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Conversazione 

con

Claudio Mancini*

condotta da Mario De Caro*

1)      Assessore Mancini, a te è affidato un assessorato della Regione Lazio che suona impegnativo già dal nome: “Assessorato allo sviluppo economico, ricerca, innovazione e turismo”. Iniziamo dallo sviluppo economico. La situazione economica è in Italia la più grave dai tempi dei ladri di biciclette del dopoguerra. Immagino che le risorse siano assai risicate. E’ ancora possibile, allora, una progettualità almeno a medio termine oppure le finanze bastano appena a gestire la normale amministrazione? E, in ogni caso, quali sono secondo te le priorità economiche su cui la politica progressista dovrebbe concentrarsi?

Nell’Assessorato allo Sviluppo Economico noi abbiamo scelto di unire le competenze sull’innovazione, la ricerca e il turismo, affiancando di fatto dei settori molto diversi ma che riteniamo siano centrali per le politiche di sviluppo. In questo quadro, il problema non è la quantità di risorse disponibili ma la scelta politica su dove collocarle. Nella nostra regione abbiamo investito molto a sostegno delle università, dei centri di ricerca e delle imprese innovative. Lo stesso abbiamo fatto con i fondi disponibili per il turismo. Di fronte alla crisi economica c’è una spinta, del tutto comprensibile, ad aumentare le risorse per gli ammortizzatori sociali. Cosa che certamente va fatta, ma non a scapito delle politiche di sviluppo. Il turismo, per esempio, superata la crisi sarà il primo settore che ricomincerà a crescere in fatturato e occupazione. Per quanto riguarda la ricerca, poi, dobbiamo tutelare gli investimenti programmati, perché sono quelli che ci aiuteranno a uscire dalla crisi economica, disegnando una vera prospettiva di sviluppo. Il Lazio è una regione del tutto anomala. Non esiste un sistema regionale in senso stretto: c’è Roma, la Capitale, ci sono i centri di ricerca nazionali, le università romane che hanno un ruolo di riferimento per tutto il Centro Sud e rapporti internazionali consolidati. Partendo da questa peculiarità, noi abbiamo approvato una nuova legge regionale sulla ricerca, l’innovazione e lo sviluppo che ad esempio ha riconosciuto la funzione che i centri di ricerca nazionali svolgono con la loro presenza sul territorio. Ma noi ci troviamo più spesso nella condizione di accompagnare, con gli interventi regionali, le politiche nazionali, in una realtà che vede uno sbilanciamento tra le dimensioni della ricerca e quelle delle imprese, che sono in prevalenza di piccola e media dimensione. Un quadro complesso, che tuttavia non può prescindere da una scelta decisa sul sostengo all’innovazione e alla ricerca, che soffre da sempre per mancanza di investimenti statali ma che si configura invece come un settore chiave per promuovere lo sviluppo.


2)      A te tocca anche di gestire la ricerca e l’innovazione nella regione Lazio: un campo in cui se i governi di destra hanno devastato, anche la sinistra ha colpe non lievi. Come funziona, a livello locale, l’interazione tra la Regione e gli enti di ricerca e l’università? E, più in generale, come pensi che la sinistra dovrebbe sanare il suo debito storico verso il mondo della ricerca e dell’innovazione scientifica e tecnologica?  

Nel nostro Paese c’è complessivamente una sottovalutazione dell’impatto economico e della creazione di ricchezza che viene dall’investimento sulla ricerca e sull’innovazione. È l’effetto di un provincialismo, di un ripiegamento del Paese, di una scarsa internazionalizzazione delle sue classi dirigenti, che rende poco “popolare” l’allocazione di risorse pubbliche in questi campi. Se c’è un ritardo del centrosinistra italiano, con l’eccezione di alcuni leader, è in un deficit di visione globale. Prova ne è, ad esempio, l’enfasi sulla fuga dei cervelli, quando si parla sempre della necessità di trattenerli, ma mai di attrarli. Il nostro problema non è quanti italiani vanno all’estero a svolgere attività di ricerca, ma quanti ricercatori non italiani siano attratti dal nostro Paese. La regionalizzazione delle politiche della ricerca a volte contribuisce ad alimentare nell’opinione pubblica delle impressioni sbagliate. Ci sono settori di punta della filiera università-ricerca-impresa, penso ad esempio all’aerospazio, per i quali è inconcepibile pensare che ogni Regione possa ospitare un distretto, quando il problema dell’aerospazio è quanto i governi europei nel loro insieme investono su questo settore, nel confronto con gli Stati Uniti o con grandi Paesi come Cina e India. Nel Lazio, dove per la presenza della Capitale si concentrano strutture di rilievo nazionale, questo contrasto è ancora più stridente. C’è bisogno di sprovincializzarsi e di investire, concentrando le risorse sulle nostre eccellenze.
 

3)      Infine il tuo assessorato ha anche la competenza al turismo. In questi anni capita però di vedere come paesi turisticamente meno attraenti ci superino, o stiano sul punto di superarci, nelle classifiche dei paesi a più alta attrazione turistica.  Cosa si può realisticamente fare nelle nostre regioni per migliorare la nostra situazione? E cosa pensi del fenomeno del turismo di massa? E’ portatore di ricchezza (di scambi culturali oltre che economici) o è una minaccia per la preservazioni dei tesori artistici e naturali?

Non sono d’accordo con la premessa, le statistiche vanno lette con attenzione. Se si considerano turisti quelli che si muovono per affari, l’Italia è certamente penalizzata dal non essere una grande piazza finanziaria o produttiva. Ma dal punto di vista del turismo per vacanza è indubbiamente il primo Paese al mondo. In Italia la ricchezza prodotta dal turismo corrisponde all’11% del Pil, cosa che dovrebbe portare a maggiori investimenti e a maggiore attenzione per la tutela del paesaggio, dei beni culturali, dell’arredo urbano, dei servizi pubblici. Tutte cose che fanno bene ai turisti ma anche alla qualità della vita dei cittadini. Gli abusi edilizi sulle coste non li hanno fatti i turisti, diciamolo.

 

4)      Quattro secoli fa i due processi a Galileo (e prima ancora la condanna di Giordano Bruno) portavamo al suo apogeo il conflitto tra scienza e religione. Dalle condanne che ne seguirono, e dalla cappa che esse imposero sulla libertà di pensiero e di ricerca, la scienza italiana (che allora ancora dominava in Europa) ha sempre stentato a riprendersi. Oggi, dopo qualche decennio di convivenza pacifica, e talora anche feconda, si avverte nuovamente l’insorgere di conflitti, sempre più aspri, tra la visione laica e quella religiosa della vita politica. Cosa ne pensi?


La ricerca scientifica, la formazione, la conoscenza rappresentano un valore costituzionale irrinunciabile, che va sempre tutelato e garantito.  Io credo che i conflitti tra il pensiero laico, la razionalità scientifica da una parte e la visione religiosa dall’altra, esplodano quando la politica è debole. Anzi, quando manca la politica. Il nostro Paese ha conosciuto una faticosa fase di ingerenze quando lo Stato non è riuscito a difendersi. Lo abbiamo visto con la procreazione assistita, con il caso Welby, la tragica vicenda di Eluana Englaro. Quando al contrario la legittimazione democratica è forte e riesce a garantire il confronto e la tutela dei diritti, questa contrapposizione si contiene. Una politica dotata di autonomia culturale è in grado di dirimere questi conflitti. Ed è chiarissimo che senza la ricerca non si va da nessuna parte. Si tratta di un bene da tutelare sia dal punto di vista economico che sociale e culturale. Ma una guerra laicista non serve. La politica deve fare la sua parte per contenere le ingerenze e difendere la libertà di ricerca, la scuola, l’industria del sapere dagli appetiti economici. Con l’affermarsi delle nuove società multiculturali e multireligiose, la politica è sollecitata in modo inedito a rispondere alle grandi sfide aperte dai traguardi raggiunti con l’innovazione scientifica e tecnologica, sul terreno delle grandi questioni della bioetica. Il progetto politico del Pd è nato anche per dare una risposta adeguata, su un terreno avanzato, a questi temi. 

 

5)      Cinque secoli fa il nostro massimo pensatore, Niccolò Machiavelli, additava nella romana “repubblica tumultuaria” il modello politico concreto, non utopistico, a cui bisognerebbe tendere nella vita politica. A suo giudizio, soltanto se le istituzioni si fanno carico dei conflitti, dando voce anche ai ceti politicamente e socialmente più deboli possono far sì che non insorgano i “torbidi” ovvero che la vita politica non degeneri nella corruzione e nella guerra civile. A me pare che il problema fondamentale della politica della sinistra (non solo italiana, ma soprattutto italiana) sia la sua autoreferenzialità, la sua incapacità di dare veramente voce alle istanze profonde della società. La destra, certo, dà voce solo alle istanze viscerali, becere, razziste, alimentandole e facendosene forza. Ma la sinistra come dovrebbe rispondere? 

La destra ha vinto perché è riuscita a illudere di saper tutelare meglio i ceti deboli. Certamente lo ha fatto con una retorica populista che ha alimentato le istanze più becere. Ma se questo è stato possibile, se nelle periferie romane ha preso voti Forza Nuova, è perché, in alcuni momenti, è sembrato che nel centrosinistra avessimo smarrito la capacità di tutelare le fasce più deboli. Questo è uno dei motivi forti della sconfitta e la ragione per cui certe fasce sociali si spostano a destra. Di sicuro il centrosinistra ha attraversato momenti di debacle e ha peccato di autoreferenzialità. Nei due anni che ci lasciamo alle spalle, a partire dalla sua nascita, il Pd è stato prigioniero di una discussione interna e di una fase di travaglio, anche per errori politici e di gestione. Ma un soggetto nuovo non nasce per palingenesi e questo momento preparatorio e di discussione va rispettato. Certo questa fase deve avere un termine e ci auguriamo che ne esca un soggetto politico definito, che sia in grado di leggere la storia del Paese e la società attuale, le sue necessità e le sue istanze. Finalmente, con il Congresso alle porte, stiamo attraversando una prova di democrazia reale. Dalla nascita dell’Ulivo, nel ’96, è la prima volta che siamo veramente chiamati a scegliere tra linee politiche diverse e da questo passaggio uscirà un partito e una classe dirigente che dovranno essere l’anima di un soggetto più forte e culturalmente autonomo.

 

Mario De Caro

 

 

NOTA BIOGRAFICA


 

Claudio Mancini è nato il  22 febbraio 1969 a Roma, dove vive insieme alla compagna e ai suoi 2 figli.

Inizia  il suo impegno politico da giovanissimo nel  Pci e nel 1992, a 23 anni, viene eletto Presidente della XVI  Circoscrizione. 

Rieletto nella consiliatura successiva, assume incarichi di direzione nella segreteria della federazione Ds di Roma. 

E’ direttore della rivista di cultura e informazione politica “La lettera”.

Nel 2001 è Assessore della Giunta del Municipio XVI con deleghe all’Urbanistica, ai Lavori Pubblici, all’Ambiente e alla Mobilità.

Nell’aprile 2005 viene eletto Consigliere della Regione Lazio nella lista “Uniti nell’Ulivo” e  assume l’incarico di Presidente della  Commissione  Bilancio, programmazione economico-finanziaria e partecipazione. È  membro della Commissione Sviluppo Economico, Ricerca Innovazione  e  Turismo e della Commissione Urbanistica.

Dal  31 di luglio 2007 è  Assessore allo Sviluppo Economico, Ricerca  Innovazione e Turismo della giunta Marrazzo.

 

Mario De Caro è Professore Associato di Filosofia Morale all’Università Roma Tre. 

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