Il pensiero di Emmanuel Levinas
tra ispirazione profetica e filosofia
Intervista a Irene Kajon*
a cura di Bachisio Meloni
In margine al Convegno internazionale di studi dedicato a “Visage et Infini. Analisi fenomenologiche e fonti ebraiche in Emmanuel Levinas” inserito all’interno delle celebrazioni del 2006 per il Centenario della nascita del filosofo e alla relativa pubblicazione degli Atti dal titolo Emmanuel Levinas. Prophetic Inspiration and Philosophy, a cura di I. Kajon, E. Baccarini, F. Brezzi, J. Hansel, Ed. La Giuntina, Firenze 2008.
Jacques Derrida nel suo intervento commemorativo e celebrativo di Adieu à Emmanuel Lévinas dichiara che “il risuonare di questo pensiero ha cambiato il corso della riflessione filosofica del nostro tempo, e della riflessione sulla filosofia”. Le chiedo: dove risiedono, secondo Lei, le ragioni più profonde della grandezza di questo pensiero, e in che cosa consiste il carattere straordinario dell’opera levinasiana?
Sono assolutamente d’accordo con il giudizio che Derrida esprime sul pensiero di Levinas. È vero che questo pensiero, seguito dal suo risuonare in varie lingue (in inglese, tedesco, italiano, spagnolo, ebraico, oltre che in francese) e in vari ambienti intellettuali, ha cambiato il corso della riflessione filosofica contemporanea e ha influito sulla riflessione intorno al concetto stesso della filosofia. Mi sembra che la novità del pensiero levinasiano consista nella radicalità con la quale esso pone il tema di un “altrimenti” rispetto all’“essere” come la dimensione nella quale soltanto l’uomo diventa veramente uomo, acquista la sua umanità. “Essere” per Levinas è non soltanto il regno dei fenomeni, siano essi fatti della natura o eventi storici, i quali si manifestano ai sensi e vengono conosciuti dalla ragione rivolta alla determinazione di oggetti, o di contenuti, ma anche la sfera del sovrasensibile, quando questo assume l’aspetto di Dio come Ente sommo o di un al di là delle anime contrapposto al tempo. Levinas è un critico tanto dell’empirismo o materialismo filosofico, poiché esso rende l’uomo dipendente dalle cose, dalla storia, dalla natura, quanto della teologia naturale, poiché essa richiede che l’uomo, comprendendo o intuendo l’Assoluto o l’Incondizionato, si subordini poi a questo. Filosofie dell’“essere” sono per lui sia le filosofie che inchiodano l’uomo alla nascita, al destino, alle inclinazioni naturali, alla situazione storica o esistenziale – da Epicuro a Hume a Sartre – sia le filosofie che lo pongono al servizio di un Dio ben definito o evocato nella mistica o nella poesia – da Tommaso d’Aquino a Heidegger. Per Levinas tutte le filosofie dell’“essere” sono filosofie dell’“identità”: al fondo del soggetto che si radica nella natura o nella storia o che trova la sua quiete in un Dio concepito come fondamento assoluto o avvertito nel sentimento come sacro, vi è a ben vedere il terrore del rischio, dell’avventura, del nomadismo, di tutto ciò che sconvolge il consueto e rassicurante. Quella di Levinas è una filosofia della libertà: ma libertà è per lui non innanzi tutto la capacità di autodeterminarsi, di scegliere, la spontaneità nell’agire, ma la responsabilità che ciascun “io” ha nei confronti dell’“altro uomo”, l’altro uomo che è di fronte a lui, che gli appare, e che tuttavia non è rinchiuso nel mondo fenomenico. L’“altrimenti che essere” è l’etica: qui l’“io” non è il soggetto soddisfatto, dotato di buona coscienza, che rivendica i suoi meriti, o che approfitta degli eventi per affermare ogni volta se stesso, oppure che trova dentro di sé il divino, caro alla tradizione filosofica e teologica, ma il soggetto che ha doveri, prima che diritti, consapevole delle sue colpe, abitato in certo modo dall’“altro”, intimamente animato, non stabile, mai privo di rimorsi. La religione per Levinas si identifica con l’etica: Dio si delinea nell’incontro con l’“altro uomo” come lontana e mai afferrabile origine di comandamenti incondizionati – dal non esercitare violenza al soccorso nel nutrire, ospitare o curare. La sfera dell’“essere” – la quale implica il confronto mediante la ragione, dunque la giustizia, lo Stato, le nazioni, i rapporti tra le nazioni e tra gli Stati, la politica come campo delle mediazioni – si apre solo a partire da quella dell’“altro” da “essere”, la quale riguarda la dimensione “io”-“altro”. La filosofia levinasiana radicalizza l’idea della ragione pratica e il primato della ragione pratica affermati dalla filosofia kantiana: Levinas esprime in modo più evidente di Kant, il quale specie nella Critica del Giudizio rimane legato alla tradizione metafisica, l’anteriorità dell’etica rispetto alla conoscenza, il “tu devi” come unico modo che l’uomo ha di entrare in contatto con la sfera dell’eterno o intelligibile (il noumenico), la critica del naturalismo e sentimentalismo nella vita morale. Come Kant, Levinas è rigoroso e in modo sobrio – contro ogni romanticismo – si appella alla ragione in etica. La ragione pratica, affermata da Kant, coincide con quella capacità dell’uomo di formare il suo “io” soltanto a contatto con l’“altro uomo” che Levinas accentua, facendo uso di iperboli. Ma egli si richiama, oltre che a Kant, anche ad altri pensatori, in particolare il Platone del bene “al di là dell’essenza” e il Descartes che scopre in Dio ciò che è oltre l’“ego cogito”. Tuttavia, Levinas vede la storia della filosofia – da Parmenide a Hegel alla crisi dello hegelismo, dai primordi in Grecia fino al Novecento – segnata dalla ricerca rivolta all’“essere” più che all’“altrimenti che essere”. Perciò egli indica anche alla filosofia la necessità di pensare di nuovo se stessa, come Derrida dice nella sua commemorazione.
Il Convegno di Roma dedicato a Levinas ha inteso soffermarsi sulla modalità di un pensiero in grado di contenere al suo interno, in stretto parallelismo così come in forte tensione dialogica, l’eredità del pensiero ebraico accanto alla più illustre tradizione del pensiero greco e occidentale. Che cosa ritiene sia maggiormente emerso, qual è lo spirito di fondo presente in questi saggi raccolti ora nel volume?
Il Convegno romano su Levinas, tenutosi nel 2006 per celebrare il centenario della nascita – parte delle iniziative che si sono tenute in varie parti del mondo, non solo in Europa e negli Stati Uniti, ma anche in America Latina, in Israele, in India – ha inteso innanzi tutto presentare Levinas come un filosofo che risale a una dimensione anteriore alla filosofia stessa, se con la parola filosofia si indica quella disciplina che riflette sull’essere del mondo come serie di eventi naturali o storici o sull’essere di Dio, del mondo come totalità, o dell’anima. Questa dimensione è quella dell’etica. Colui che filosofa presupponendo l’etica è, prima di essere un filosofo, un uomo in contatto con i suoi simili. Ricordo che Levinas – prima di impegnarsi nell’attività accademica nelle Università francesi, dopo la pubblicazione di Totalità e Infinito, avvenuta nel 1961 – fu insegnante, poi direttore in una scuola per maestri facente capo all’“Alliance Israélite Universelle”. Da bambino, in Lituania, egli aveva vissuto i difficili rapporti esistenti tra la comunità ebraica e l’ambiente circostante e poi gli anni della Rivoluzione russa; da giovane a Parigi visse gli anni dell’ascesa del nazismo e da uomo maturo la prigionia in un campo per militari francesi, ma isolato da questi in quanto ebreo. La sua famiglia di origine, che era rimasta in Lituania, fu sterminata dai lituani, alleati dei nazisti in funzione anti-russa. La sua propria famiglia – la moglie Raissa e una figlia – si salvò grazie all’aiuto di conoscenti e amici nella Parigi sotto occupazione tedesca. La filosofia levinasiana ha origine da un’esperienza esistenziale drammatica: essa si presenta come una filosofia universale, ma avente la sua fonte in un’esperienza umana più profonda del sapere. Certo, questa filosofia è anche il frutto di una raffinata elaborazione intellettuale: come filosofia dell’etica, dalla quale prende le mosse, essa rimane segnata – come lo stesso Levinas mette in luce – dalla tensione tra il Dire (l’“io” appartenente all’“altrimenti che essere”) e il Detto (l’“io” che riflette, che articola il suo discorso, che conosce, appartenente all’“essere”), una tensione ineliminabile. L’uomo che vive e pensa, secondo Levinas, si trova necessariamente in tale tensione. Ora, le fonti ebraiche – come Levinas ha spesso affermato – esprimono la dimensione dell’etica con parole più limpide, più incisive, più fresche, perché più originarie, di quanto non sia in grado di fare quella tradizione filosofica che ebbe il suo avvio in Grecia con i presocratici. Chi intenda filosofare risalendo all’etica trova in tali fonti espressioni e termini che è necessario siano introdotti nella filosofia, se questa deve sfuggire al dominio di quell’“essere” che essa prevalentemente ha assunto nel corso della sua storia come suo oggetto principale. Questo particolare lessico, che Levinas utilizza nei suoi scritti particolarmente a partire dalla fine degli anni Sessanta (“eccomi”, “umiltà”, “sostituzione”, “espiazione”, “colpa”, “traccia”, “Nome”…), è anteriore, ma non esclusivo, rispetto a quello prevalentemente utilizzato dalla tradizione filosofica, che egli anche continua a utilizzare (“idea”, “io”, “essere”, “pensiero”…). Ricordo che quando si parla di fonti ebraiche si intende sia il Pentateuco (che gli ebrei chiamano propriamente Torah, ovvero insegnamento, indicazione, istruzione), i Profeti (Neviim) e gli scritti riuniti sotto il nome di Agiografi (Chetuvim), i quali compongono la Bibbia ebraica, sia la lunga tradizione di commenti, discussioni, riflessioni che si è sviluppata a partire dalla Bibbia ebraica (Talmud, liturgia, poesia, Midrash, Kabbalah). Il pensiero ebraico – se con esso si indica il pensiero contenuto nella Bibbia ebraica – prende forma in epoche più antiche rispetto all’età che vede il sorgere della filosofia greca; se con esso si indica invece quel pensiero che ha origine dall’intreccio tra la civiltà greca e la civiltà ebraica, del quale Filone d’Alessandria è il primo esponente, allora esso è naturalmente più recente rispetto alla filosofia greca e meno importante e influente nell’ambito della tradizione che ha origine sia soltanto da tale filosofia, sia da tale filosofia connessa al cristianesimo. Levinas è un filosofo ebreo nel senso che usa per la sua filosofia, rivolta a tutti, un linguaggio tratto dalle fonti ebraiche e dal pensiero ebraico, compreso sia nel primo che nel secondo senso: egli esprime ciò che considera il momento peculiare dell’umano, che è l’etica appunto, attraverso il riferimento alla letteratura religiosa ebraica in senso lato. Ma il suo obiettivo è quello di costruire una filosofia per l’uomo che parta dall’uomo e dal suo vivere sì nel mondo, eppure anteriormente oltre il mondo. Mi sembrano queste le idee principali che emergono dal volume che raccoglie gli Atti del Convegno.
Parliamo di “ispirazione profetica”, ispirazione che nutre nel profondo la riflessione filosofica levinasiana, ispirazione – Lei lo ha ricordato – come tensione verso il messaggio implicito nelle Sacre Scritture (la fonte biblica, la lettura della Torah, il riferimento alla letteratura talmudica come risposta all’annuncio per un nuovo ordine di moralità e di Giustizia, come invito al senso della “prossimità”, del “sacrificio” fino alla “sostituzione” per altri …), ispirazione a tale fondamentale messaggio che, come ha tenuto più volte a ribadire Levinas, emerge non a partire dal modello della tradizione teologica o mistica, bensì secondo un punto di vista strettamente ed esclusivamente etico-filosofico (o quanto meno vicino alla tradizione del pensiero teologico negativo, penso ovviamente all’etsi Deus non daretur): un pensiero dunque, è il caso di sottolinearlo, filosoficamente (laicamente) ispirato.
In effetti, alla luce di quanto sopra detto, dovrebbe apparire chiara la ragione per la quale Levinas introduce il termine di “ispirazione” o di “profetismo” – dunque un’ispirazione profetica – quando descrive il modo in cui l’“io”, attraverso la vista dell’“altro” che gli permette di elevarsi al noumenico, al puramente pensato sul piano dell’etica, si forma nel senso del “rispondere” per l’“altro”, rispondere anche delle azioni che quest’ultimo commette liberamente. Ricordo che “profeta” nella tradizione ebraica è non solo Isaia, o Geremia, o Ezechiele, ma anche Adamo, anche i Patriarchi, anche Mosé: “profeta” è chiunque entri in contatto con l’eterno, colui al quale Dio si rivolge attraverso fenomeni o eventi che gli lasciano intravvedere una dimensione altra rispetto a quella dei fatti naturali o storici, pur senza che egli abbandoni la sua propria finitezza, il suo essere nel tempo. Il “profeta” è chi vive nel mondo e opera in esso rivolgendo lo sguardo verso l’eternità dell’etica, che non è un insieme astratto di principi e di regole, ma un punto di riferimento o di orientamento che obbliga ogni volta e sempre di nuovo a una libera scelta entro un contesto determinato. Il linguaggio di cui Levinas si serve per esprimere il momento etico del vivere umano, tratto dalla Bibbia ebraica, non nega affatto la filosofia; anzi, come sopra ho accennato, la conferma, la rende più forte, la rinnova, per il fatto stesso che offre alla filosofia il suo necessario presupposto, senza il quale essa diverrebbe o pensiero dell’evasione dell’“io” nell’al di là di un puro mondo di idee, astratto e rigido, oppure pensiero dell’immersione dell’“io” nell’al di qua, nei suoi continui cambiamenti e trasformazioni. Di qui l’interesse che il pensiero levinasiano suscita tanto presso gli ambienti religiosi quanto presso gli ambienti laici: se chi si richiama a una tradizione religiosa vede in questo pensiero lo strumento per riportare tale tradizione al suo unico significativo momento iniziale – l’“uno-per-l’altro”, il “Dio che viene all’idea” come “an-arché”, l’“io” in quanto privato della sua propria consistenza e divenuto “vicario” o “rappresentante” dell’“altro” – chi si attiene soltanto all’uomo come essere naturale e storico vede in questo pensiero lo strumento per impedire che l’umano si annulli nel tempo, perda il suo senso e il suo valore. Levinas, come già sopra ricordato, non è né un teologo né un filosofo il quale ritiene impossibile per l’uomo raggiungere innanzi tutto sul terreno etico ciò che sfugge a ogni immagine, il puramente intelligibile. Egli non propone dunque nei suoi scritti una teologia negativa, la quale, come giustamente è stato notato, confina con l’ateismo, poiché un Dio di cui si predica solo ciò che non è, è un Dio che rimane in fondo indeterminato, inconoscibile. Egli propone piuttosto un richiamo a un Dio che si configura come il punto, non definibile e non nominabile, di provenienza di ciò che egli chiama “traccia” a partire dal “volto” (visage) dell’“altro”: Dio come non-origine delle indicazioni di una condotta buona, non violenta, accogliente. Mi sembra che su questa nozione di Dio potrebbero convenire sia degli uomini di fede che vedono l’essenziale della loro religione nell’etica, sia dei laici che sottraggono l’etica al soggettivo e arbitrario: l’etica, naturalmente, vista nei suoi elementi principali, quali l’onestà, la mitezza, la difesa del debole, la mancanza di doppiezza e di ipocrisia, non come un insieme di prescrizioni che toccano particolarmente la vita privata, come la sfera della sessualità o della morte e della vita (ricordo, per inciso, che Levinas ha scritto delle belle pagine sul “femminile” e sulla “filialità”, in quanto parte non dell’etico, ma dell’eros). La formula dell’“etsi deus non daretur”, usata da Grozio per caratterizzare la validità del diritto, al di là di ogni riferimento a Dio, sarebbe stata accettata da Levinas, credo, per caratterizzare la validità dell’etica di per sé: purché l’esclusione del Dio della teologia o della mistica non avesse significato anche l’esclusione di un Dio come “an-arché”, non tematizzabile in quanto tale, eppure non indefinibile dal punto di vista del Suo manifestarsi come “traccia”. Ricordo che, secondo Ernst Cassirer (cfr. il suo libro La filosofia dell’illuminismo, apparso in Germania nel 1932), Grozio sostituisce al Dio della tradizione metafisica scolastica il bene di cui parla Platone nella Repubblica, posto oltre le idee ed entro il cui orizzonte soltanto le idee acquistano significato. Ricordo anche che nella tradizione ebraica, dal libro dell’Esodo al Talmud alla Guida dei perplessi, la “traccia” sta a indicare gli attributi di azione (misericordia e giustizia) che sono i soli che possono essere riferiti a Dio e che fungono da modelli per l’agire umano.
Levinas in continuità con il pensiero di Cohen, Rosenzweig, Buber (autori che puntualmente ritroviamo citati fra le pagine dei numerosi interventi) fornisce forse in maniera più esplicita – o a partire da una riflessione più espressamente elaborata ed esaustiva nei suoi molteplici aspetti, specie se considerata alla luce dell’esperienza della Shoah –, l’idea di quanto il riferimento alla centralità o al primato della politica, della filosofia, dell’arte, della religione stessa, non possa in alcun modo prescindere da un altro essenziale primato, quello dell’etica. Levinas dimostra quanto l’etica, profondamente vissuta nei modi di un’autentica “filosofia prima”, apra in modo più radicale, meno equivoco, di quelle discipline un sentiero in direzione dell’umano (ciò che determina per lui una più persuasiva idea di trascendenza). Eppure, la dimensione etica dimostra di trovare di volta in volta sempre meno spazio e maggiori difficoltà nel mondo attuale, tali resistenze non pensa possano in qualche modo influire in senso ancor più negativo nel pensiero filosofico contemporaneo sempre più caratterizzato – come del resto Levinas stesso ha inteso dimostrare – per la sua inadeguatezza e per il suo ritardo?
Certamente Levinas – come Lei osserva – ha molto appreso da Franz Rosenzweig e Martin Buber, autori che spesso cita, per quanto abbia elaborato in maniera originale i loro insegnamenti. Dal primo ha ripreso la critica del concetto di “totalità”, cui approda, Levinas ritiene, ogni filosofia dell’“essere” o della “identità”; dal secondo il tema dell’“inter-umano” o del “tra”. Hermann Cohen è citato molto più raramente e solo di sfuggita in alcuni scritti dedicati ad autori ebrei dell’epoca moderna come importante rappresentante del pensiero ebraico in Germania agli inizi del Novecento. Forse Levinas vedeva in Cohen soprattutto il rappresentante di un ebraismo che aspirava a mostrare l’affinità e le somiglianze tra cultura ebraica e cultura tedesca – ciò che dopo l’ascesa di Hitler gli sembrava il segno di un ingenuo ottimismo – oppure soprattutto il fondatore a Marburgo, nell’età di Bismarck, di una scuola neokantiana, destinata a essere presto sostituita dalla più profonda filosofia di Husserl e Heidegger. Eppure il progetto di Cohen di una “religione della ragione”, cioè di un razionalismo etico rinviante al Dio unico in quanto caratterizzato, sulle orme di Maimonide, soltanto da attributi morali, può essere visto – come mostrano alcuni saggi contenuti nel volume degli Atti del Convegno – come un antecedente del progetto levinasiano: il progetto di un pensiero filosofico che vede l’uomo in contatto con un Dio che certo attraverso l’etica si configura come “non-condizione”, “non fondamento”, ma che tuttavia non scompare, non viene del tutto cancellato, persiste anzi nel richiamare in modo esigente l’uomo alla sua responsabilità, ai suoi importanti compiti, in una prospettiva che – per riprendere ancora una volta il linguaggio biblico, ma entro la filosofia – è messianica. In questa prospettiva si inseriscono le riflessioni di Levinas sulla politica, sul diritto, sulla storia, anche sulla scienza e la tecnica, sull’arte: tutte queste sfere richiedono sì una riflessione non solo sull’“inter-umano”, ma sull’“essere”; esse però hanno nell’etica la loro ragion d’essere, il loro senso, la loro giustificazione. Negli ultimi anni la letteratura critica su Levinas, specialmente in ambiente francese, ha particolarmente indagato il legame tra etica e ontologia in Levinas, proponendo nuove idee alla teoria della politica o del diritto o all’estetica. È vero che l’etica viene oggi contraddetta in molti casi. Ma contraddetta lo fu anche nel passato, anzi da sempre: l’etica – come è stato notato – nasce proprio per impedire ciò che si può fare, ciò che rimane una possibilità sempre aperta, come l’uccidere o il rubare o il dire menzogne. Forse proprio la Shoah, che Levinas ha sempre considerato come lo sfondo storico della sua meditazione, dagli anni in cui essa si preparava fino al tragico epilogo, ha mostrato all’umanità i terribili approdi della negazione dell’etica e dunque la necessità di un’affermazione dell’etica da parte di una filosofia maggiormente attenta alla sua specificità, ai suoi aspetti peculiari, ai suoi presupposti e ai suoi modi di presentarsi. Mi sembra che la lotta contro Machiavelli e il machiavellismo e una forte ispirazione platonica, che invita a riprendere il tema degli ideali di libertà, giustizia e pace nell’antropologia filosofica e nella filosofia politica, siano una caratteristica della seconda metà del Novecento e di questi primi anni del nuovo millennio. Mi sembra che il pensiero di Levinas – contro tutte le filosofie che celebrano la volontà di potenza dell’uomo fine a se stessa, oppure la sua assoluta libertà senza responsabilità, o anche la fine dell’umanesimo in nome del gioco delle apparenze o del determinismo di ferrei meccanismi economici o sociali – si inserisca pienamente entro questo contesto storico. Abbiamo ritenuto perciò importante – noi tutti che abbiamo organizzato e partecipato al Convegno – attrarre oggi l’attenzione su Levinas, introducendo anche il mondo filosofico italiano nell’ambito internazionale del ricordo della sua figura e dell’analisi e valutazione della sua proposta filosofica.
* Ordinario all’Università di Roma 1 “La Sapienza”. Insegna Antropologia filosofica come disciplina riguardante i problemi dell’uomo e dell’umanesimo, alla luce di una riflessione sia sulle fonti religiose ebraiche e cristiane sia sulla storia della filosofia.