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Alla ricerca di una nuova identità

La Sinistra Inglese tra Old Labour, New Labour, Blue Labour e 'good society'

di Vincenzo Magagna

Da qualche tempo nella riflessione politica inglese c’è una rinnovata attenzione per i concetti di società e comunità, intesi in contrapposizione (o perlomeno in giustapposizione) a quelli di stato e mercato. Diversi pensatori, in entrambi i maggiori partiti, sostengono che uno stato sempre più interventista e accentratore da un lato, e un mercato lasciato a se stesso dall’altro, hanno allargato la propria sfera di influenza a scapito della società. Questo avrebbe portato a un’erosione del potere della gente (the people), sia a livello individuale sia a livello di famiglie, associazioni, ecc., di decidere autonomamente del proprio destino. E’ il momento, secondo questi pensatori, di riequilibrare la situazione dando alla gente maggiore potere. 

Non sono idee nuove, sono anzi idee che hanno una storia illustre nelle tradizioni politiche di entrambi i partiti. Quello che è nuovo è la preminenza che queste idee hanno assunto nel dibattito corrente e nell’elaborazione politica ai vertici dei maggiori partiti inglesi. Da queste idee nasce il programma della Big Society, la “grande società”, che David Cameron ha voluto al cuore del manifesto elettorale dei Conservatori nel 2010, e che lui stesso continua a promuovere come elemento “forte” della proposta politica del suo partito e dell’azione del governo di coalizione da lui guidato. Ma a quelle idee guardano con attenzione anche i Laburisti, che sotto la guida del nuovo leader Ed Miliband hanno iniziato un lungo processo di ridefinizione dell’identità politica del partito.

E’ difficile identificare queste idee con una sigla o un’etichetta unica, proprio perché mettono in discussione le abituali linee di demarcazione del dibattito politico. Phillip Blond, l’intellettuale che forse maggiormente ha contribuito alla loro affermazione nel Partito Conservatore, si è definito “conservatore rosso” (Red Tory). E Maurice Glasman, che difende posizioni analoghe fra i laburisti ed è un influente consigliere di Ed Miliband, viene presentato come l’alfiere di un nuovo “laburismo blu” (il blu e’ il colore tradizionale dei Conservatori). Queste etichette colgono bene la natura ibrida di ciò che si vuole definire.

Comunque la si voglia chiamare, questa corrente di pensiero è interessante appunto perché sembra offrire un’alternativa a proposte politiche consolidate e secondo molti ormai screditate. Da un lato un’impostazione neoliberista, che vedeva nel mercato lo strumento migliore per garantire prosperità e benessere, e puntava ad estenderlo ad ambiti nuovi (per esempio i servizi pubblici) lasciando al tempo stesso il più possibile liberi i suoi operatori da regolazione e interferenza dello stato. Dall’altro lato il modello del welfare state,che rivendicava un ruolo attivo per lo stato nel correggere gli effetti indesiderati degli scambi di mercato, attraverso l’elaborazione di dettagliate politiche sociali la cui attuazione veniva poi controllata dal centro. Tutti i governi britannici dalla fine degli anni ’70 ad oggi hanno proposto combinazioni diverse di questi due elementi. I Conservatori dell’era Thatcher ebbero un approccio notoriamente laissez-faire, ma rafforzarono al tempo stesso il potere del governo centrale rispetto ad esempio agli enti locali; il New Labour di Tony Blair abbracciò il modello neoliberista dei predecessori, compensandolo però con un imponente programma di investimenti nei servizi pubblici finanziato con la tassazione.

Secondo “conservatori rossi” e “laburisti blu” questi approcci hanno prodotto conseguenze pericolose al livello appunto degli individui e della società. Il mercato lasciato a se stesso crea differenze permanenti e inique nella distribuzione delle risorse, e politiche di redistribuzione del reddito e di assistenza pubblica non bastano a rimediare al problema. Un interventismo eccessivo da parte dello stato può anzi aggravarlo, quando sottrae agli individui e agli altri attori sociali la possibilità, e quindi a lungo andare anche la capacità, di elaborare autonomamente le risposte ai propri bisogni. Il problema è proprio quello di garantire che ciascuno abbia la possibilità concreta di realizzare il proprio progetto di vita nell’ambito delle varie aggregazioni sociali di cui fa parte (e qui si rivela l’elemento comunitarista di queste idee, per cui vedi sotto).

Poiché la minaccia viene da due parti, stato e mercato, la soluzione al problema si deve sviluppare su due fronti. Da un lato, una devoluzione di poteri dallo stato al livello più vicino possibile agli individui. Dall’altro, un attacco alle posizioni di potere consolidate nel mercato. Si noti che in entrambe queste linee di intervento lo stato ha un ruolo di primo piano – e difatti queste teorie non sostengono tanto una riduzione quanto un ripensamento del ruolo dello stato.

C’è in queste idee anche un elemento comunitarista. Che cosa si può contrapporre allo strapotere di stato e mercato? Non solo l’individuo preso separatamente, privo dei suoi legami di appartenenza familiare, culturale, religiosa ecc., perché questi legami sono essenziali per definire la sua identità, per dare un senso ai suoi progetti di vita e fornirgli gli strumenti per realizzarli in un contesto di cooperazione con altri. Anzi uno dei problemi più gravi delle teorie politiche di stampo liberale oggi dominanti sarebbe che hanno lasciato troppo poco spazio a queste appartenenze, e lo strapotere di stato e mercato le ha indebolite se non addirittura soffocate. Il primato riconosciuto ai diritti e alle libertà individuali ha generato una mentalità individualista, rafforzata dalla logica di scambio del mercato ma paradossalmente anche dall’invadente autoritarismo con cui le burocrazie statali cercano di mediare i conflitti fra diritti individuali. Questo individualismo indebolisce la solidarietà e il rispetto reciproco che accompagnano normalmente i legami di appartenenza di cui si è detto: così le istanze di giustizia sociale sono minate alla radice, e inefficace diventa qualunque programma statale che cerchi di rappresentarle. Teorie come quelle di Blond e di Glasman mirano a contrastare queste tendenze, affiancando a radicali proposte di giustizia sociale (eg sul livello del salario minimo, sull’accesso al credito dei più svantaggiati) la difesa e il rafforzamento delle relazioni sociali che si manifestano nelle famiglie, nelle associazioni, nelle comunità nazionali, religiose, ecc. 

Le idee di questi pensatori sono particolarmente interessanti per la Sinistra inglese, e forse per la Sinistra in generale, perché le offrono stimoli a ripensare il proprio ruolo in termini nuovi, o meglio secondo alcuni in termini vecchi, ma troppo a lungo ingiustamente trascurati. Si fa notare infatti che queste idee fanno parte da sempre del patrimonio culturale della Sinistra inglese: il ruolo delle associazioni e delle comunità locali nell’avanzare dal basso istanze di giustizia sociale fu infatti centrale sia per il movimento operaio da cui è nato il Partito Laburista, sia per quei liberali di sinistra che insieme ai socialisti ebbero un ruolo di primo piano nel disegnare lo stato sociale che sorse dalle rovine della Seconda Guerra Mondiale.

Da parte loro i “conservatori rossi” fanno appello a una tradizione di conservatorismo radicale che risale al pensiero di Edmund Burke e più tardi ispirò l’azione riformatrice dei governi di Benjamin Disraeli. 

Molti Laburisti però guardano con sospetto al modo in cui Cameron ha “riscoperto” questa tradizione sotto lo slogan della “grande società”, perché pensano si tratti di un’operazione di facciata: un tentativo di accreditare i conservatori sul terreno della giustizia sociale attraverso la pura evocazione di una solidarietà civica diffusa, lasciando però intatta una politica economica di stampo neoliberista. Secondo i Laburisti quella tradizione di solidarietà civica appartiene invece in primo luogo alla Sinistra, e l’interesse a rispolverarla nasce anche in reazione all’”appropriazione indebita” da parte di Cameron. Sta di fatto che anche per i Laburisti si tratta di una riscoperta, che richiede di mettere seriamente in discussione punti fondamentali dei modelli seguiti in quasi quindici anni di governi New Labour.

I Laburisti sembrano seriamente intenzionati a questa elaborazione politica che sembra, almeno a giudicare dalla profondità dei suoi contenuti, possa costituire uno stimolo interessante per una riflessione più ampia, più Europea e certamente interessante per il futuro della Sinistra nel suo complesso.

In altre parole, le idee del cosiddetto “laburismo blu”, o “conservatorismo rosso” che dir si voglia,  offrono un terreno promettente su  cui edificare un nuovo futuro della e per la Sinistra?

Lo scopo di questa ricerca nasce da qui. 

Alcuni dubbi sono immediati: 

 

Supponiamo che lo stato riesca ad affrontare con successo gli squilibri di potere generati dal mercato (ad esempio attraverso la riconfigurazione dei modelli di proprietà aziendale, un’aggressiva politica antitrust, misure per l’accesso al credito ecc.). Supponiamo anche che lo stato riesca a devolvere poteri e risorse al livello volta per volta più appropriato, massimizzando l’opportunità di individui e comunità di elaborare risposte autonome ai propri bisogni. Questo riequilibrio dei poteri a vantaggio di individui e comunità dovrebbe avere effetti positivi più ampi in termini di giustizia distributiva, ma non esclude comunque il sorgere di disuguaglianze anche significative. Non si tratta solo delle disuguaglianze fra ambiti locali/comunità diverse, ma anche delle disuguaglianze all’interno di singole comunità locali (ad esempio fra chi ha il potere di decidere sull’uso delle risorse devolute dallo stato e chi di questo potere è privo). La Sinistra si deve chiedere quali, e quanto grandi, sono le disuguaglianze che sarebbe disposta ad accettare in questo contesto. Si deve chiedere anche quale dovrebbe essere il ruolo dello stato nell’eliminare o ridurre le disuguaglianze che si considerano inaccettabili. 
Sarebbe in ogni caso un errore ritenere che le “comunità” siano, in sé e per sé, meno soggette dello stato al sorgere di disuguaglianze ingiustificate al proprio interno, e meglio in grado rispetto allo stato di rispondervi.

Una questione collegata alla precedente, di cui rappresenta forse un’applicazione particolare, è questa: nel dare un ruolo di primo piano ai riferimenti etici e culturali propri della nazione, della religione, dell’etnia di appartenenza degli individui, non si rischia di legittimare disuguaglianze e/o relazioni di oppressione che si fondano almeno in parte su quegli stessi riferimenti? (ad esempio fra maggioranza e minoranze etniche, fra popolazione “autoctona” e stranieri, fra uomini e donne, ecc.). Rispondere a questo rischio deve rimanere un ruolo essenziale dello stato? Quali altri strumenti, al di fuori dell’azione dello stato, esistono per mitigarlo?

Negli ambiti in cui si ritiene necessaria l’azione collettiva, la devoluzione di poteri e risorse a vari attori sociali (ad esempio associazioni di volontariato a cui si affida la gestione di un servizio pubblico) presuppone la volontà e la capacità da parte loro di assumersi il relativo impegno. E’ realistico pensare che questa condizione si verifichi? In altre parole, la teoria alla base della devoluzione non è troppo “esigente”? (si vedano per l’Inghilterra le obiezioni al programma della “grande società” dove immagina scuole gestite da cooperative di genitori, uffici postali gestiti da gente del quartiere, ecc.)

I vincoli alla politica economica nazionale – nonché all’azione dei singoli operatori economici – derivanti dall’appartenenza all’economia globale pongono limiti specifici all’attuabilità del programma di rafforzamento di individui e comunità nei confronti del mercato? Se sì, quali?  

Attraverso analisi, riflessioni e dialoghi con i partecipanti al dibattito, questa ricerca in più puntate si offre come spazio di elaborazione per chi voglia contaminare il proprio orizzonte di riferimento o, più semplicemente, guardare oltre-Manica per semplice curiosità.

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