Passioni e inquietudini di un laico
Conversazione con Gennaro Sasso
a cura di Stefano Maschietti
Parliamo con uno studioso che presenta crismi di inequivocabile laicità sia sul fronte degli studi, sia su quello della partecipazione politica, non avendo mai amato né la chiesa-partito, né i partiti-chiesa. Uno studioso che non si è sottratto al bisogno di mettere in questione la definibilità stessa del laico. Subito gli chiediamo, quindi, come intendere in senso filosofico tale parola?
In senso filosofico la laicità si definisce soltanto se si distingue la filosofia, con il carattere di assolutezza, o meglio, di incontrovertibilità che le si deve assegnare, e il filosofo, come soggetto empirico variamento condizionato nello spazio e nel tempo. Tali due elementi non sono coordinabili l’uno con l’altro. La filosofia non suppone il filosofo, e il filosofo, in quanto soggetto empirico, non suppone un esito filosofico necessario. Isoliamo il filosofo che ricerca e si interroga, si contraddice, mentre sul piano logico la filosofia è l’incontrovertibile, ed in quanto tale non suppone una definizione, né una laica, né una religiosa. La differenza tra la verità asserita dalla filosofia e quella professata dalla chiese, è che nella prima accezione la verità non suppone applicazioni, non implica né richiede adesioni, è esaustiva di sé stessa e non è fatta per modificare il mondo, laddove una fede religiosa implica la necessaria condivisione dei fedeli in un ambito di azione pratica.
L’obiezione che una chiesa le potrebbe subito muovere è che questa così rigorosa verità non indirizza in alcun modo la nostra vita.
È proprio così, la filosofia non indirizza, non dà consigli, non produce né felicità né infelicità, è semplicemente la verità, rispetto a cui il filosofo è come un guardiano, o forse, meglio, un testimone.
Come proporre in termini politici una definizione della laicità?
Il passaggio dalla filosofia alla dimensione politica è un passaggio complicato. Probabilmente non è nemmeno definibile in termini di passaggio, ma non è ora il caso di entrare in discorsi così aporetici. In termini politico-morali, la laicità ha luogo se si dà una molteplicità di soggetti. L’atteggiamento laico si identifica con una costruzione della società politica, la quale ponga a suo fondamento istituzioni e norme che garantiscano l’autonomia dei soggetti. In questo senso uno stato laico non dovrebbe ammettere, nel proprio ambito, alcuna chiesa che pretendesse di essere in conflitto con esso. Una posizione di particolare radicalità, questa, che potrebbe essere accusata di integralismo laico. Ammettiamo quindi che ci siano chiese in questo stato, ma non che ci siano concordati.
Sicuramente una delle libertà fondamentali sarà quella di espressione religiosa…
Certo, del resto, storicamente, il concetto della tolleranza è nato in questa situazione, e non poteva nascere altrove che in ambito religioso. I suoi primi assertori sono stati coloro che, di fatto o in linea di principio, venivano perseguitati per le loro idee religiose. La tolleranza, quindi, è un principio difensivo della propria credenza libera, magari nello stesso Dio della chiesa che perseguita perché asserisce modalità diverse di espressione della fede.
Lei che si è dedicato di recente a studi sulla storiografia di Delio Cantimori, quale personaggio storico indicherebbe come esempio di libera espressione della propria fede?
Certo colui che fu mandato al rogo da Calvino, Serveto. Il che non esclude che lo stesso Serveto, dal punto di vista dottrinario, avrebbe potuto rivelare tratti di intolleranza analoghi a quelli del riformatore che a Ginevra così brutalmente lo fece finire. In questo senso i perseguitati attuavano e testimoniavano un principio che andava al di là della propria vicenda intellettuale. Ciò potrebbe dirsi anche di Giordano Bruno, il quale è tutt’altro che un pensatore, per così dire, liberale.
La chiesa potrebbe a questo punto rilevare, nei suoi giudizi, l’assenza di un interesse positivo per le supreme questioni teologiche. Serveto, ad esempio, era antitrinitario. Ecco, cosa significa assumere una posizione di tale natura, che conseguenze teoriche scatena?
Senza voler ora entrare in un dibattito plurisecolare, è certo da dire che la Trinità, intesa come la tripartizione dell’unico Dio, è un concetto arduo da affrontare con coerenza filosofica, e poco vale accettarlo in senso dogmatico come atto di fede. Un pensatore come Hegel, di fronte alla disputa tra i due riformatori di cui abbiamo detto, poiché ragionava in termini dialettici, disse che Calvino, tutto sommato, rappresentava un punto di vista superiore, perché Serveto coglieva il momento solo analitico, negando che il tre fosse incluso nell’uno, laddove Calvino accettava che i tre momenti si implicassero nella sintesi della Trinità. La verità, ora, è che Calvino aderiva solo ad un dogma, mentre Serveto indicava un principio critico che il dogma vuole semplicemnte schiacciare.
Un riferimento al padre nobile della teologia liberale… Passiamo dal tempo del cruciale Concilio di Trento al più recente Concilio Vaticano II. Lei come visse, da laico, quegli anni di dibattito e di riapertura della chiesa alla modernità?
La mia risposta deluderà molti. Sono tra quelli che, studiata la disputa del modernismo in Europa, pur apprezzando l’atteggiamento modernistico rispetto alla critica dei testi rivelati, si trovano a condividere la posizione di coloro che chiedevano ai modernisti come potessero continuare a considerare sacro un corpusdi testi che avevano ripreso a studiare come storici e mondani. Perché tale duplicità? O il testo è mondano, oggetto di critica, oppure è sacro, esclusivo oggetto di fede. È il discorso di Gentile e Croce, che invitavano i modernisti o ad entrare nella filosofia, laicamente mettendosi alla spalle la tradizione e il mito di una chiesa storica, oppura a rimanere nella chiesa, rinunciando a chiamarsi modernisti. Lo stesso direi per l’ultimo concilio. Certo che se la chiesa ridefinisce in senso progressivo alcuni suoi istituti empirici, tutti ne traggono beneficio. Che però la chiesa possa essere protagonista di rinnovamento, rimanendo chiesa, questo io lo nego, perché la chiesa è per definizione contraria al rinnovamento, non potendo andare oltre certe restrittive assunzioni dogmatiche senza cessare di essere chiesa. Sono allora io d’accordo con i cattolici più retrivi? No, perché io non sono d’accordo con alcun cattolico, il quale, se vuole rinnovare veramente la chiesa, deve uscire dalla prospettiva cattolica e consegnare al mito ciò che in tale prospettiva è invece considerato il culmine della spiritualità.
Pare di ascoltare temi dello Spinoza del Trattato teologico-politico, ma anche temi evangelici, essendo un problema di ogni chiesa organizzata, quello del conflitto tra l’ansia di rinnovamento che la fede annuncia, e la necessità della chiesa di Proporsi come autorità di fede. Quella del “ritorno ai principi” attraverso la religione è questione che lei ben conosce attraverso Machiavelli. Come provare ad intenderla?
La storia del cristianesimo è piena di fermenti ereticali. Francesco si muove sul crinale dell’eresia, le proposizioni di Dante sfidano spesso le frontiere dell’ortodossia. E così via. La speranza cristiana è quella in un mondo nuovo, l’attesa è che Cristo ritorni per portare a compimento ciò che ha lasciato interrotto. L’avvento del Regno però si darà, quando ciò sarà non si sa, ma si dà per certo che ciò avverrà. La ferma speranza del cristiano autentico è che il mondo storico finisca. Che quindi il rinnovamento possa riguardare la chiesa storica, rimane un punto di valore transitorio per gli stessi cristiani, che non dovrebbero dar troppo valore a questo mondo, che si prepara a lasciare spazio ad un Regno non più storico. È una contraddizione anche di grandi spiriti benintenzionati la preoccupazione per il miglioramento delle sorti storiche della chiesa.
Si avverte in ciò che dice un tema di Overbeck, quello del carattere corruttivo per la fede di qualsiasi attività mondana, compresa la teologia.
Certo, è così.
Vorrei insistere sul tema del significato civile dell’esperienza religiosa. Tema centrale ad esempio in Machivelli, pensatore interamente politico ma convinto dell’importanza del sentimento religioso per le sorti della repubblica…
Un punto arduo questo. In fondo la religione per Machiavelli, il quale non credeva in Dio, è importante negli stati a causa del suo pessimismo. Lasciati a sé stessi gli uomini tendono a dare il peggio, quindi è necessario un vincolo, «un freno in bocca» al popolo, e la religione è il più potente di questi vincoli: uno strumento di dominio, ma non solo, anche di elevazione in sé stessi dei sentimenti ferini. L’idea è che senza suggestioni mitiche gli individui non sono all’altezza di una vita morale autentica, intesa appunto, così la intenderei io, come autonomia. Persino Croce si è detto cristiano, ma perché? Perché nel 1940 c’era “Wotan” dall’altra parte, il dio hitleriano, cui egli contrapponeva un Dio dell’amore morale. Era questo un modo di riproporre con raffinatezza il pessimismo machiavelliano circa la capacità degli uomini di reagire persino alla barbarie più umiliante senza suggestioni di natura mitica e irrazionale.
La religione civile è un grande mito della laicità che si fa storia negli stati. E ciò dalla Rivoluzione Francese almeno. Qual è la sua opinione sulla religione civile?
Che semplicemene produce disastri, specie se la religione civile diviene credo unitario, di massa. Prendiamo il caso di una filosofia della storia organica come quella fatta propria dai partiti comunisti giunti al potere attraverso svolte rivoluzionarie e violente. Il loro senso per una verità così totalizzante ed organica non può che portare a regimi che impongono culti e operano con violenza che si legittima su basi quasi fideistiche. Per dirla tutta, ogni volte che, come oggi spesso accade, si parla di religione civile senza contestualizzare il tema ad un autore circoscritto di cui si possano verificare sui testi i pensieri – è il caso di Machiavelli – divento diffidente, molto diffidente.
La chiesa muove spesso al laico l’accusa di non riuscire a giustificare e a dare fondamento ai propri valori, quelli ad esempio che sostanziano la demorazia, che certo oggi è in crisi di legittimazione. Lei che idea si è fatto di tutto ciò?
Io credo che la democrazia sia una tecnica della convivenza, una grammatica, con cui certo non si scrive alta letteratura, né si produce musica originale. Quello che noi, con parola che a me non piace, chiamiamo i valori dell’umanità, nell’ambito democratico propriamente non si trovano. Però una democrazia che sia deserta di questi valori, è certamente avviata sul terreno della corruzione, cosa che vediamo nel nostro presente, così “sgrammatico” del resto. Quali sono questi valori? Non si trovano nell’ambito del discorso sulla democrazia e sulla politica, bensì in quello della formazione e della cultura, nei mondi dell’immaginazione e del pensiero, che sono il contesto che può solidificare un organismo politico, che, da solo, inaridisce, ed entra in crisi come oggi in Europa, ed in Italia in particolare.
Torniamo ai principi generali. Cos’è il relativismo secondo lei?
Il relativismo è una forma culturale. Quello dell’antropologo che parte a studiare popolazioni non solo primitive, bensì organizzate in modo ammirevole e civile, è un paragone, un gesto di relativismo. Si pensi ai selvaggi di Montaigne, ai persiani di Montesquieu, agli aborigeni di Lévi-Strauss, insomma, alla storia dell’antropologia, così legata a quella del colonialismo occidentale e al senso di colpa prodottosi nelle menti più sensibili di questa tradizione culturale. Ma il relativismo non è un orizzonte unitario, perché ciò ne violerebbe la natura di relativismo, e certo il confronto non può essere onnicomprensivo, ma deve limitarsi ad un numero ristretto di luoghi e principi. È apprezzabile il relativismo come sublimazione degli istinti aggressivi, per cui non si va a sterminare popoli indifesi, ma li si ritiene appunto degni di libertà. Ma non è apprezzabile se esso entra nell’ambito della valutazione morale. Il Papa non ha torto quando allude ad una legge morale che non può in sé stessa essere relativa. Il suo torto è che la legge morale cattolica è legata ad un codice e ad una Parole trascendenti, che la comandano e la dirigono. Non è perciò un’etica. Nessun Papa potrà mai spingersi a dire che la fonte della libera moralità è la moralità stessa e la decisione del soggetto che la attua. Se quindi un cattolico fa bene a sottolineare la non relatività dei principi morali, per questa stessa ragione non può esser lui a giudicare relative altre etiche, o non morali altre posizioni, visto che la morale cattolica è essenzialemente eteronoma, e questo rappresenta un autentico scandalo dal punto di vista della stessa moralità.
Un relativismo selettivo quindi. L’accusa mossa dalla chiesa è quella del relativismo come nichilismo, da cui anche il riferimento a Nietzsche come cattivo maestro dei negatori della morale. Come Machiavelli, l’auotore dell’Anticristo è un critico drastico della morale cristiana, che deprimerebbe gli istinti vitali. Per l’autore dei Discorsi ad esser depresse sembrano invece le virtù civiche…
Se per relativismo intendiamo il confronto tra civiltà, non si dà nichilismo, a meno di non voler intendere un solo universo culturale, con la pretesa di distruggere tutto ciò che non sia conforme con i dettami del relativismo adottato. Nel caso del relativismo antropologico e del confronto, non si può parlare di nichilismo. Per Nietzsche il nichilismo è la situazione del tramonto dei valori tradizionali, cui corrisponde uno stato di atonia dell’umanità, priva di direzione. In tale situazione non è il relativismo il protagonista, bensì l’eclissi dei valori, la morte di Dio e la serie dei pensieri con cui Nietzsche accompagna la sua visione. Diverso il caso di Machiavelli, per il quale il cristianesimo offende il senso politico, indebolisce i popoli impedendo la costruzione degli stati, rendendo l’umanità conflittuale, debole, vittima del più potente. Il cristianesimo ha alterato gli equilibri del mondo, provocando la crisi politica. Non è però possibile leggere e interpretare i due pensatori a riscontro l’uno dell’altro.
Fermiamoci un attimo su Papa Bendetto XVI, che insiste molto sul carattere altamente ragionevole della fede cristiana, e sul reciproco sostegno dei due momenti dell’esperienza umana. Lei che idea si è fatto su questo punto?
Sarò particolarmente insensibile a tale questione plurisecolare nell’area cristiana… ma la ragione non ha, in quanto verità, rapporto con alcunché, e non incontra la fede. Tutto il filone hegeliano, che fa della religione un momento preparatorio all’affermazione dialettica della ragione, è un lascito filosofico, nel quale sono modestamente passato in gioventù, ma che ritengo ormai sia completamente da abbandonare. Io ritengo che la religione non abbia a che fare con la filosofia o con la ragione, perché essa è semplicemente mito ingiustificabile. Sarà legittima la sua forza persuasiva sul piano emozionale, ma senza raccordi con la ragione. Dove c’è ragione non c’è religione, e viceversa.
Liquidata quella liberale, resta spazio alla teologia dialettica? Quale il suo contributo alla cultura del ‘900?
Bultmann è ad esempio un personaggio che, ridotto alla formulazione più essenziale, colpisce. Mi riferisco al suo pensiero sul momento escatologico, quello della fine dei tempi. Mentre il suo rivale e sodale, Cullman, ritiene che ad un certo punto effettivamente il tempo finirà, producendosi quell’evento che è anche alle nostre spalle, la proiezione del Golgota sul futuro, Bultmann sta su una linea teologica molto più audace. Egli ritiene che il momento passato, quello del sacrificio, non si riprodurrà catastroficamente in un certo momento del tempo, perché è l’esperienza viva del cristiano che continuamente attualizza il sacrificio di Cristo, e lo conduce nell’ambito della propria esperienza religiosa alla grande catastrofe, cosicché il tempo finisce continuamente. Questa è una posizione, come dire, affascinante sotto certi punti di vista, perché costruisce l’esperienza cristiana come il teatro di un dramma, che ogni momento si riapre per di nuovo concludersi. Una posizione con delle eredità idealiste, che certo Bultmann non avrebbe riconosciuto. Qual è l’apporto allora? Come altri grandi pensatori cristiani, anche questi sono altamente corrosivi dell’edificio dogmatico-teologico, in modo affascinante. Certo non è poi possibile essere, proprio in prospettiva teologica, d’accordo con chi, come Bultmann, crede che la verità abbia un decorso temporale e viva attraverso l’esperienza della sua temporalizzazione escatologica.
I tre alfieri della teologia protestante, Barth e Bonhoeffer oltre Bultmann, sono stati grandi testimoni e martiri che hanno resistito alla deriva nazista che da subito sedusse la loro chiesa…
Non c’è dubbio, straordinari uomini…
Le viene in mente, per la storia italiana, il nome di qualche intellettuale cattolico degno di menzione per il suo impegno di fedele e di difensore civile della libertà?
Con tutto il rispetto, francamente non ne vedo. Lei cita Capitini, che ho potuto conoscere in quanto legato a Calogero, sebbene il loro rapporto si costruisse intorno ad un equivoco, essendo Calogero un razionalista poco sensibile alla teologia. Ora, Capitini, religiosamente disposto, credeva che il rapporto tra “me e tu”, come soleva dire, si inscrivesse nell’ambito di una comunità in cui partecipano i vivi e i morti. Questo punto mi lascia, forse per la mia aridità, indifferente. Rapporto con i morti ce l’ho attraverso il ricordo, gli affetti, lo studio di autori che parlano solo attraverso i libri. Ma la comunità viva di Capitini, nella quale sarebbero ospitati anche i non più tra noi, con tutto il rispetto per la sua coerenza e la sua tempra antifascista, non mi accende forti curiosità come le asperità dei personaggi sopracitati.
È stato da poco ripubblicato Il demoniaco nell’arte di Enrico Castelli, che lei ebbe modo di conoscere all’Università di Roma. Che ricordo ha di questo singolare scrittore e filosofo cattolico?
Posso parlare in modo anedottico, avendolo conosciuto come professore incaricato di filosofia della religione quando ero studente. Erano i tardi anni ’40. Teneva lezioni curiose ed interessanti, senza copione per così dire, ma capaci di drammatizzare la situazione filosofica anche attraverso richiami ai più recenti testi teatrali, quelli di Sartre e dell’ennui. In questi scenari la filosofia emergeva come il dramma dell’io idealista e solipsistico, il cui trauma nasceva dall’insuperabilità dell’io da parte di sé stesso. Rispetto alle insufficienze dell’io il demoniaco era una delle dimensioni della sua ricerca artistica. Al tempo non sapevo quasi nulla di Warburg. dopo averlo studiato ho ritenuto che alcuni dei suoi temi fossero stati in qualche modo elaborati da Castelli nell’iterpretazione di un documento iconografico o pittorico. Il demoniaco era poi il diavolo stesso, certo un tema sensibile per chi in quegli anni stesse leggendo il Doktor Faustus di Thomas Mann…
Un nesso, quello con questo romanzo, che manca in Castelli. Cosa le viene in mente ripensando a questo libro così importante per la sua formazione?
Credo che in ciò che fu visto come il difetto di questo romanzo, ad esempio da Ladislao Mittner, il difetto di costruzione storica di un Medioevo che non si sarebbe mai dato nelle forme immaginate da Mann, che narra delle facoltà teologiche frequentate da Adrian, con le situazioni cupe e irrazionali, dominate dalla sinistra presenza del diavolo come evocazione del futuro nazionalsocialista della Germania, proprio in questo stia, credo, la forza del testo. Il tutto è arricchito dalla deformazione ricercata delle più alte esperienze musicali, a partire dalla più importante, quella di Beethoven, e rende ogni pagina bellissima. Pensiamo ad una dell’inizio, quando Adrian scopre dentro di sé la musica e in qualche modo anche l’imbroglio che la musica nasconde nel suo profondo: è un ragazzo e dalla contadinotta che accudisce la stalla, Hanne, e che insegna a cantare in canone semplici canzoncine come il Frére Jacques francese o Fra’ Martino degli italiani, sente impartire l’ordine di esecuzione… Ebbene, egli sorride, perché scopre il carattere demoniaco anche degli intervalli più elementari che scandiscono la cantata popolare. Questa non è una pagina di paesaggio storico, la natura in cui è immersa è infatti quella in cui il padre di Adrian tenta i suoi esperimenti alchemici: è tanto la natura-ordine di Dio, quanto una sfera aperta agli influssi del demonio. A me, tale rappresentazione profonda della tragedia che la Germania avrebbe poi vissuto, sembrava potentissima, di grande intensità poetica. Faccia attenzione che, in questo romanzo, si assiste alla più alta glorificazione della musica di Beethoven, che paradossalmente finisce per coincidere con il momento iniziale del declino del suo ascolto. Di Mozart in questo romanzo si dice poco, salvo che i suoi manoscritti erano perfetti, mentre in quelli di Beethoven si rileva il carattere tormentato e caotico. Di contro la forma di Mozart appare limpida, compiuta, in grado di comporre ogni tensione emotiva. Insomma, la musica di Beethoven conquista la sua nobiltà per un singolare contatto con il diabolico: la fuga che non riesce, la notte del Credo nella Missa Solemnis del musicista per eccellenza, cui si affianca solo Bach. Dopo la pubblicazione del Faustus, ma non certo per effetto di questo, la musica di Beethoven è entrata in declino, e se si chiede oggi ad un critico musicale chi sia il “musicista” per eccellenza, quello risponderà, senza rifletterci troppo, Mozart. Thomas Mann ha dato il colpo di grazia alla musica di Beethoven, perché ha colto nella nobiltà di colui che ha scritto il Fidelio la demonicità di colui che ha anche scritto il quartetto op. 131, sprigionandovi la sinistra e sospetta forza della dissonanza.
La musica ha a che fare, dal punto di vista esistenziale, con l’origine delle cose e del loro divenire. Fra breve parleremo del nascere, e del morire, ma intanto… che cos’è la musica, nella sua profondità, per Gennaro Sasso? E chi è Wagner?
Non riesco a dare una definizione. Posso dirle, soggettivamente, che da molto tempo non ascolto intensamente musica perché, da molto tempo mi trovo in una situazione personale e psicologica di scontentezza e di grande dissidio interiore. Non è possibile per me ascoltare la musica in momenti di sofferenza. Sembrerà paradossale, ma se non sostenuto da sentimenti di gioia io non posso ascoltare musica. E guardi, penso non al Barbiere di Siviglia, ma al sinfonismo di Beethoven, all’ultimo Mozart, la Marcia funebre massonica ad esempio. In momenti di acuto disagio, contrariamente a coloro che si calmano abbandonandosi alla musica, io non riesco ad aprirmi ad essa.
Citando il maestro Muti una volta lei ha detto che “alla musica di Wagner bisogna abbandonarsi senza lasciarsi travolgere”…Come dare senso a tale assunto? E chi è Wagner?
È… potrei dire nel modo più semplice, uno che ha scoperto dei suoni e messo la relativa musica - lo dico da ascoltatore non perito - in combinazione così profonda con certi stati d’animo, da renderli musicalmente udibili, in un modo che nessun altro musicista, neanche quelli più grandi di lui, è riuscito a fare. In secondo luogo, Wagner è un sinfonista implacabile, anche se la forma sinfonica viene, nel suo comporre, dissolta. È un sinfonista che ha, come suo punto di riferimento, Bach. È per questo che io amo molto la musica di Bach e contemporaneamente quella di Wagner, cosa che non si dà di consueto tra gli ascoltatori. E considero i Maestri cantori l’opera più bachiana che sia stata scritta dopo la stagione dei Bach, della famiglia Bach intendo dire.
Wagner ha provato a musicare anche l’originario prender vita e forma della natura, del fiume delle cose. Più modestamente ci accostiamo al tema del nascere e del morire umano. Tema che le possibilità odierne della scienza rendono sempre più attuale. Qual è la posizione di un laico di fronte ad una questione così centrale per il diritto e la religione?
Il nascere è problema risolto senza il contributo del soggetto, che poi elabora un’arte di vivere, il suo problema essendo semmai quello dell’esser nato piuttosto che quello del nascere. Il problema del morire pone più grandi questioni, e io non saprei dire molto più di questo: per un uomo religioso non si è padroni della propria vita - è del resto vero che la vita la si è ricevuta, e l’uomo religioso indica in Dio il Donatore della vita; neanche l’uomo non religioso crede di essere padrone della vita, che effettivamente va al di là della persona che la vive e la vive in vista del proprio morire, quindi sospeso tra la vita e ciò che la vita spegne, intricato nell’inoltrepassabile e incombente possibilità della morte. Il problema è che alla vita può essere posto un termine attraverso un atto della volontà, che non è un atto astratto. Può essere viltà o coraggio a spingere a morire, fatto salvo che questo soggetto, che non si considera né padrone della vita, né al servizio di una divinità, può in momenti di emergenza prendere il sopravvento sulla vita biologica.
Certo il nascere non dipende da noi, che ora però possiamo intervenire in modo invasivo nelle modalità del nascere. Pensa che la ricerca scientifica farà il suo inesorabile corso o ritiene opportuna una limitazione delle possibilità della ricerca?
Da tali discussioni, difficili, inesauribili, vengo spesso coinvolto in quanto membro, all’Accademi dei Lincei, della Commissione di Bioetica. Incidentalmente vorrei dire che non avrei mai creduto che in Italia gli scienziati, con cui intendo i fisici, i matematici, i biologi, fossero in così gran numero ossequienti alla Chiesa Cattolica. Alla domanda sul cammino della scienza, quale che siano gli esiti, anche spiacevoli o catastrofici, io rispondo che sì, è inevitabile che essa faccia il suo corso. Del resto gli scienziati più consapevoli avvertono già che la scienza produce le sue conseguenze, talvolta anche senza che gli scienziati le abbiano previste o le desiderino nella teoria. Certo, ci sono grossi problemi, e per me essi sono quelli legati, ad esempio, al possibile uso politico della clonazione, non semplicemente alla clonazione in quanto tale. Basti pensare al romanzo di A. Huxley, Brave new world, scritto 75 anni fa. Racconta un mondo in cui si costruiscono uomini artificiali messi al servizio degli “uomini nuovi”, chiara metafora delle dittature che stavano affermandosi nel mondo. La possibile clonazione a fini di uso e di asservimento politico da parte di uomini superiori è qualcosa che deve essere rigettato, allo stesso modo in cui chi ama la democrazia e le sue forme rigetta i regimi totalitari, regimi di schiavizzazione degli individui al servizi di un’idea o di un piano. Quanto all’utilizzazione medica di certe pratiche scientifiche, penso agli studi sulle cellule staminali, ecco, per la cura di certe malattie e il miglioramento della vita, credo che si debba lavorare in tale direzione. Anche perché qualsiasi inconveniente trovato in tale cammino è niente rispetto al vantaggio che si avrebbe nel curare certe malattie degenerative. Del resto, la medicina non è altro che una battaglia con la morte e per il prolungamento della vita, affinché la qualità di questa sia migliore. Non vedo proprio il motivo per cui le chiese si arroghino il diritto di contrastare, in maniera direi disumana, certi progressi della ricerca scientifica.
Proviama a tornare all’inizio, ai principi, alla libertà. Cos’è la liberta, parola spesso pronunciata invano?
Sul piano filosofico, per chi ritenga che la filosofia coincida con la verità e che la verità sia incontrovertibile, non c’è libertà, dal momento che per essere raffigurabile in questo universo, la verità dovrebbe essere alternativa, cosa che non può essere dato in un orizzonte di coerenza e necessità come quello filosofico. La libertà è allora questione da affrontare in termini politici e di istituzioni, ed essa si articola nelle libertà di espressione, di associazione e così via. Inoltre la libertà è la possibilità di dire, rispetto a chi pretenda di indirizzare e controllare i comportamenti umani a partire da principi e pregiudiziali di natura trascedente, che tale è appunto una pretesa oscurantista.
La chiesa cattolica si esprime spesso a favore della libertà, e ad esempio parla di “libertà di insegnamento”. Lei come giudica tale espressione?
La libertà d’insegnamento dei cattolici è semplicemente la pretesa di insegnare senza ostacoli le verità del cattolicesimo, le quali, essendo esclusive di altre verità, implicano che l’unica libertà legittima induca a negare la libertà in altre forme. Poiché lo stato è laico e comporta in linea di principio l’insegnabilità di altre verità e dottrine, è contrastato appunto dai cattolici, sostenitori di una verità totalizzante ed esclusiva. Loro definiscono semplicemente errori da superare o rimuovere le verità che altri si prendono la libertà di dichiarare e insegnare come tali. Ben vengano le dottrine insegnate dai preti, ma contenuti dallo stato laico, entro limiti di compatibilità con altri punti di vista.
Cosa pensa dell’ora di religione? Come la cambierebbe?
Non credo che nella scuola laica dovrebbe impartirsi un’ora di religione, semmai una di storia delle religioni insegnata da personale laico.
Sembra che il suo laico debba essere umile. Come vede oggi la chiesa cattolica rispetto a tale punto così cristiano, penso ad esempio all’invito a “non giudicare”?
A me sembra che oggi la chiesa non si astenga praticamente mai dal giudicare, a volte persino in forme estrinseche e violente. Siamo tornati anche ad un clima di denuncia rispetto a comportamenti e libertà di tipo personale.
C’è bisogno di umiltà oggi, nel dibattito e nella polemica pubblica?
Sì, di umiltà laica però.
In cosa consiste l’umiltà laica?
Nel senso critico… e autocritico.
[cura di stefano maschietti]