Alcune riflessioni su L’uomo che voleva essere colpevole di Henrik Stangerup
di Carla Canullo
Scritto nel 1973, il romanzo di Henrik Stangerup narra del faticoso cammino verso la società perfetta e verso l’Uomo Nuovo, la cui creazione – come dichiara uno dei personaggi genericamente chiamati “assistenti” – «non è facile» (127). Torben, scrittore che ha smarrito la sua vena narrativa e lavora presso l’Istituto Nazionale per la Razionalizzazione della Lingua (il cui compito è semplificare il linguaggio per la riforma progressiva della lingua, togliendo alle parole ogni tratto di umanità e vita) uccide la moglie Edith (montatrice di film) davanti al figlio Jesper. Immediatamente questi gli viene sottratto e dato in affido. Al contempo, Torben è obbligato a iniziare il difficile percorso di reinserimento e rieducazione che lo porterà al Parco della felicità, enclave per malati di mente. Enclavenella quale giungerà attraversando una serie di situazioni dalla doppia faccia e nelle quali incontra “personaggi” che non sono mai chi dicono o vogliono mostrare di essere.
Una storia semplice, molto più banale dei capolavori dello stesso genere, quali 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley. La sua attualità non sta, tuttavia, nella denuncia di un mondo che è tanto più perfetto nella misura in cui è capace di controllare e tacitare ogni espressione di libertà ma nella forma in cui tale libertà è negata, ossia la negazione della colpevolezza. Storia semplice che ruota attorno a un motivo semplice: la richiesta di Torben di essere dichiarato e giudicato colpevole per l’omicidio della moglie. Omicidio negato dalle autorità perché compiuto sotto gli effetti dell’alcol, dunque non per una “colpa” di fatto inesistente ma in un momento d’ira provocato da una dipendenza che avrebbe potuto essere evitata. Omicidio, ancora, che è piuttosto ricondotto alla casualità e all’accidentalità, non alla colpevolezza. Omicidio, infine, ascrivibile a uno stato di momentanea follia. Queste tre motivazioni fanno di Torben un “non colpevole” ma anche un “non adatto” a educare il figlio, preso in carico dagli assistenti subito dopo l’accaduto e affidato a una famiglia equilibrata e degna della tessera “Mammapapà” con la quale lo Stato ufficialmente riconosce a una coppia lo status di educatori.
In un mondo perfetto non c’è posto per la colpa, residuo del vecchio mondo e dell’uomo vecchio faticosamente rimovibile. La colpa è un’onta che la società perfetta deve cancellare, una macchia insopportabile che psichiatri, assistenti (nuovo nome, meno invasivo, per indicare corpi di controlli e “polizia”), conduttori televisivi, insomma, la società cosiddetta civile si affanna a estinguere, sopportando con ostinata benevolenza ogni rigurgito di colpevolezza di Torben. Lo fanno con benevolenza e compiacimento, con bontà, addirittura, offrendo trasmissioni televisive e riunioni per produrne una metamorfosi insolitamente lenta. Cancellare il male diventa l’imperativo sociale primo che tutti seguono, in un balletto neppure troppo originale. Cancellare il male è possibile riconducendone la causa ad atti di “assenza da sé” e “dipendenza da”. L’aggressività è ammessa, certo, e riconosciuta come forma espressiva dell’uomo, ma deve essere sfogata in luoghi debiti e appropriati; nel libro, in riunioni (sorta di talk show) in cui gli assistenti ne controllano il tasso e ne vigilano le espressioni. Un mondo perfetto dove persino l’ira può e deve trovare il suo posto. Così come Torben dovrebbe ritrovarvi il suo posto e la sua vita quotidiana, anche grazie all’ausilio di tranquillanti e altri farmaci opportunamente somministrati.
Introducendo il volume nel 1982, Antony Burgess, a commento della situazione delineata da Stangerup, parla di pelagianesimo dello stato danese in opposizione ad Agostino ed evoca Søren Kierkegaard, pensatore della colpa agli antipodi dalla nuova “filosofia” del proprio stato. Riferimenti che troviamo e cogliamo nel testo. Insieme ad altri, tuttavia, e in primo luogo insieme alla cancellazione di ogni imputabilità, che riguarda, certo, la cattiva azione ma anche la buona. È Kant, allora, a scrivere che «l’idea trascendentale della libertà […] forma […] il contenuto della spontaneità assoluta dell’azione, inteso come vero e proprio fondamento dell’imputabilità dell’azione». E in Della coesistenza del principio cattivo accanto a quello buono e del male radicale nella natura umana scrive: «La tendenza al male che, riferendosi alla moralità del soggetto, viene per conseguenza attribuita a lui come ad un essere libero dei suoi atti, bisogna che gli possa essere imputata come ciò di cui egli stesso si è reso colpevole». Negando la colpevolezza, è quest’imputabilità dell’azione che viene negata, e ciò insieme all’idea trascendentale della libertà suddetta. Ed è proprio contro questa negazione che Torben vuole essere colpevole.
Dal misconoscimento della colpevolezza segue, inoltre, la perdita di legami. Un legame – affettivo – Torben lo ha perduto uccidendo la moglie. Se però vuole essere dichiarato colpevole, ciò è per poter scontare la propria pena, per sottomettersi alla giustizia e, poi, tornare alla sua vita con il figlio; detto altrimenti, la possibilità di ricominciare a vivere una volta scontata la pena. La colpevolezza deve essere assunta per ricominciare a vivere, dunque, control’assoluzione non domandata in questa sorta di processo kafkiano alla rovescia, dove negare la colpevolezza coincide con il negare la possibilità di rialzarsi e ricominciare. Il divieto di ricominciare a vivere non è mai esplicito o esplicitato chiaramente ma è implicato dallo sfaldamento stesso dei legami e dell’identità del protagonista, della realtà circostante, nella scoperta che nessuno è più degno di fiducia e capace di dire qualcosa di vero, ché tutti i personaggi si legano a Torben in una sorta di tacito intento rieducativo, esito della società pura e nuova costituita da personaggi solo in apparenza incontrati per caso; personaggi che si susseguono quasi sempre senza nome, identificati piuttosto dalla loro professione e dal ruolo rieducativo svolto. Riconoscere di essere colpevole, invece, vuol dire poter ancora avere legami. Con il proprio gesto e con le proprie azioni, con sé. Vuol dire affermare il proprio sé, anche colpevole.
Di fatto, lo stesso omicidio di Edith matura per la negazione dei legami che il mondo perfetto domanda all’Uomo Nuovo, costringendolo a quell’auspicata purezza per la quale punizione e colpa sono concetti da non utilizzare più (cfr. 86 ss.). La resa di Edith al nuovo sistema educativo che bandisce la lettura delle fiabe di Andersen ai bambini, che regolamenta e disciplina ogni dimensione della vita della coppia, l’accettazione degli esercizi per il controllo della collera e delle passioni, l’accettazione del costante monitoraggio della famiglia da parte di psichiatri e pedagogisti che sanno orientare, l’incapacità di Edith di ribellarsi a questo ordine, a differenza di quanto in passato aveva fatto, arrivando addirittura a chiedere il divorzio soltanto perché non accetta la libertà di Torben di dire “no” alla perfezione imposta che, a sua volta, s’impone anche come rottura di legami, come sterilizzazione degli stessi col pretesto di generare purezza: sono questi i tratti della perdita di legami che l’uomo nuovo e la sua perfezione esigono.
Il testo di Stangerup è superato, forse, e la narrazione del mondo perfetto è ormai in disuso. Ma rimane attuale l’urgenza della libertà nei termini di imputabilità, di responsabilità personale, anche di colpevolezza. Togliere la colpa e il suo scandalo, pretendere di annullarne progressivamente l’effetto è anche voler annullare quella dimensione dell’umano che sbaglia affermando la propria libertà; che disobbedisce liberamente sbagliando, peccando, ma rispondendo in prima persona. L’uomo che vuole essere colpevole, dunque, è anche l’uomo che vuole esserlo perché gli si riconosca la sua libertà, il suo essere libero. Libero di continuare a vivere, amare, progettare in prima persona, sapendo di essere colui che è libero; ancora, perché la vita possa riprendere e ricominciare non nello sforzo imposto dalla società ma nell’umanità accolta e amata anche nella sua colpa. È per ricominciare a vivere, per riprendersi la propria libertà che il protagonista domanda che la sua azione gli sia imputata, che domanda che la colpa gli sia riconosciuta perché, anche, il bene gli sia ancora possibile e non negato. Quel bene che per lui è il legame rimasto con un figlio che invece, rieducato, lo sfugge; bene che è la “voce” di Edith che continua a sentire come appello che incoraggia la sua libertà di essere, anche, colpevole. Colpevole ma, ancora e di nuovo, amabile.