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Un fondale trompe l’oeil per un cantiere neoliberista? 

Appunti sulla Big Society di David Cameron

 

di Vincenzo Magagna

 

Nel luglio 2010 il leader dei Conservatori inglesi David Cameron era da pochi mesi alla guida di un governo di coalizione con i Liberal Democratici. I primi provvedimenti del nuovo governo erano stati all’insegna dell’austerità, e misure drastiche per ridurre l’enorme deficit nel bilancio dello stato venivano annunciate quasi quotidianamente. L’attività di governo, rifletteva Cameron in un discorso di quel periodo, si può dividere in due categorie, quello che si fa perché è un dovere e quello che si fa per passione. Il taglio del deficit apparteneva alla categoria dei doveri, ma la “grande passione” di Cameron, era un’altra: costruire la Big Society. Questo termine, che tradotto letteralmente significa “grande società”, vuole evocare una società forte, autonoma, coesa. Implicitamente si pone in contrapposizione con il big government, una situazione in cui è forte il potere delle autorità pubbliche, e dello stato in particolare.

L’argomento di Cameron è semplice. Il big government ha fallito nei suoi obiettivi di giustizia sociale, la lotta alla povertà e la riduzione delle disuguaglianze. Il problema è l’impostazione eccessivamente tecnocratica e dirigista delle politiche sociali, la pretesa di elaborare dal ministero una risposta a tutti i problemi della società e di imporla poi attraverso la redistribuzione fiscale e la gestione diretta dei servizi pubblici. Questo approccio ha ridotto la sfera di autonomia degli individui e delle cosiddette società intermedie (famiglie, associazioni, ecc.), e indebolito la loro capacità di trovare autonomamente una risposta ai propri bisogni. Con la deresponsabilizzazione degli individui e delle società intermedie si arriva a una conseguenza paradossale: l’azione sociale dello stato, animata in origine da principi di solidarietà, finisce per generare egoismo ed individualismo diffusi.

Secondo Cameron, quindi, la grande espansione della sfera di influenza dello stato iniziata negli anni ’40, e culminata con i governi laburisti dal 1997 al 2010, è avvenuta a scapito della società, e ha pregiudicato la capacità dello stato sociale di perseguire efficacemente i suoi obiettivi originari. Per risolvere questo problema non basta che lo stato faccia un passo indietro. Lo stato deve impegnarsi attivamente per promuovere una società più forte. L’abbandono dell’approccio del big government passa quindi innanzitutto dal decentramento, da una forte devoluzione di poteri e risorse dal governo centrale verso il basso, ma richiede anche di creare le condizioni perché individui e altri attori sociali possano esercitare efficacemente il loro ruolo. In questo lo stato può e deve aiutare, ad esempio migliorando la trasparenza della spesa pubblica, o introducendo meccanismi di sostegno finanziario agli operatori del terzo settore. L’intenzione di Cameron, per usare le sue parole, è di “utilizzare lo stato per ricreare la società”.

Questo, essenzialmente, è il programma della Big Society (BS). Nel primo anno del governo, il programma ha mantenuto un elevato profilo, grazie soprattutto al forte sostegno dello stesso Cameron e dei suoi strateghi. Le numerose iniziative di riforma dei servizi pubblici messe in cantiere dalla coalizione sono state quasi tutte presentate come un contributo alla costruzione della BS. Tuttavia, in ampi settori del Partito Conservatore la BS ha avuto un’accoglienza tiepida, i Liberal Democratici ne parlano appena, e anche l’elettorato sembra non esserne stato particolarmente entusiasmato. Forse anche per questo gli aspetti più specifici del programma, cioè l’aumento della trasparenza e gli interventi a sostegno del terzo settore, sono rimasti più in ombra e hanno subito in certi casi forti ritardi nell’attuazione. Per volontà di Cameron comunque la BS è rimasta come un filo conduttore dell’azione di governo.

Questo contributo intende offrire qualche spunto di riflessione sul programma della BS alla luce di una delle grandi iniziative di riforma dei servizi pubblici promosse sotto la sua bandiera: la riforma del servizio sanitario nazionale inglese (NHS). Questa riforma, presentata in un libro bianco nel luglio 2010 e successivamente in un disegno di legge quest’anno, è stata fortemente criticata da tutte le categorie interessate e ha aperto profonde divisioni nella coalizione di governo. Recentemente il suo percorso legislativo è stato sospeso per permettere al governo di modificarne alcuni aspetti e assicurarsi così il consenso necessario a procedere. Nonostante l’incertezza sull’esito della riforma, il suo disegno originario resta un esempio interessante di applicazione del programma della BS a politiche concrete. Guarderemo quindi ad alcuni aspetti del progetto di riforma presentato dal governo per illustrare tre delle principali obiezioni che sono comunemente mosse alla BS, e tentarne una valutazione.

 

La prima obiezione è che l’insistenza dei Conservatori sulla necessità di “ingrandire la società” è in realtà un modo per oscurare la vera natura del loro programma, che è semplicemente di ridimensionamento dello stato. “Grande società” non sarebbe quindi che un altro modo per dire “piccolo stato”. La promozione di nuove forme di risposta ai problemi sociali sarebbe cioè un obiettivo secondario del governo, mentre la sua priorità sarebbe una riduzione dello stato fondata su premesse neoliberiste tradizionali, come il desiderio di migliorare efficienza e produttività nell’economia. Più o meno questo si vuole dire quando si afferma che la BS è una “cortina di fumo per i tagli” alla spesa pubblica.

Se considerazioni di giustizia sociale fossero effettivamente secondarie nel programma della BS, sarebbe legittimo domandarsi quanto sia ferma l’intenzione dichiarata di utilizzare lo stato per creare una “società più forte”, o se anche questo non faccia parte di una semplice operazione d’immagine. Lo scarso profilo delle iniziative sin qui adottate dal governo nell’ambito specifico della BS, e i forti ritardi nell’attuazione di molte di esse, sembrerebbero confermare quest’ultima ipotesi.

Ma guardiamo alla riforma dell’NHS. La riforma è stata presentata come una massiccia devoluzione di poteri dal governo centrale ai professionisti e ai pazienti del servizio sanitario. Nel suo impianto fondamentale sarebbe quindi perfettamente in linea con i principi della BS. Ai professionisti verrebbe dato maggiore controllo sul budget sanitario, mentre verrebbero fortemente ampliati i poteri di scelta e di controllo dei pazienti sulle prestazioni che ricevono. Accanto alla maggiore libertà di professionisti e pazienti di decidere le forme e i modi dell’assistenza sanitaria, la riforma prevede una maggiore apertura ad operatori privati e del terzo settore nella gestione dei servizi, e il potenziamento dei meccanismi di concorrenza già esistenti nel sistema. Secondo il governo, libertà e concorrenza si rafforzerebbero a vicenda, portando a un servizio sanitario più efficiente, innovativo e rispondente ai bisogni dei pazienti.

Tuttavia nelle prime fasi della riforma il governo è stato solerte soprattutto nell’annunciare l’abolizione di tutte le strutture intermedie di gestione del servizio sanitario (10 enti regionali e 152 enti simili alle ASL o USL italiane) e nel definire i nuovi e rafforzati meccanismi di concorrenza. Molto minore attenzione è stata invece dedicata alle forme di coinvolgimento di pazienti e professionisti, al di là di proposte sull’organizzazione del sistema che ricalcano in buona parte le strutture già esistenti. Sembrerebbe quindi che almeno in quest’area il ridimensionamento degli organi statali e l’apertura al mercato abbiano avuto effettivamente la precedenza rispetto alla cessione di poteri e risorse agli attori sociali coinvolti. D’altronde, alla luce dell’ingente deficit del bilancio pubblico inglese, all’NHS si richiede di realizzare enormi recuperi di efficienza nell’arco dei prossimi 3-4 anni, e questo costituisce una delle principali motivazioni della riforma.

 

Se la prima obiezione mette in dubbio la reale intenzione del governo di costruire la “grande società”, la seconda mette in discussione la realizzabilità stessa di tale obiettivo. Secondo quest’obiezione, sarebbe irrealistico aspettarsi una crescita dell’impegno sociale diffuso nella misura necessaria a ottenere il livello di protezione sociale ed i servizi pubblici che i Conservatori pure dicono di voler mantenere. La BS sarebbe, in altre parole, un programma troppo “esigente” nei confronti della società. Come può il governo aspettarsi, per prendere un esempio spesso citato nei dibattiti sull’istruzione, che un gran numero di genitori accetti di formare e portare avanti in prima persona cooperative per la gestione della scuola dei figli?

Ma torniamo al caso della riforma sanitaria. Secondo le proposte del governo, tutte le aziende sanitarie diventerebbero autonome, libere dal controllo diretto del ministero a cui la maggior parte di esse è ancora soggetta. Verrebbero al tempo stesso aboliti gli attuali limiti alla quota di reddito che un ospedale può ottenere da prestazioni private, rese cioè al di fuori del servizio sanitario nazionale. Le aziende sanitarie verrebbero inoltre esposte a un regime di insolvenza simile a quello previsto per le società commerciali, anche se in caso di fallimento le autorità pubbliche garantirebbero la continuità dell’assistenza sanitaria attraverso l’acquisizione da parte di aziende sane. Nel presentare questo programma di forte apertura alla concorrenza e alle regole di mercato, il governo ha messo particolarmente in evidenza l’aspettativa che molte aziende, una volta al di fuori del controllo ministeriale, vengano acquisite dai propri dipendenti e continuino la propria attività come imprese sociali. Nel Libro Bianco sull’NHS dell’estate 2010 si dice che l’ambizione del governo è di creare “il più grande settore di imprese sociali al mondo”. Anche qui si vedrebbe l’attuazione della BS, con i professionisti della sanità che uniscono le forze per gestire in prima persona le aziende in cui finora hanno lavorato da dipendenti, soggetti a un asfissiante controllo burocratico che emana dal ministero.

Tuttavia il personale sanitario ha finora mostrato scarso interesse per la gestione in proprio delle aziende, almeno a giudicare dai modesti risultati di un’iniziativa analoga varata già dal precedente governo laburista. Ad inibire l’interesse del personale ad acquisire, in tutto o in parte, la propria azienda, è spesso la complessità dell’operazione, ma pesa anche l’entità della sfida finanziaria che tutte le aziende sanitarie dovranno affrontare nei prossimi anni. Sembra probabile che se assetti proprietari nuovi e forme innovative di gestione emergeranno dalla liberalizzazione proposta, questo avverrà soprattutto ad opera di imprese private. Alcune di queste, grazie alle loro dimensioni, potrebbero inoltre più facilmente avvantaggiarsi della possibilità di acquisire aziende sanitarie pubbliche in difficoltà.

Queste prime indicazioni sembrano offrire una conferma della seconda obiezione. Sarebbe irrealistico aspettarsi che medici e infermieri accettino in gran numero di acquisire il controllo delle aziende sanitarie in cui lavorano. L’aspettativa del governo che i professionisti occupino ampi spazi lasciati liberi dall’azione diretta dello stato sarebbe quindi velleitaria.

 

La terza obiezione è più vicina al cuore del dibattito sulla corretta estensione delle responsabilità e dei poteri dello stato. Mentre infatti la prima obiezione mette in dubbio la sincerità del governo, e la seconda la realizzabilità dei suoi piani, la terza riguarda direttamente le vedute espresse dal governo circa la corretta definizione del ruolo dello stato. Secondo quest’obiezione, il perseguimento degli obiettivi di giustizia sociale dichiarati dal governo richiede che alcuni compiti restino di competenza esclusiva dello stato, mentre il programma della BS prevede un trasferimento di responsabilità su questi compiti dallo stato agli individui e ad altri attori sociali. Non si vuole qui negare l’applicazione del principio di sussidiarietà, ma semplicemente definire in modo diverso l’ambito delle responsabilità che spettano esclusivamente allo stato. Nell’articolare la sua visione della BS, il governo correrebbe il rischio di considerare alcune questioni fondamentali di giustizia sociale alla stregua di problemi locali, che possono essere risolti al meglio a livello locale. Così facendo comprometterebbe il raggiungimento di quegli stessi obiettivi di riduzione della povertà e delle disuguaglianze che sono dichiaratamente alla base del suo stesso programma.

Prendendo sempre ad esempio l’NHS, si può notare come l’approccio del governo ad importanti aree della riforma sia stato improntato al laissez faire. L’esempio forse più importante è la definizione dei nuovi distretti di assistenza sanitaria, che farebbero capo a consorzi di medici di base attivi nel territorio. Tali consorzi avrebbero il compito di disegnare i servizi offerti a livello locale e di acquistarli con un budget assegnato dal centro, e sarebbero enti pubblici soggetti a uno stringente regime di regolamentazione. Tuttavia la definizione di importanti aspetti costitutivi di tali consorzi è lasciata in prima istanza all’iniziativa dei medici di base, che sarebbero liberi di formare i consorzi “dal basso”. Poiché tali aspetti comprendono questioni fondamentali come l’ambito territoriale e la popolazione servita da ciascun consorzio, è prevedibile che vi siano forti differenze nelle dimensioni e nella composizione demografica dei vari consorzi. 

Si tratta di questioni non semplicemente tecniche, ma decisive per la natura stessa di un servizio sanitario. Distretti sanitari troppo piccoli in termini di popolazione servita sono vulnerabili al rischio di forti deficit di bilancio, perché presentano un maggior rischio che la popolazione sia soggetta a malattie più costose da curare rispetto alla media. Inoltre, se vi sono forti differenze nella composizione demografica dei distretti, è più probabile il sorgere di distretti con una forte concentrazione di aree socialmente svantaggiate e/o con bisogni di assistenza sanitaria più complessi. Benché sia possibile compensare in parte tali effetti introducendo correttivi al meccanismo di allocazione delle risorse, l’esistenza di forti differenze nel profilo demografico dei distretti renderebbe inevitabile il sorgere di forti disuguaglianze nell’assistenza sanitaria offerta in diverse aree del paese. La sostenibilità finanziaria dei distretti più svantaggiati verrebbe inoltre messa in discussione. Si rischierebbe così di compromettere l’esistenza stessa di un servizio sanitario pubblico a copertura universale.

Secondo i sostenitori della terza obiezione, compiti come la definizione dell’ambito territoriale e della popolazione servita dai distretti andrebbero lasciati alle autorità pubbliche competenti. Se queste rinunciassero alla responsabilità per questi aspetti, rischierebbero di rendere impossibile il perseguimento degli obiettivi di assistenza per cui pure conservano la responsabilità ultima.

 

La BS è stata al tempo stesso al centro dell’attenzione e relativamente in ombra in questo primo anno di governo di coalizione. Se da un lato infatti i suoi principi sono stati invocati a sostegno di quasi tutte le principali iniziative di riforma dei servizi pubblici, gli aspetti più specifici del programma hanno ricevuto minore attenzione e suscitato scarso entusiasmo, anche nelle file stesse dei Conservatori.

D’altro canto l’azione del governo, concentrata sulla riduzione del deficit e su una aggressiva riforma dei servizi pubblici in senso liberista e localista, sembra giustificare i timori degli scettici. Di questi timori abbiamo visto qualche esempio, tratto dalla tormentata riforma della sanità. Tuttavia, la BS rimane interessante perché si presenta come la base programmatica di fondo di un’azione di governo che si sta dimostrando energicamente riformatrice, nonostante le difficoltà legate alla convivenza dei due partiti in un’inedita coalizione. 

La BS si presenta anche come una risposta nuova a povertà e disuguaglianza in tempi di crisi economica, una risposta che punta a superare i limiti dello stato sociale tradizionale. Mettendo quest’obiettivo di giustizia sociale al centro del loro programma, almeno a parole, i Conservatori cercano di occupare un terreno storicamente presidiato dalla sinistra. Per la sinistra la BS rappresenta dunque una sfida, se non altro la sfida di smascherare il programma di Cameron come una semplice operazione di immagine, un fondale trompe l’oeil che nasconde un cantiere ancora sostanzialmente neoliberista. La sfida è forse però più ampia, perché qualsiasi dibattito sulla BS non può non toccare la natura e i limiti del ruolo dello stato, e la sinistra non può non avere su questo una sua posizione ben definita e alternativa a quella dei Conservatori.

Nei primi mesi all’opposizione il Partito Laburista ha agito su entrambi i fronti, da un lato criticando energicamente l’azione del governo e denunciandone le incongruenze, dall’altro avviando un’ampia riflessione alla ricerca di una posizione alternativa. In questa riflessione sta emergendo con forza una posizione, il cosiddetto Blue Labour, che presenta importanti punti di contatto con il programma della BS. Di questa posizione, che sta acquistando peso crescente all’interno del partito e attraendo sempre maggiore attenzione nel dibattito pubblico, ci occuperemo in un prossimo contributo. 

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