’educazione alla responsabilità, e dal saper interpretare ciò che viene proposto». Gadamer, come Popper, sottolinea i richiami alla responsabilità della televisione, e la denuncia di “chi usa i mezzi di comunicazione come un potere occulto per indottrinare persone prive di strumenti critici». Nella nostra società, la cui cultura ha messo al bando la verità, Tv, giornali e Internet “tentano di imporre il proprio punto di vista come verità assoluta ad un pubblico spesso inconsapevole», e ciò dimostra la tesi di Popper, secondo la quale “non esiste libertà senza educazione al capire e senza responsabilità; educazione e libertà sono le parole chiave di una società liberale nel senso più vero del termine». Alla comunicazione antiveritativa della Tv occorre contrapporre un nuovo progetto educativo, eticamente condiviso, e da realizzarsi attraverso rinnovati rapporti interpersonali e sociali.

Ritengo allora personalmente che sia doveroso soprattutto per gli intellettuali, onde evitare una nuova e pericolosa “trahison des clercs”, contrastare il relativismo veritativo ed etico con la proposta condivisa di un umanesimo integrale e plenario, il quale richiede la coniugazione dei valori del pluralismo (pluralismo delle culture, della democrazia, delle visioni del mondo) con la verità, la quale non può essere divisa né ritenuta un retaggio del passato, anche se da ripensare nella sua dimensione personalistica, fenomenologica e “rivelativa” (aletheia). Il relativismo della cultura postmoderna, se non vuole degenerare in solipsismo individualistico, deve comprendere la necessità di valori etici e sociali non negoziabili, e che non sono realizzabili al di fuori di un contesto veritativo. Per questo, un ulteriore tratto di questo “progetto” di umanesimo plenario deve poter essere costituito dal riconoscimento del primato dell’etica e del suo ordine, fuori del quale nessun valore personale o sociale (solidarietà e condivisione), può essere fondato o realizzato.

 

D.: Sulla base di quanto Lei ha appena affermato, desidererei allora far cenno ad una precisa volontà, quella dell’interpretazione di una “ontologia della realtà” sulla base di una più precisa e consapevole condizione di pluralità, di attenzione alla valorizzazione delle diversità. Tuttavia, però, dovremmo essere dell’avviso di dover convivere con un profondo e forse anche lacerante senso di disinganno, quasi a suggerire l’idea di porre, e una volte per tutte, la verità (o almeno, la sua idea forte di pretesa universalizzante) alle nostre spalle; non più di fronte a noi (o almeno non così vicini); non dunque l’utopia di un meridiano da seguire, quanto la “nostalgia”, o l’illusione nostalgica, di una verità che è, pur tuttavia, esigenza incontenibile se vissuta in qualità di ricerca di un senso più remoto, in grado di tradursi sotto forma di caritas e di giustizia da recuperare, o da ricostruire in termini genealogici quantomeno nei termini dell’applicazione del diritto (in rimedio alle tante ingiustizie presenti) attraverso l’interpretazione degli infiniti reticoli di senso. Tuttavia, penso sia condivisibile la scelta di una precisa consapevolezza: che la riflessione sul senso non debba equivalere al borioso compiacimento del possedimento di un potere ispirato alla verità, verità dunque quale ancilla potestatis. Verità che al contrario rimane tale proprio in quanto in perenne distanza da chiunque intenda farla propria; verità precaria, o sempre dimentica degli assoluti, o “già-da-sempre” in perdita per chi le sta al cospetto e viva la sua perenne ed autentica condizione di nomadismo. È legittima una simile interpretazione?

 

R.: Nella sua domanda è celato, ancora una volta, il pregiudizio ispirato dal pensiero debole secondo cui dire “verità” significa per ciò stesso dire “potere e violenza”. Vorrei qui accennare alle radici teoriche di questo pregiudizio. Giustamente lei accenna agli “infiniti reticoli di senso” che caratterizzano la “condizione postmoderna”, che rende la verità un qualcosa di “nostalgico” o “illusorio”, lontano dalla nostra sensibilità, ma rendendo con ciò illusorie anche le nostre aspirazioni etiche di giustizia, di legalità, di coerenza tra comportamenti privati e pubblici, di solidarietà sociale. Vorrei aggiungere che una delle radici culturali che hanno giustificato lo smarrimento della verità è dovuto all’interpretazione che il pensiero debole ha dato della “svolta linguistica”. È vero infatti che comunemente gli studiosi ritengono che il primato odierno assunto dalla questione linguistica debba considerarsi ormai come una vera “koiné”, che abbraccia tutte le espressioni della cultura, dell’etica e della vita contemporanea. Tuttavia l’interpretazione debolista dell’odierno primato assunto dalla questione del linguaggio, intende il linguaggio non luogo di un dialogo socraticamente e gadamerianamente intenzionato ad una verità che, proprio perché tale, e sebbene conseguita in modalità sempre parziali e storiche, trascende tuttavia i dialoganti, permettendone al contempo un consenso non soggettivo ma mutuamente riconosciuto come veritiero, in ambito personale, sociale ed anche politico. Attento a sottolineare le radici, le componenti e le derive relativistiche e soggettivistiche dell’odierna cultura, il pensiero debole ha parlato di “trasformazione semiotica del kantismo” (Apel, Vattimo). Con questa espressione ha inteso sottolineare che, per l’odierna cultura derivante della “svolta linguistica”, esistere “vuol dire stare in rapporto a un mondo: ma tale rapporto è insieme condizionato e reso possibile dal fatto che si dispone di un linguaggio: è quello che K.O. Apel chiama trasformazione semiotica del kantismo” (Vattimo). Ciò significa che le categorie del trascendentale kantiano, nel contesto della svolta linguistica, non sono più intese in senso stabile e come appartenenti alla sola ragione, ma viceversa come modalità storiche con cui si organizzano i linguaggi degli uomini, e che costituiscono l’orizzonte linguistico-storico della loro comprensione di ogni realtà, culturale ed etica, profana e religiosa. È in questo senso che la filosofia ermeneutica viene intesa dal pensiero debole, non tanto come un’“età ermeneutica della ragione” (Greisch), capace di ripensare ma non di eliminare la tensione alla verità, ma piuttosto come la filosofia che “insiste sulla radicale storicità dei linguaggi, i quali se vogliamo fare un esempio molto familiare ai lettori di Wittgenstein, sono legati fra loro non dal fatto di essere diverse attuazioni di una stessa stabile struttura, retta da un’unica norma trascendentale, bensì da una sorta di rassomiglianza di famiglia; appartengono a una serie storica di ‘trasmissione’ […] nella quale non c’è alcun elemento che si mantenga identico dal ‘principio’ alla ‘fine’, perché la costante è solo il concatenamento, la concatenazione” (Vattimo). In questo contesto l’ermeneutica del pensiero debole non solo delegittima le grandi “narrazioni” della modernità (“possiamo considerare ‘postmoderna’ l’incredulità nei confronti delle grandi narrazioni”, Lyotard, La condizione postmoderna, p. 6), ovvero le grandi Weltanschauungen che hanno animato la storia moderna, ma con esse anche i grandi ideali che proponevano, le grandi finalità, i grandi eroi, le grande sfide del confronto e del dialogo, rinchiudendo la cultura, e la vita etico-sociale ad essa ispirata in una pura pragmatica di giochi linguistici diversi, in cui non si dà verità, né finalità, né ideali, né vere sfide, perché tutto è omologato al “gioco”. Quali istituzioni potrebbero nascere da questo “reticolo” di giochi linguistici? Personalmente ritengo che qualsiasi proposta etica e socio-politica che si ispirasse alla cultura del “pensiero debole” sia destinata prima o poi al fallimento, perché l’uomo sente in modo ineliminabile il bisogno di ideali, di finalità alte, di seri confronti e sfide su principi irrinunciabili, e quindi di verità. Certo, una verità da condividere con altri, dopo il confronto leale su ragioni e ideali diversi, una verità perseguita socraticamente con la forza “non violenta” del dialogo e del confronto, ma pur sempre capace di suscitare adesioni non “deboli” e provvisorie. Per questo, diversamente da quanto lei afferma, la verità non sta alle nostre spalle, come qualcosa di “andato” di cui al massimo si può avere “pietà” o “nostalgia”, ma sta di fronte a noi come compito che ci attende sempre di nuovo, capace di smuovere la nostra indifferenza e di farci camminare sulla sola via che ci permette di essere pienamente uomini. Perché, ancora una volta, “una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta” (Apol. XXVIII, 38 a 5-6).

 

D.: Che tale verità sia possibile solo a partire dalla relazione dialogica, quale insieme di tutte le possibili costituzioni e concatenazioni di senso, implica necessariamente spinte di inesauribile apertura e movenze di ampia trasversalità. La prospettiva tracciata sembra perennemente condurci fuori da ogni possibile consapevolezza di precisa appartenenza sia essa culturale che filosofica o religiosa; così, del resto, la stessa unicità e irripetibilità della persona, come Lei stesso ci suggerisce, è di per sé crocevia di scenari etici inediti ed imprevedibili. Mi chiedo allora quanto la comunità religiosa, specie a partire da un senso sempre più vivo di disgregazione etica del mondo attuale, sia in grado di disporsi ad accogliere e gestire in maniera opportuna un’idea di verità sempre di là da venire, la cui natura persiste ben al di là dall’essere ipotizzabile in termini assolutistici. Non pensa che alle spinte nichiliste – per molti aspetti scongiurate da una tradizione ermeneutica ben concertata – si stia oltretutto sostituendo ora il più insidioso ospite dell’indistinto, dell’indifferenza di senso?

 

R.: Nella sua domanda sono comprese numerose questioni diverse: quella del multiculturalismo delle nostre società, quella del rapporto tra “verità” ed appartenenza, quella del rispetto della persona e, infine, quella del porsi della comunità religiosa nei confronti della disgregazione etica del mondo postmoderno, che rifiuta un’immagine “assolutistica” della verità, ma allo stesso tempo ospita al suo interno il più insidioso pericolo “dell’indistinto, dell’indifferenza di senso”. Dirò subito che la comunità religiosa, in particolare nella sua espressione cattolica, resta fedele alla precisa indicazione evangelica: “la verità vi farà liberi” (Gv.8,32). Il modo con cui la Chiesa sta affrontando oggi la tempesta che la sconvolge per l’indegnità di alcuni suoi membri, testimonia chiaramente che essa intende rinnovarsi, con spirito di purificazione e di conversione, con un’adesione più fedele alla “verità che fa liberi”. Ed è per questo che la comunità religiosa non si adeguerà mai a quel relativismo che nasce dalla “dittatura del desiderio”, il quale permea non solo la morale individuale, fino alle sue scelte estreme, ma sostiene l’indifferentismo delle scelte sociali e sovente politiche.

Vorrei invece soffermarmi brevemente su quale proposta etica e politica, e proveniente proprio dall’“ermeneutica veritativa”, possa oggi essere capace di coniugare verità e libertà, verità e dialogo, verità e rispetto delle diversità e del pluralismo. Al di là della complessa questione del “multiculturalismo”, che richiederebbe un approfondimento a parte, ritengo che possa essere indicata come una punta molto avanzata di questa discussione, e visto che stiamo discutendo sul terreno dell’ermeneutica, la proposta fatta da Paul Ricoeur in uno dei suoi ultimi studi: Percorsi del riconoscimento(2005). Perché di fatto nella questione del “riconoscimento” sono coinvolte le principali tematiche che riguardano il pensiero morale, giuridico e politico contemporaneo; e ciò sebbene la tematica del “riconoscimento” abbia storicamente un’origine che può farsi risalire al pensiero di Hegel, il quale, nella Fenomenologia dello spirito, ponendosi contro la concezione kantiana della coscienza, considerata solipsistica, mostra come sia importante per l’uomo che vive in società il “riconoscimento” da parte degli altri, riconoscimento senza il quale la propria soggettività non può svilupparsi. Anzi, afferma Hegel, qualora una soggettività, nel confronto con le altre, non ottiene un adeguato “riconoscimento”, finisce per sviluppare in sé una coscienza di “servo”, che lascia al vincitore il campo libero per affermarsi come “padrone”.

 

D.: Riconoscimento la cui importanza è tale proprio in quanto la vicenda esistenziale e trascendente del singolo non si afferma e si rivela solo attraverso la propria esperienza, ma si sviluppa sulla base della compartecipazione in seno al contesto originario della comunità umana.

 

È qui che si innesta la problematica “etica” del riconoscimento, alla quale fa in particolare riferimento Ricoeur. Perché se il “riconoscimento” da parte dell’altro è fondativo di una società “riconoscente”, nella quale non solo è possibile sviluppare un’identità personale matura, sia dal punto di vista psicologico che sociale, il “riconoscimento” diviene insostituibile anche per fondare una vita morale “buona”, innestata su una buona relazione sociale di reciprocità. L’etica dell’alterità e del riconoscimento tenta per questo di superare da una parte l’individualismo atomista del liberalismo, e dall’altra anche il semplice comunitarismo. Essa si basa su una forte concezione dell’intersoggettività, per la quale ogni persona dev’essere riconosciuta insieme come singola, unica, irripetibile, ma anche portatrice di una sua struttura intersoggettiva trascendentale, da cui può trarre i valori morali di una “vita buona” dai buoni rapporti intersoggettivi che essa sa stabilire. Fondandosi anche su osservazioni di tipo psico-sociologico, Ricoeur sostiene che il rapporto tra soggettività umane, abitate insieme dal “desiderio” e dal “logos”, può essere solo di due tipi: o di minaccia che porta al conflitto o di disponibilità che porta al reciproco riconoscimento. L’etica del riconoscimento si basa proprio sul bisogno che all’interno di un contesto sociale ha ogni soggettività di essere “riconosciuta” per poter vivere bene, a motivo della sua struttura intersoggettiva, e sostiene che la relazione di conflitto conduce non solo alla morte dell’altra soggettività, ma anche alla propria morte. 

La relazione di riconoscimento reciproco tra le soggettività che compongono un contesto sociale è dunque fondativa sia della personalità dell’altro, e dei suoi diritti, che della propria soggettività e dei propri diritti. La dimensione intersoggettiva della personalità individuale costituisce dunque l’apporto che l’odierna etica del riconoscimento offre alla concezione illuministica dei diritti individuali, facendo derivare tali diritti da un trascendentale che non appartiene all’individuo isolato dalla comunità, e nemmeno dalla comunità astrattamente intesa, ma dall’individuo in quanto membro solidale di una comunità in cui vige l’etica del riconoscimento reciproco. 

D’altro canto, però, il semplice riconoscimento delle “differenze” nel contesto comunitario e sociale, senza tener conto di tutti i processi di tipo etico e culturale che conducono alla costruzione delle identità personali, finisce per dissolvere il fondamento stesso della vita comune, e si risolve anch’esso in forme deviate di “riconoscimento”. La mancanza di un corretto rapporto tra “differenze” e “riconoscimento”, a motivo di assenza di riferimenti etici, diviene espressione di quel “disagio della modernità”, di cui ha parlato Taylor, ed individuato in tre fattori: l’individualismo, la ragione strumentale e la politica del mondo industriale. Questi fattori sono la causa dei tre disagi della modernità: la mancanza del senso della vita a causa della diminuzione dell’orizzonte morale, l’eclissi dei fini a causa della ragione strumentale, e la perdita della libertà dovuta alla perdita dell’identità personale, la quale non può realizzarsi se non viene riconosciuta la dimensione morale dell’uomo, anche nel suo aspetto ontologico. Questa incorporazione dell’etica del “riconoscimento” nelle norme della giustizia sociale rappresenta per Ricoeur l’ideale regolativo di una società democratica nuova, capace di far crescere la solidarietà e la fraternità come fattori di antidoto alle “mancanze di riconoscimento” che, sul piano interpersonale e dei rapporti tra gli stessi stati sono all’origine delle tensioni, delle lotte e dei conflitti.

 

D.: In questo luogo di scambio e di riconoscimento reciproco segnato dall’incontro tra soggetto e mondo storico-sociale penso allora sia possibile instaurare una degna e concreta prospettiva etica entro la quale disegnare scenari di verità autentica. Inutile aggiungere quanto su ciò l’ermeneutica debba giocare un ruolo assolutamente centrale e determinante.

 

Non a caso Ricoeur ritiene che per uscire dalla logica della violenza, del dominio dell’uomo sull’uomo, dei conflitti armati tra gli stati, sia necessario soprattutto uscire dalla concezione moderna della politica, secondo cui solo il “contratto” tra le parti impedirebbe l’“homo homini lupus”. Ricoeur oppone coraggiosamente, alla logica hobbesiana, la logica del “dono”, fondata sull’etica del “riconoscimento”, e che non è solo quella contrattualistica dello scambio e della reciprocità, ma è piuttosto quella della gratuità e della generosità; è, per dirla con Ricoeur, la logica della “festività dell’esistenza”. L’etica del “riconoscimento” impone allora che si prendano a modello dei rapporti tra persone e tra nazioni, non gli stati di guerra ma gli stati di pace. “La tesi che vorrei argomentare […] – scrive Ricoeur – si riassume nel modo seguente: l’alternativa all’idea di lotta nel processo del mutuo riconoscimento va ricercata nelle esperienze pacificate del mutuo riconoscimento, le quali si basano su mediazioni simboliche che si sottraggono tanto all’ordine giuridico quanto all’ordine degli scambi commerciali; il carattere eccezionale di queste esperienze, lungi dallo squalificarle, ne sottolinea la gravità e per ciò stesso ne assicura la forza di irradiazione e di irrigazione nel cuore stesso delle transazioni contrassegnate dal sigillo della lotta” (Percorsi del riconoscimento, p. 247).

L’ermeneutica mostra così di essere capace, con Ricoeur, non solo di svelare la propria intenzionalità veritativa, ma di fondare su di essa proposte concrete per una vita etica e sociale fondata sui valori del rispetto dell’altro, della giustizia, della condivisione, dell’amicizia e infine della pace.

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