L’identità del Partito Democratico
attraverso il dialogo fra laici e cattolici
di Mauro Visentin
Ho seguito con interesse e partecipazione, fin dal suo primo profilarsi, l’emergere graduale e il successivo mettere progressivamente radici nell’area di centro-sinistra del progetto di un Partito Democratico. Le ragioni che militano a favore di un simile disegno sono, credo, oggi, sotto gli occhi di tutti. Ovviamente, di tutti coloro che abbiano (o vogliano avere) occhi per scrutare l’orizzonte, per vedere che cosa sta accadendo nella società e nella politica italiane ma anche europee e mondiali. E’ abbastanza naturale che un progetto di questo genere incontri tanto la curiosità e l’interesse diffusi, che mi sembra indubbio stia suscitando nell’elettorato, quanto le resistenze di una parte, minoritaria anche se non marginale, degli apparati di entrambi i due maggiori partiti destinati a dar vita alla nuova formazione, sebbene quelle più forti ed esplicite siano senz’altro quelle che si sono riscontrate tra i Democratici di Sinistra. E’ naturale, perché in gioco ci sono questioni essenziali, che riguardano la vita di ogni movimento politico, il quale, di qualunque natura e orientamento sia, ha, innanzitutto, il bisogno di darsi un’identità, riconoscibile e definita, con la quale presentarsi agli elettori e sottoporsi al loro giudizio. Tra coloro che si sono opposti alla nascita del nuovo partito e resistono, arroccati in difesa, nella ridotta delle vecchie sicurezze, prevale un moto di paura, un istinto di conservazione che li induce a preferire un’identità nota e collaudata ad una ignota e dai contorni ancora incerti. Il fatto, però, è che la vecchia identità non corrisponde più né alla dinamica del mutamento sociale intervenuto, con progressione sempre più impetuosa, negli ultimi trent’anni, né alle modifiche che lo svolgimento della storia europea e mondiale ha imposto allo scenario geopolitico dei nostri giorni. Ma quando la realtà è in movimento è difficile cogliere il senso del processo in corso e definire un’identità nuova, che sia, ad un tempo, congruente tanto con quello che si vede o si intravede quanto con quello che ci si può attendere. Tuttavia, chiarito il fatto che una nuova identità è indispensabile (una nuova identità vuol dire qualcosa cui ancorare un progetto, un programma, una strategia, un’idea della società italiana, e richiede una riforma della cultura politica delle formazioni di provenienza e delle loro classi dirigenti) e stabilito (cosa implicita nelle nostre premesse) che non può essere l’esito di una sommatoria, si tratta di capire come essa possa venire elaborata, posto che altrettanto chiaro ed evidente delle cose dette sin qui è, deve essere, il fatto che una nuova identità non può neppure nascere “a tavolino”, come un prodotto di marketing politico.
Cerchiamo, allora di essere schematici e generici quanto basta (anche lo schematismo e la genericità possono essere virtuosi, in certi casi) per poter cogliere un’essenza unitaria della sinistra in quanto tale e ricavare un senso dalla sua storia (ossia – oltre ad un significato comune alle sue varie incarnazioni – una direzione di marcia). Operazione già tentata, alcuni anni fa, da Bobbio, con notevole successo mediatico, ma su basi forse ancora troppo ancorate ad un’idea novecentesca di “sinistra” per poterla oggi riproporre come tale. Potremmo dire così: da quando è nata (da quando, diciamo meglio, è nato il suo nome e comunque nel corso della storia moderna, per evitare di risalire ai “primi vagiti del pensiero”, come avrebbe detto Delio Cantimori) la sinistra si è connotata ricorrendo all’adozione (esplicita o implicita) del concetto di “progresso” (come la destra servendosi del concetto di “tradizione”), associato all’idea che la sua strada – intendo dire la strada del progresso (in senso sociale, ma insieme anche storico e culturale) – debba passare per l’emancipazione degli esclusi, e quindi attraverso la rivendicazione dei loro diritti. Quello che però ha riempito di contenuti mutevoli (storicamente mutevoli) questo significato generico, è stata proprio l’evoluzione del concetto di “esclusione”. Il concetto di “esclusione” evolve storicamente perché l’esclusione non è un dato di fatto: è innanzitutto qualcosa di percepito da parte di chi ne è o se ne sente vittima, ma è poi anche qualcosa che per essere considerata oggettivamente tale deve dare luogo a richieste di inclusione la cui legittimità possa essere riconosciuta anche al di fuori della cerchia di coloro che ne sono direttamente toccati. Occorre che esistano diritti o beni che sono goduti da qualcuno perché chi non vi ha accesso si senta escluso da questo godimento. Ma poi occorre anche che quei diritti e quei beni siano accessibili, almeno potenzialmente, a tutti perché il fatto che esistano vincoli sociali che pongono dei limiti alla generale capacità di fruirne sia sentito come un’esclusione e un’ingiustizia. Quando la ricchezza era legata essenzialmente alla terra e all’eredità famigliare, l’esclusione dei più dal suo godimento veniva accettata con rassegnazione fatalistica, ossia non era percepita come tale (vale a dire, appunto, come un’esclusione) neppure dalla maggioranza degli esclusi, ma come un dato di fatto, come qualcosa di naturale. Così arriviamo ad un ulteriore segno distintivo atto a connotare il concetto di “esclusione”: il fatto che essa, per essere tale (ovvero per essere riconosciuta e percepita come tale) deve nascere dalle disposizioni degli uomini, non da quelle, imperscrutabili, di Dio o della Natura. Questo spiega perché la prima forma di esclusione ad essere stata storicamente percepita sia stata quella dai diritti politici e giuridici. In un secondo momento, con il passaggio a forme nuove e produttive di ricchezza sociale, legate all’iniziativa e alla fortuna dei singoli, si è iniziato a percepire come un’esclusione anche la mancanza della possibilità di godere di certi beni materiali o l’assenza di condizioni volte a permettere ai più di sollevarsi al di sopra di uno stato di indigenza, con le conseguenti rivendicazioni di diritti sociali ed economici. Oggi si può sostenere che queste due fasi della vita storica della sinistra si siano concluse, nel senso che entrambe hanno dato luogo a lotte e rivendicazioni coronate da successo. Ciò non vuol dire che attualmente problemi di estensione dei diritti politici e delle garanzie sociali a nuove e diverse categorie di esclusi (o anche di miglior tutela delle vecchie categorie di soggetti un tempo privi di riconoscimento) non si propongano all’attenzione della politica, ma che, per coloro almeno che hanno cessato di attendere il superamento catartico del capitalismo e del mercato, questi problemi si presentano oggi come problemi di “manutenzione” o, tutt’al più, di integrazione del sistema di diritti vigente. E sono problemi di “manutenzione” che riguardano, sia pure con sensibilità diverse, tanto la sinistra quanto la destra, che, dunque, faticano e faticheranno sempre più a distinguersi in modo netto (ideologico) su questo terreno. Il fronte dell’esclusione si è oggi spostato su un terreno nuovo, meno facilmente afferrabile e meno soggetto alla possibilità di essere definito con sicurezza, (anzi, in gran parte ancora da definire) in virtù di due fenomeni che hanno assunto progressivamente un carattere davvero “epocale”: lo sviluppo della scienza e delle risorse tecniche che essa permette di elaborare e i processi di massificazione della società e della cultura.
Il primo di questi due fattori, soprattutto per i progressi avvenuti in campo biomedico, ha esteso il concetto di esclusione e l’orizzonte della possibilità del “sentirsi esclusi” anche ad una serie di soggetti che in precedenza non vi rientravano, come, per esempio, le coppie sterili o i malati tenuti in vita con sistemi artificiali. La possibilità di avere figli per mezzo della fecondazione in vitro e di una serie di tecniche connesse (come la fecondazione eterologa) ha esteso alle coppie sterili o ad una parte di esse la percezione del sentirsi esclusi, in tutti i paesi nei quali queste tecniche sono illegali o l’accesso ad esse non è garantito dal sistema sanitario. Per contro, le nuove opportunità terapeutiche che la medicina offre oggi e che consentono, ove richiesto dalla specifica patologia del paziente, di surrogare, per mezzo di strumenti meccanici, alcune indispensabili funzioni vitali hanno consentito un prolungamento artificiale e forzoso della vita che in certi casi viene percepito come costrittivo e indesiderabile, rendendo coloro che sono soggetti a simili trattamenti, in genere sempre associati a condizioni di impedimento fisico pressoché totale, di fatto degli esclusi rispetto alla possibilità – che alle persone sane non è mai sottratta, per definizione – di disporre liberamente della propria vita, in tutti quei paesi nei quali non è prevista una legislazione che regoli e disciplini il diritto alla morte assistita e l’accesso ad esso. Sono solo due esempi, resi particolarmente significativi anche da recenti episodi di cronaca. Da parte loro, la società di massa e l’industria culturale che le tiene dietro hanno determinato la rottura degli equilibri tradizionali su cui si fondava l’assetto della società ottocentesca e primonovecentesca, facendo insorgere bisogni ed esigenze nuovi che hanno chiesto e chiedono soddisfazione attraverso il riconoscimento di corrispondenti diritti: sono stati ieri e l’altro ieri il caso del divorzio e quello dell’aborto, è oggi il caso del riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, sia etero- che omosessuali.
Questi diritti, che si possono definire civili o di “cittadinanza”, come è ormai abitudine invalsa fare, ma che più propriamente si dovrebbero chiamare “diritti esistenziali della persona”, sono quelli che toccano temi e problemi, come si usa dire oggi, “eticamente sensibili” e questo comporta che da parte di laici e cattolici può non esserci piena convergenza sul riconoscimento della loro legittimità. Se, pertanto, essi rappresentano il fronte storicamente più avanzato della lotta all’esclusione e sono, dunque, i diritti, stando a quanto abbiamo sostenuto sin qui, sulla rivendicazione dei quali dovrebbe più propriamente fondarsi la nuova identità di una sinistra moderna, come quella cui, in Italia, intende dare vita e voce il progetto del Partito Democratico, è evidente che, tenendo conto dei soggetti e delle formazioni che dovrebbero partecipare, con la loro confluenza in esso, alla realizzazione di questo progetto, il problema di come dare seguito all’esigenza che il nuovo partito sia contraddistinto da un profilo programmatico autonomo ed omogeneo si viene a collocare, del tutto naturalmente e senza forzature, sul terreno più difficile. Scendere sul quale è, tuttavia, oggi, un compito ineludibile per una sinistra liberale che voglia definire una propria chiara fisionomia ideologica (hic Rhodus… con quel che segue). Questo non significa, è ovvio, che i temi economici, nella società odierna, abbiano perso importanza. Significa piuttosto che hanno perso valore simbolico e forza di identificazione (o che conservano entrambe le cose in misura assai modesta) nel momento in cui a contendersi il favore dell’elettorato ci sono ormai una destra e una sinistra entrambe riformiste e liberali (cosa che comporta la possibilità, per questi temi, di mantenere ancora il loro valore discriminante solo, semmai, rispetto a quelle forme di antagonismo sociale e politico variamente connotabili come massimaliste o radicali). Se le cose stanno così, mi riprometto, in un prossimo intervento di scendere un po’ più nel dettaglio, con qualche esempio concreto. Ma quello che è certo è che se non si vince questa scommessa il Partito Democratico nasce morto. E le conseguenze le sconterà il Paese nel suo complesso. E’ per questo che ai laici e ai cattolici che intendono dar vita ad un simile partito (ma in particolar modo ai secondi) siamo tutti in diritto di chiedere uno sforzo che sia proporzionale all’importanza del compito che si sono assunti. Esortandoli a far finta di essere a Rodi e sfidandoli a dimostrarsi in grado di compiere quel salto di cui, a parole, si vantano capaci.