
Le parole
dell’etica
di Antonio Da Re*
L’esercizio della riflessività personale e la cura che essa richiede costituiscono un antidoto al conformismo morale, da non intendersi semplicisticamente come la mera adesione all’ēthosesistente. Innanzitutto va osservato come sia improprio, specie nella società post-moderna, parlare di un ēthos al singolare; a ben vedere le nostre vite sono ‘attraversate’ e influenzate da diversi ēthe, tra loro non necessariamente collimanti, che si intersecano e si sovrappongono, rendendo estremamente frammentaria e incerta l’esperienza etica del soggetto. Va poi fatta una precisazione riguardo al valore morale dell’ēthos esistente (o degli ēthe esistenti). L’ēthos, per il fatto che si dà concretamente, non è detto che sia di per sé ‘giustificato’; è lecito in tal senso nutrire più di qualche dubbio rispetto all’ottimismo di Hegel, che vede nelle forme dell’ēthos la manifestazione della ‘verità etica’. E tuttavia, non si può nemmeno affermare che l’ēthos (o quel particolare ēthos) vigente debba sempre essere superato in una forma più adeguata. L’ēthos certamente va sempre messo in discussione, saggiato nella sua consistenza etica, ma non è detto che il delinearsi di un nuovoēthos sia già di per sé qualcosa di positivo per il semplice fatto che è nuovo.
Proviamo a esemplificare il significato di questa dialettica tra forme antiche e nuove dell’ēthos, riprendendo una discussione che in tempi recenti ha coinvolto vasti settori dell’opinione pubblica italiana, in particolare il mondo medico e sanitario. Nel 2009 è stata emanata la legge n. 94 contenente «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica»; tale legge, denominata anche giornalisticamente «Pacchetto sicurezza», regola tra le altre materie il reato di immigrazione clandestina. A tale proposito essa prevede l’obbligo, a carico dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio, di denunciare all’autorità giudiziaria i soggetti clandestini incontrati nell’esercizio delle proprie funzioni. In una prima formulazione della legge, tale obbligo valeva anche per il personale medico e sanitario. Era facile prevedere che una norma simile avrebbe di fatto impedito l’accesso ai servizi sanitari fondamentali da parte degli immigrati clandestini, danneggiando in particolare le persone più vulnerabili, tra le quali le donne in gravidanza e i minori; era inoltre ugualmente prevedibile che tale norma avrebbe contribuito a incoraggiare il ricorso a sistemi alternativi di cura e a creare una rete clandestina di assistenza sanitaria, facilmente controllabile da gruppi criminali. Da non sottovalutare infine l’aumento del rischio per l’intera popolazione di una maggiore esposizione alla malattia, per esempio la possibilità di contrarre malattie infettive, a causa del mancato accesso all’assistenza sanitaria di base da parte di gruppi considerevoli di persone in quanto prive del permesso di soggiorno. Queste e altre considerazioni sono state addotte da parte di personalità singole, di gruppi, di istituzioni, tra le quali merita di essere menzionata la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCEO). Gli Ordini dei Medici, tra l’altro, nella loro opposizione all’obbligo di denuncia del clandestino, si appellavano alla propria deontologia professionale, in particolare al dovere di curare il paziente «senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali [il medico] opera» (art. 3 del Codice di Deontologia Medica).
Alla fine il legislatore non è rimasto insensibile a tali argomenti e alle varie critiche mosse alle prime stesure del cosiddetto «Pacchetto sicurezza»; il testo definitivo della legge approvato dal Parlamento italiano ha introdotto infatti alcune deroghe all’obbligo di denuncia dell’immigrato privo di permesso di soggiorno, e tra queste una riguarda il personale medico e sanitario; sono invece escluse altre professioni, per esempio quella degli assistenti sociali, per i quali continuano a valere gli artt. 361-362 del Codice Penale che puniscono l’omissione o la ritardata denuncia, da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio, di un reato di cui egli sia venuto a conoscenza nell’esercizio delle sue funzioni.
La vicenda può essere letta come un confronto, che a tratti si è trasformato in un vero e proprio scontro, tra due diversi tipi di ēthos, quello riconducibile grosso modo alla tradizione ippocratica e umanistica della medicina e quello che subordina il fine primario e universalistico della prassi medica a esigenze di ordine sociale, riducibili fondamentalmente a esigenze di sicurezza e di ordine pubblico. Nell’occasione, con la riconosciuta possibilità di accedere alle prestazioni sanitarie senza l’obbligo di esibire il permesso di soggiorno, l’ēthostradizionale è risultato per così dire vincente; ma si è trattata di una vittoria parziale e comunque provvisoria, perché la prospettiva contraria ha comunque prodotto degli effetti considerevoli, sia negli immigrati irregolari, che ora si rivolgeranno alle strutture sanitarie con maggior circospezione, sia più in generale nell’opinione pubblica, che ha dovuto prendere coscienza della possibilità concreta dell’instaurarsi di un diverso ēthos, di una diversa modalità, più escludente e meno inclusiva, d’intendere l’attività medica. Ovvio che un’eventuale legalizzazione nei modi previsti originariamente dal «Pacchetto sicurezza» avrebbe contribuito al rafforzamento di un ēthos di autotutela del gruppo, rispetto a chi è considerato estraneo al gruppo stesso; ma anche senza il riconoscimento giuridico, un ēthos simile mostra di essere già radicato e, anzi, proprio il tentativo di legalizzarlo costituisce un’indiretta conferma di tale radicamento.
Compito dell’etica è interrogarsi sulle diverse forme dell’ēthose sulla maggiore o minore pertinenza morale dell’uno o dell’altro, e non sulla loro maggiore o minore «attualità» in termini temporali, come se quello più recente fosse comunque da abbracciare rispetto a quello più antico; tale opera di analisi critica da parte dell’etica è complessa anche perché le forme sociali e culturali dell’ēthos, per loro stessa caratteristica, non si presentano in modo puro; esse sono accompagnate da significati, precomprensioni, realizzazioni in pratiche determinate la cui considerazione può contribuire a modificare almeno in parte il giudizio sull’ēthos complessivo. Pur facendo propria l’intenzionalità universalistica e inclusiva dell’ēthos qui definito per semplicità di tipo ippocratico, si potrebbe per esempio eccepire su una sua possibile declinazione in termini paternalistici, cosa che senz’altro è avvenuta e ancora continua ad avvenire in molti contesti; oppure si potrebbe agevolmente convenire sull’importanza di garantire la sicurezza sociale e il principio di legalità, senza per questo però costringere il medico a trasformarsi in poliziotto. Ma anche considerando queste ulteriori specificazioni, rimane fermo che la riflessività dell’etica come sapere può confrontare i diversi tipi di ēthos, e giudicarli, stabilendo che l’uno, quello inclusivo e universalistico, corrisponde meglio a delle istanze etiche che tra l’altro hanno trovato una fruttuosa ricezione anche nella nostra Costituzione repubblicana.
È presumibile immaginare che il confronto-scontro tra le forme di ēthos qui menzionate proseguirà, il che nuovamente ci riporta al tema della centralità della prospettiva personale. Esemplificando: l’ēthos ippocratico non può continuare a sussistere solo confidando in un riconoscimento giuridico, che pure è rilevante; esso necessita di essere continuamente sostenuto e alimentato da significati e motivazioni personali. La possibilità del collasso morale, evocata più volte da Hannah Arendt in riferimento alla Germania nazista, va sempre messa in conto. Per questo è fondamentale il ruolo dei soggetti singoli, della loro riflessività, della loro capacità valutativa e quindi anche della corrispondente cura di sé. Questo esercizio di autoriflessività potrà indurre il soggetto morale, che magari si trovi in situazioni morali estreme, a dichiarare a se stesso: «io non posso». Di tale autoriflessività ha comunque bisogno l’esercizio della riflessività dell’etica come teoria.
(*tratto, con alcune revisioni, da Antonio Da Re, Le parole dell’etica, Bruno Mondadori, Milano 2010, pp. 68-71).