Conversazioni Filosofiche
Percorsi dell’Infinito nella riflessione filosofica e teologica di Duns Scoto
Alcune domande ad
Alessandro Ghisalberti
Rivolgiamo alcune domande ad Alessandro Ghisalberti, che ha pubblicato su numerosi autori e temi nell’ambito del pensiero medievale. Tra le molte pubblicazioni: Giovanni Buridano dalla metafisica alla fisica, Milano 1975; Medioevo teologico. Categorie della teologia razionale nel Medioevo, Roma-Bari 2006 (3°); Guglielmo di Ockham. Scritti filosofici, Firenze 1991; Giovanni Duns Scoto: filosofia e teologia (a cura di), Milano 1995; Invito alla lettura di Tommaso d’Aquino, Cinisello Balsamo 1999; Il pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri (a cura di), Milano 2001; La filosofia medievale. Da S. Agostino a S. Tommaso, Firenze 2006;Logos filosofico e logos rivelato, Milano 2004; Dante e il pensiero scolastico medievale, Milano 2008; Mondo, Uomo, Dio. Le ragioni della metafisica nel dibattito filosofico contemporaneo, Milano 2010 (a cura di). tema della presente intervista riguarda “i percorsi dell’infinito” nel pensiero filosofico e teologico di Duns Scoto.
Le ricerche più significative svolte negli ultimi decenni sull'opera di Giovanni Duns Scoto riguardano l'analisi della complessa nozione di ens infinitum, in stretta connessione con quella di ens finitum nella sua declinazione di contingente o di possibile. Tale analisi coinvolge varie questioni, tra cui quella dell'oggetto proprio della metafisica, quella dell’univocità dell'ente, quella dei trascendentali disgiuntivi, e riguarda la possibilità di elaborare una teologia razionale che si accordi con le istanze critiche nei confronti dell'aristotelismo sollevate dai teologi e fissate nelle note tesi del Sillabo parigino del 1277.
Ci si chiede, anzitutto: che cosa indica per Duns Scoto la nozione di ens infinitum? E come si giunge a configurarla, a partire dalla nozione assolutamente semplice dell’ “ente in quanto ente”?
Ricorderei in primo luogo che secondo Duns Scoto le perfezioni del reale possono essere assolutamente semplici (es. “l'essere in quanto essere”), semplici ma non assolutamente (es. “l'essere finito”), oppure complesse (es. “animale razionale”). L'essere in quanto essere, ossia la perfezione assolutamente semplice, non esiste in concreto; l'essere è sempre “modalizzato”, definito da un certo grado di perfezione o modo intrinseco, da cui è indissociabile. L'essere è intelligibile in quanto essere, ma attuale solo se concepito unitamente al proprio modo.
Oggetto primo dell'intelletto umano è l'essere in quanto essere, l'essere in senso univoco, che ha dunque un'importanza fondamentale. Infatti, comprendendo tutti gli enti (finiti e infinito), fonda l'oggettività del conoscere, senza configurarsi come un oggetto. L'essere univoco e le determinazioni ultime sono concetti irriducibili, che stanno tra loro in relazione di potenza ed atto: l'essere univoco sta alle differenze come ciò che è ultimativamente determinabile sta a ciò che è ultimativamente determinante negli esseri.
Criticando i predecessori agostiniani, Scoto ritiene incontrovertibile la posizione aristotelica secondo cui la conoscenza umana, almenopro statu isto, attinge esclusivamente da oggetti materiali. L'unica opzione consentita è che la mente umana possa avviare il processo conoscitivo con una nozione di essere tratta dalla sua conoscenza degli enti del mondo, ma che può essere applicata, in quanto nozione sufficientemente astratta, ad un oggetto sovrasensibile. L'essere infinito, astratto dalla conoscenza delle creature, è idoneo a rappresentare l'essere divino, sia pure in modo imperfetto.
Oltre a constatare la non ripugnanza dell'infinità all'ente, Duns Scoto osserva che l'infinito è il concetto più semplice e più perfetto che la mente umana possa forgiare: è il più semplice, in quanto non è attributo dell'essere, ma un suo modo intrinseco; esso è caratterizzabile come “simpliciter simplex”, e si distingue dagli altri concetti predicabili del primum ens ricavati astraendo dalle perfezioni delle creature (Ordinatio, I, d. 2, p. 1, q. 2; ed. Vat. II, p. 142, n. 31) .
La nozione di ente infinito è più semplice della nozione di soggetto e di qualche cosa ad esso attribuito, ove ciascun termine è formalmente distinto. Un modo intrinseco, quale l'infinitas, non è formalmente distinto dal suo soggetto, ma gli appartiene per sé, mentre gli attributi sono aggiuntivi (“sicut additum”).
La nozione di ens infinitum è inoltre la più perfetta, perché include virtualmente e in modo semplice tutte le perfezioni pure e ciascuna nel massimo grado possibile “sub ratione infiniti” (Ordinatio, I, d. 3, p. 1, q. 2; ed Vat. III, p. 59, nn. 40-41; Lectura, I, d. 3, p. 1, q. 1-2; ed. Vat. XVI, p. 244, nn. 50-53).
L'ente infinito pertanto è la nozione più perfetta, in quanto include virtualmente la bontà infinita, la verità infinita e tutte le altre perfezioni che sono compatibili con l'infinitezza. Il contenuto virtuale, in questo caso, dal momento che non è formalmente identico al concetto, non può essere scoperto attraverso l'analisi della nozione di ente infinito. Scoto dunque, parlando di ens infinitumcome del concetto più semplice, cerca di prospettare il caso di un'entità più grande di quella ottenibile con concetti sia semplici, sia complessi che possono essere definiti, ed è convinto che la compatibilità tra “infinito” ed “ente” è qualcosa per cui l'uomo possiede una sorta di evidenza psicologica intuitiva, una congenita aspirazione a un conoscere infinito e a un volere infinito.
Dunque Scoto ritiene che la conoscenza umana, almeno pro statu isto, attinga esclusivamente da oggetti materiali e che la mente possa avviare il processo conoscitivo con una nozione di essere tratta dalla sua conoscenza degli enti del mondo, ma applicabile, in quanto nozione sufficientemente astratta, ad un oggetto sovrasensibile. Ma come si ricava la nozione di essere infinito dalla conoscenza delle creature? E, in secondo luogo, come avviene che questa nozione di essere infinito sia “idonea a rappresentare l'essere divino, sia pure in modo imperfetto”?
L'affermazione aliquod ens est infinitum trae la coerenza logica dalla natura della compossibilità dell'ente: se dal punto di vista del soggetto conoscente (“metaphysica nostra”) si possono cogliere le nozioni trascendentali di unum, verum, bonum, “ex ratione entis” è conoscibile l'infinitas, quale trascendentale disgiuntivo. La natura dell'ente è segnata dalla compossibilità rispetto all'infinito. L'infinito è noto a partire dal tutto della compossibilità e dalle parti del tutto che sono anch'esse compossibili.
Il concetto di “infinito”, quindi, si ricava innanzitutto per contrasto dalla constatazione dell’esistenza di realtà “finite”. La nostra conoscenza, anche quella intuitiva, passa attraverso l’esperienza delle realtà che cadono sotto i nostri sensi; quindi il primo concetto che il nostro intelletto si forma è quello di “finito”, dal quale l’uomo ricava il concetto di “infinito” che è, innanzitutto, quello quantitativo. È ciò che può essere aumentato, aggiungendo sempre una nuova quantità (infinitamente grande), o ciò che può essere frazionato, suddividendolo in parti sempre più piccole (infinitamente piccolo), come già diceva Aristotele.
Da questo concetto, usando l'immaginazione logica (secundum imaginationem), Scoto afferma che possiamo assurgere a un concetto più perfetto di infinito: commutiamo il concetto dell'infinito potenziale quantitativo nel concetto di un infinito attuale quantitativo, ammesso che sia possibile (Quaestiones Quodlibetales, V, 6). Tale concetto, diversamente dal primo, è perfetto perché contempla la totalità in un solo istante, e nulla gli manca né può mancargli, nulla può essergli aggiunto perché tutto ciò che è “aggiungibile”, per definizione è già compreso in esso.
Da questo “infinito quantitativo in atto”, di nuovo secundum imaginationem, con un procedimento puramente logico, possiamo giungere ad un “infinito intensivo in atto”, non composto di parti finite, ma concepito come un tutto perfetto: un ente infinito così perfetto che né ad esso né ad alcuna sua parte manca qualcosa. Tramite questo ragionamento, Scoto ricava la nozione di infinito intensivo in atto: si tratta di un concetto che va oltre la semplice idea di qualcosa di illimitato; ce lo possiamo immaginare come un concetto-limite, come il punto focale di una prospettiva; il concetto di infinito intensivo non è nel nostro intelletto se non tramite un certo “perfezionamento” del concetto di infinito estensivo, che desumiamo dalla possibilità di dividere all’infinito un ente o di aggiungere all’infinito un dato elemento in una serie.
Ora, il fatto stesso che l’intelletto umano riesca a circoscrivere il concetto di “infinito” intensivo, consente di attivare un procedimento argomentativo puramente razionale per provare l’esistenza di un ente infinito in atto.
Riprendendo altre sollecitazioni del testo scotiano, aggiungiamo qualche altro elemento circa la natura del concetto in esame. Abbiamo visto che l'infinito è, per l'intelletto umano, un concetto astratto, al quale si arriva dalla nozione di finito; per astrazione, dalla nozione di “sommo” o di “più alto” e da una sorta di intuizione del dominio della potenza come di un tutto, si arriva al concetto di infinito: «coniungere intentionem summitatis intentionis entis vel boni et sic cognoscere summum ens vel bonum, et sic de infinito».
Questo tipo di astrazione conduce l'uomo ad una nozione che è massima in comprensione e minima in estensione, così minima da poter essere applicata solo ed esclusivamente a Dio. L'uomo congiunge l'ente e l'infinità ed arriva a pensare un ente infinito in perfezione e potenza, in quanto infinito è ciò che eccede qualsiasi finito, non solo perché eccede qualsiasi tipo di rapporto determinato, ma perché eccede tutti i tipi di rapporto immaginabili. L'infinito eccede pertanto ogni finito anche in relazione a qualsiasi misura o proporzione definita o definibile: nonostante la sua origine astratta, l'infinitas coincide con il costitutivo formale dell'essenza divina, più che con un suo attributo. Per definire l'infinito, come abbiamo già ricordato, Duns Scoto si avvale della categoria della possibilità: l'infinito è caratterizzato come ciò che eccede ogni ente finito attuale o possibile ed in riferimento a qualsiasi misurazione data o che possa darsi.
Se l’infinito “è caratterizzato come ciò che eccede ogni ente finito attuale o possibile ed in riferimento a qualsiasi misurazione data o che possa darsi”, allora per definire l’infinito Duns Scoto deve avvalersi della nozione di possibilità. Sembra però declinarla in un’accezione che non coincide con quella aristotelica. Qual è la novità apportata da Scoto al paradigma classico della modalità? E in che modo questa novità interviene nella determinazione dell’essenza divina da parte di Scoto?
Si deve a Simo Knuuttila l’avere evidenziato l'importanza e la forza innovativa della posizione di Duns Scoto circa la teoria della modalità. Il paradigma della modalità prevalente nel mondo antico è quello statistico o della frequenza temporale della modalità, che si applica a enunciati temporalmente indefiniti.
Secondo Aristotele l'affermazione “A siede” è vera, ma sarà falsa dopo che A si sarà alzato. I valori di verità riferiti alla modalità sono soggetti alla frequenza temporale, per cui si può dire che se un enunciato vero ora, è vero tutte le volte che è proferito, esso è necessariamente vero. Se il suo valore di verità cambia nel tempo, esso è possibile. E se un enunciato è falso tutte le volte che è proferito, esso è impossibile.
Questa concezione della modalità è legata al principio di pienezza, in base al quale ogni possibilità genuina, per essere vera possibilità, deve verificarsi in un determinato momento del tempo. Duns Scoto si distacca da questo modello diacronico, secondo cui nessuna autentica possibilità può rimanere non realizzata nella successione temporale, ed istituisce un modello sincronico, in base al quale si ammette che qualcosa, che esiste o accade, possa essere o accadere in modo diverso nello stesso istante di tempo. Perciò la contingenza esprime la “possibilità” che si diano simul degli opposti. Questa possibilità è stabilita in rapporto ad un'azione causale che proceda attraverso intelligenza e volontà.
La stessa volontà umana è libera di fronte ad atti opposti, così come di fronte ad oggetti opposti. In riferimento agli oggetti opposti che mediante gli atti opposti essa può volere, la libertà umana esprime perfezione perché risulta detentrice di una duplice possibilità e contingenza: quella di volere successivamente degli oggetti opposti, e quella di volere contemporaneamente degli oggetti opposti, che però non possono essere in realtà scelti, perché la volontà opera in modo successivo. Resta la perfezione della volontà che può volere (potenza logica, ma non per questo irreale) simultaneamente tutto ciò che non è logicamente incompossibile. Ciò che determina l'impossibilità di qualcosa non è dunque la non-realizzazione nel mondo fattuale, bensì l'incompossibilità concettuale, la quale configura una contraddizione tra una possibilità pensata e la compossibilità di qualche cosa d'altro, parimenti pensato.
Se rileggiamo ora la nozione di infinità come ciò che eccede ogni ente finito, attuale o possibile, vediamo che con essa Scoto viene a dire che l'ente infinito eccede non solo ogni ente che in qualche momento di tempo si è realizzato, o si realizzerà, o si potrà realizzare, ma eccede anche ogni possibilità che non implichi incompossibilità, lasciando così spazio alla sola essenza divina. In questo modo è fugato ogni vincolo ex parte rei alla potenza di Dio, che E. Tempier aveva ravvisato nei continui legami della teologia aristotelica con la fisica e con l'unico mondo per Aristotele “realmente” possibile.
Riguardo alla nozione di “eccedenza”, come si è spiegato, essa è propria dell’infinito rispetto ad ogni ente dato o possibile e “ad ogni possibilità che non implichi incompossibilità”. Questi tratti indicano che la strutturale ulteriorità dell’infinito oltrepassa ogni livello o ordine di datità reale o possibile, e pertanto l’infinito non si lascia determinare positivamente dal pensiero. Ma in questo caso, come è possibile conoscere Dio, se vi è totale alterità rispetto alle creature? E se invece è possibile conoscerlo, in che cosa consiste la differenza per cui Dio è irriducibile, nella sua eccedenza, ad ogni ente reale o possibile?
Si tratta di precisare la nozione di “eccedenza”, che Duns Scoto annette alla definizione di infinito come eccedente ogni ente dato o possibile, secondo ogni misurazione (proportio) fissata o fissabile, eccedente cioè ogni livello di perfezione finita (quella dell’ente reale o possibile) e ogni commensurabilità nella realtà o nell’ordine della possibilità. Questi tratti assumibili per caratterizzare la totale eccedenza dell’infinito in positivo indicano il livello o ordine di datità reale o possibile che è oltrepassato dalla strutturale ulteriorità dell’infinito, la quale pertanto non si lascia determinare positivamente con un livello o ordine fissabile dal pensiero.
Per fare un passo avanti, dobbiamo cioè riportarci alla metafisica scotiana dell’univocità, che include il confronto proprio con questa problematica: come possiamo conoscere realtà differenti? Nel mondo dell’esperienza questa domanda non pone particolari difficoltà, perché è facile riconoscere la diversità dei singoli uomini che convengono nell’essenza comune di ‘animale razionale’. Nei confronti dell’essere infinito si impongono con forza due domande: come possiamo conoscere Dio, se questi è totalmente altro dalle creature? E posto che riusciamo a conoscerlo, dove collochiamo la differenza che lo fa essere irriducibile per la sua inviolabile eccedenza?
Se la tradizione analogica colloca la differenza in una reale diversità degli esseri, e il suo riconoscimento nel darsi di precise relazioni di proporzionalità (che rappresentano l’elemento analogico) tra di essi, la risposta di Duns Scoto sostiene che la conoscibilità di queste realtà e la riconoscibilità della loro differenza sono garantite al contempo dall’univocità dell’essere.
Tradizionalmente si è sempre considerata l’univocità scotista come univocità esclusivamente logica, limitata cioè alla dimensione dei concetti. Non si deve dimenticare però che i concetti sono ricavati per astrazione dalla realtà, e quindi devono avere un preciso ancoraggio nella realtà stessa: «occorre che l’oggetto conosciuto sia presente affinché se ne produca il concetto e la conoscenza» (Lectura, I, 3, § 26), dice Duns Scoto, e questo vale tanto per un oggetto sensibile quanto per una realtà metafisica come l’essere. “L’immagine e l’intelletto agente hanno il ruolo di primi oggetti che muovono alla conoscenza“, ma “l’intelletto può astrarre ogni oggetto incluso in quell’oggetto primo, e considerarlo così astratto senza considerare ciò da cui si astrae”( Ordinatio, I, Distinctio 3, § 63). Anche l’univocità, dunque, avrà tutta un’altra portata rispetto a quella meramente concettuale, come ha recentemente individuato un saggio di Andrea Nannini.
L’univocità di cui stiamo parlando non potrà essere certamente univocità fisica, perché altrimenti l’essere di Dio e quello delle creature converrebbero in qualche misura nella realtà (in re), rendendo inevitabile una deriva panteistica. Dovrà invece essere un’univocità pienamente metafisica, in un senso che dobbiamo però precisare con attenzione, perché parlare di univocità metafisica dell’essere significa ammettere immediatamente che esiste un solo ed unico essere, che deve nondimeno: concedere al suo interno lo strutturarsi della differenza; dare spazio ad una reale pluralità di enti, distinti ed autonomi.
La reale pluralità degli enti viene garantita dall’operazione con la quale Duns Scoto mantiene l’essere in una condizione di indifferenza verso i suoi significati. Dire che l’essere è indifferente a tutte le sue possibili modulazioni significa evitare di costringerlo all’interno di un possibile significato, come può essere quello aristotelico di ‘sostanza’, che ne rappresenterebbe una costrizione e si ripercuoterebbe immediatamente su tutte le realtà che ‘sono’: dal momento che l’essere è univoco, se venisse identificato con il significato di ‘sostanza’, finiremmo immediatamente nel panteismo, perché tutte le cose diventano univocamente delle semplici espressioni dell’essere-sostanza unica. Questa sarà la posizione di Spinoza, che accetterà esplicitamente di identificare l’essere univoco e la sostanza unica, mentre per Duns Scoto «l’essere si divide dapprima in infinito e finito piuttosto che nelle dieci categorie» (Ordinatio, I, Distinctio 8, § 113).
Infinito e finito sono i due modi intrinseci dell’essere, ossia le modalità al di fuori delle quali nulla può darsi, ma hanno anche una funzione metafisica ben precisa, che segna la linea di demarcazione tra Dio e le creature. Non soltanto, come in gran parte della tradizione filosofica, l’infinito può appartenere soltanto a Dio, ma per Duns Scoto «tutto ciò che conviene all’essere in quanto indifferente al finito e all’infinito, o in quanto è proprio dell’essere infinito, gli conviene non in quanto determinato in un genere, ma come ad esso anteriore, e conseguentemente in quanto trascendente e al di fuori di ogni genere» (Ordinatio, I, Distinctio 8, § 113).
Proprio il fatto che la sostanza, che dal punto di vista metafisico è la categoria per eccellenza, cui per Aristotele si riconducono tutti gli altri significati, si trovi in una posizione subordinata rispetto all’essere, ottiene il duplice vantaggio di evitare il panteismo perché l’essere infinito sarà al di fuori della categoria di sostanza (“epekeina tes ousias”) e di concedere una reale pluralità di enti ciascuno dei quali potrà essere una sostanza a sé stante, ma non un essere analogo ad altri.
Dunque Scoto si discosta dalla tradizione analogica e ritiene di poter garantire la differenza a partire dalla stessa nozione di ens univoce conceptum. Questo pone il problema dell’haecceitas, ovvero del principio di individuazione, che è il problema della differenza ultima, o meglio dell’identità e della differenza all’interno dell‘essere univoco: dell’identità dell’essere in ogni ente (univocità) e della differenza in ciascuno di essi (individuazione). Il problema è insomma come trovare l’elemento differenziante che provvede ad individuare tra loro realtà univoche. Quale è la soluzione di Scoto a questo problema?
Procedendo nelle implicazioni dell’univocità metafisica Duns Scoto deve guadagnare la differenza all’interno dell’essere univoco, e questo tema ci permette di toccare il cuore e l’originalità della riflessione scotista. In una metafisica dell’univocità, infatti, la differenza tra le realtà non può essere collocata in una diversità degli esseri, perché non vi è che un solo essere univoco, e nemmeno nella diversità delle sostanze, perché, essendo svincolate almeno direttamente dal piano dell’essere, nulla vieta che vi possano essere due sostanze identiche. Occorrerà quindi che la differenza sia una modulazione precisa dello stesso essere univoco, capace di realizzarsi in gradi di intensità differenti. L’intensità è naturalmente quella di una potenza, intesa filosoficamente come capacità di generare degli effetti proporzionati a questa stessa intensità, perché se è vero che il nulla è privo di potenza, mentre l’essere infinito è infinita potenza, è vero anche che ad ogni essere finito corrisponderà una precisa intensità di potenza: l’unico principio di differenza in un essere univoco può essere soltanto una precisa intensità in cui l’essere stesso si realizza e che si distingue da tutte le altre intensità compossibili e parallele.
È questo il motivo per il quale Duns Scoto ha teorizzato la ben nota haecceitas. L’haecceitas, ossia il principio di individuazione, non è altro che il grado intrinseco di perfezione che caratterizza ogni singolo ente, e che provvede ad individuarlo e differenziarlo da ogni altra realtà rendendolo unico. Si tratta di una differenza ultima, detta da Scoto “ultima solitudo”, che contraddistingue ciascuna realtà, individuandola.
È la differenza ultima (haecceitas) che provvede ad individuare ciascuna realtà esistente; per questo motivo dobbiamo riconoscere che “il modo intrinseco non è una differenza specifica, in qualunque grado della forma”, ma una differenza ultima, ossia la differenza individuante.
E se il modo intrinseco ‘infinito’ può essere soltanto unico, cosicché Dio sarà individuato proprio dalla sua intensità infinita, di modi intrinseci finiti se ne possono immaginare invece indefiniti, in modo tale che per ciascuno di essi vale il discorso secondo cui esiste sempre un grado intrinseco di intensità, inferiore alle differenze specifiche, che provvede ad individuarlo. L’individuazione di ciascun uomo, per esempio, deve avvenire per qualcosa di inferiore alla differenza specifica ‘razionale’, perché altrimenti tutti gli uomini sarebbero semplicemente identici all’essenza ‘animale razionale’. L’individuazione non può essere fornita dal , né dalla sola forma, né dal loro composto, in quanto ciascuno di essi è una ‘natura’, ma è costituita dall’ultima realtà dell’ente, che è data dall’intensione della materia, della forma, o del loro composto.
L’essere univoco si struttura così, senza cadere nel panteismo, in una serie di gradi intrinseci di perfezione e potenza, che ne rappresentano l’elemento differenziante.
La riflessione di Duns Scoto ha il vantaggio di distinguere l’univocità dell’ens dall’indifferenza dell’essenza avicenniana (indifferenza al particolare e all’universale), per incastonarla in una indifferenza ancora più radicale e dalle forti implicazioni metafisiche, con cui viene ridimensionato qualsiasi tentativo di considerare l’ens sia al modo di un’essenza, sia al modo di un universale.
Ancora riguardo all’infinito e alla sua eccedenza rispetto ad ogni ente finito, si è detto che l’infinità dell’essere, più che un presupposto, è per Duns Scoto il risultato o la tappa conclusiva di una complessa argomentazione intorno all’esistenza di Dio. Inoltre, questa stessa argomentazione ripropone per certi versi l’intuizione anselmiana di Dio come “id quo maius cogitari nequit”. Si possono ripercorrere le principali argomentazioni con cui Duns Scoto sostiene l’infinità di Dio, e spiegare il significato del suo richiamo ad Anselmo?
Un percorso determinante circa l’infinito, è offerto dalla connessione tra sommo bene ed essere infinito. Nel De primo principio, argomentando l'infinità di Dio, il Dottore Sottile scrive che una via per giungere alla conclusione dell'infinità può essere desunta dal fine. La nostra volontà può desiderare o amare qualcosa di più grande di qualsiasi fine limitato, come l'intelletto può, dal canto suo, conoscerlo. Sembra anzi che la volontà possieda un'inclinazione ad amare sommamente il Bene infinito, e che la volontà libera, come ci sembra di percepirla attraverso l'amore del Bene infinito, non riposi perfettamente che nel Bene sommo.
La stessa considerazione è sviluppata nel'Ordinatio, dove è costruita come terza via per dimostrare l'infinità di Dio. L'esperienza interna dell'uomo, a parere di Duns Scoto, suffraga queste due constatazioni: la volontà umana, il cui oggetto è il bene, non si appaga mai nel possesso di un bene finito; il desiderio dell'uomo è sempre pronto ad «appetere et amare» qualcosa di maggiore, un bene più grande di qualsiasi bene finito dato. Inoltre, la volontà mostra la propria naturale inclinazione ad amare al massimo un bene infinito: l'inclinazione naturale della volontà verso qualche cosa è infatti evidenziata dal fatto che di sua iniziativa, senza un previo abito, vuole quella cosa «prompte et delectabiliter», ossia immediatamente e con appagamento del desiderio, e tale è l'inclinazione della volontà umana verso il bene infinito. Questi dati consentono di concludere non solo che l'uomo esperisce attualmente in sé il desiderio di amare un bene infinito, ma altresì che la volontà umana non sembra acquietarsi in modo perfetto in nessun altro bene. La conferma è data dal fatto che l'uomo odia il non‑essere, ossia la natura razionale rifugge da tutto ciò che si configura come distruttivo dell'ordine ontologico: se il bene infinito risultasse qualcosa di impossibile e di assurdo, qualcosa di contrario all'oggetto del volere umano, la volontà lo odierebbe, ossia lo rifuggirebbe istintivamente (Ordinatio, I, dist. 2, p. 1, q. 1-2; n°. 130, ed. Vat. II, 205-206).
Questa argomentazione di Duns Scoto volta a stabilire l'infinità come caratteristica di Dio, si connette con le altre tre dimostrazioni dell’infinità di quell'essere trascendente, detentore di tre primalità o perfezioni nel sommo grado: le tre argomentazioni passano rispettivamente dalla via primae efficientiae, in quanto causa efficiente prima (effectivum primum), che si espande nella via dell’intelligentia omnium factibilium, ossia dalla eminenza delle perfezioni che connotano l’intelletto del primum efficiens, il quale, in quanto primo, è infinito nell’ordine delle sue potenze, ossia intende simultaneamente in atto omnia, e pertanto è infinito. Anche dalla seconda primalità, data dall’essere causa finale ultima (ex parte finis), e dalla terza primalità, data dalla natura eminentissima in ogni ordine e grado di perfezioni (per viam eminentiae) si giunge ad argomentare l’infinità di Dio. Senza entrare nei dettagli, evidenziamo il termine centrale delle riflessioni, che è costituito dalla coppia: - eminentissimum.
Se già la nozione di primalità o primo assoluto ci porta a mettere a fuoco l’eccedenza dell’infinito, nel senso che esclude l’esistenza di una realtà che lo superi da qualsiasi punto di vista, la nozione di massimamente eminente esclude anche l’esistenza di qualsiasi realtà che lo eguagli nella perfezione. Il richiamo all’id quo maius cogitari nequit di Anselmo è subito inserito da Scoto nella sua rielaborazione o coloratio Anselmi: si parte dalla preliminare asserzione dell’incompossibilità di qualcosa di più perfetto dell’eminentissimo, e la si connette con l’osservazione della possibilità per il finito di essere superato nella perfezione. Se l’eminentissimo (il perfettissimo) non è infinito intensivamente, non è sommamente perfetto, e dunque può essere superato o ecceduto, stante che l’infinità non ripugna all’ente, e l’infinito è maggiore di ogni finito.
L’eccedenza dell’infinito è connessa con il suo essere il sommo pensabile segnato dalla triplice primalità; se fosse un sommo pensabile esistente solo nel pensiero, in ultima analisi sarebbe di fatto un “pensato”, sarebbe costretto a stare nell’ordine della pensabilità, mentre anche rispetto a questo deve essere eccedente: proprio come per Anselmo l’insipiens è tale allorché pensa di costringere l’id quo maius cogitari nequit ad assestarsi nell’ordine della pensabilità (e non della realtà), lo intende cioè alla stregua di qualsiasi altra entità pensata, rendendolo ipso facto ciò che non è id quo maius cogitari nequit. Ossia contraddicendosi, o, meglio, annullando il significato delle sue affermazioni.
Un’ultima domanda, sul rapporto tra filosofia e rivelazione in Duns Scoto. La nozione di ente infinito è la più elevata a cui possa giungere l’intelletto umano e la volontà umana tende naturalmente al bene infinito, ma quale comprensione è possibile avere del contenuto di questo infinito, almeno per l’uomo nella presente condizione ovvero “pro statu isto”? Qual è, in altri termini, il significato della fondamentale distinzione che Duns Scoto introduce tra la “theologia nostra” e la “theologia in se”?
La qualifica dell'infinità esprime per il Dottor Sottile il vertice della perfezione formale di Dio; sappiamo che, per l'uomo, l'infinità è il concetto più elevato che possa avere di Dio in questa vita, e perciò il nostro maestro si è premurato di mostrare preliminarmente la non ripugnanza dell'infinità all'ente: «enti non repugnat infinitas». Non c'è contraddizione tra il concetto di ente e il concetto di infinito, perché l'intelletto non prova alcuna ripugnanza nel pensare qualcosa di infinito, lo vede anzi come l'intelligibile più perfetto. Del tutto analogamente l'aspirazione della volontà dell'uomo a un bene infinito non si presenta come la passione inutile o irrazionale di un soggetto inappagato dai risultati delle proprie azioni; essa è calata in un fondo di razionalità.
Tuttavia, tanto l'intuizione come la fruizione diretta di un ente‑bene caratterizzato dall'infinità non sono garantite all'intelletto finito e alla volontà finita dell'uomo viatore: l'infinito è ovviamente obiectum naturale di un intelletto e di una volontà naturalmente infiniti. Da ciò si ricava una prima considerazione: affermando l'esistenza di un essere infinito nell'ordine delle conoscenze, si afferma contemporaneamente l'esistenza di un ambito di conoscenze eccedente l'orizzonte delle conoscenze intellettive dell'uomo; è l’ambito dell'intelletto infinito di Dio, che istituisce un sapere transmetafisico, ossia si deve ammettere che all'affermazione dell'esistenza dell'infinito consegue l'affermazione dell'ordine delle conoscenze proprio dell'essere infinito, ulteriore a ogni sapere metafisico dell'intelletto umano, e che nel linguaggio di Duns Scoto è definito la theologia in se, naturalmente intenzionata dall'intelletto divino e alla quale l'uomo ha accesso solo se una rivelazione positiva gliene offre dei contenuti articolati e resi comprensibili dalle forme del linguaggio umano. La rivelazione appare così in una prospettiva che dice la compatibilità e l'intrinseca coerenza tra l'ordine delle conoscenze dell'intelletto umano e l'ordine delle verità rivelate, proprio perché la dimostrazione dell'esistenza dell'infinito comporta l'ammissione dell'esistenza di un sapere infinito, eccedente la conoscibilità finita e del finito, ed è per sua natura sottratto all'intelletto del metafisico.
La rivelazione di alcuni contenuti di questo sapere infinito assume perciò i connotati di coerente supporto alla natura dell'intelletto umano, che non dispone in proprio di possibilità alcuna di vincere l’eccedenza che contrassegna in ogni ordine, della realtà e della possibilità, l’essere infinito. L’analisi dell'infinito nella sua declinazione di totale eccedenza sul finito ci riporta all'insistenza su di un aspetto della rivelazione, per cui essa risulta perfezionamento delle potenze naturali, conoscitive e volitive dell'uomo, pur senza derogare in nulla al primato dell'iniziativa divina nel rivelare e alla sua gratuità.
Una seconda e ultima considerazione emerge dalla connessione esplicita operata da Duns Scoto parlando dell'infinitas Dei, tra la natura dell'intelletto divino che deve avere simultaneamente presente un'infinità di oggetti, dall'eternità, distintamente e indipendentemente dalla loro esistenza, e la volontà onnipotente o potenza effettiva infinita, atta a creare una indefinita molteplicità di cose, ossia la perfezione dell'efficienza propria della causa prima di tutto l'essere attuale e possibile.
L'aspirazione umana ad un bene infinito è risultata non velleitaria e non contraddittoria proprio perché l'infinità non ripugna all'intelletto e al volere; non siamo dunque in una prospettiva di «volontarismo», non siamo di fronte a una prevaricazione che attribuisce alla volontà totale autonomia rispetto all'intelletto, come spesso la storiografia della prima metà del Novecento ha sostenuto in riferimento a Duns Scoto. Il percorso, che ha condotto all'affermazione dell'ens infinitume al riconoscimento della intrinseca validità dell'aspirazione dell'uomo all'infinito, mette in risalto lo stretto rapporto tra essere e bene, tra intelligenza e volontà, che la libertà della volontà non potrà mai alterare o sopprimere, perché non potrà mai decidere di annullare la propria natura più intima e costituiva, ossia la strutturale capacità della volontà di amare l'oggetto più amabile, di volere il bene più sommo, di desiderare cioè la fruizione di un bene infinito.
(l’intervista è stata curata da Alessandro A. Carta)