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La crisi dell’euro

 

di Silvano Andriani

Molti si sono rallegrati che i governi europei abbiano deciso nalmente di intervenire a favore dei paesi dell’area euro in dif coltà derogando ad alcune regole: la Banca Centrale è stata indotta ad acquistare titoli di Stato in violazione del proprio statuto ed è stato costituito un fondo in violazione del trattato di Mhasthrict che esclude la possibilità di salvataggi. L’entusiasmo, tuttavia, svanisce se ci si rende conto che non tanto del salvataggio della Grecia si tratta quanto dell’ennesimo salvataggio di banche, soprattutto di banche francesi e tedesche.

Negli ambienti economici si dà per scontato che la Grecia andrà comunque in default. Si dice: abbiamo guadagnato tempo. In pratica si tratterà del tem- po necessario a trasferire il rischio greco dalle banche alle spalle dei contri- buenti. Una ristrutturazione del debito greco, avrebbe imposto perdite alle banche, ma avrebbe evitato alla Grecia un’austerità così feroce ed avrebbe avuto maggiori possibilità di successo.

La via di uscita che viene scelta dalla destra al potere in Europa è l’austerità, ma sarà essa la soluzione? Il gra co che pubblichiamo mostra plasticamen- te la vera natura del problema. Esso fa un confronto fra l’andamento del cambio reale fra i Pigs e la Germania. Paesi che hanno la stessa moneta e lo stesso cambio nominale possono avere cambi reali diversi se il tasso di in a- zione è diverso. Per i paesi dove l’in azione è più alta è come se il cambio si rivalutasse e le proprie merci diventassero più care rispetto agli altri paesi e viceversa. Si tratta, in pratica, di una misura della dinamica differenziata della competitività a partire dall’entrata in vigore dell’euro.

La tendenza alla divergenza appare chiara ed inarrestabile ed all’estremo opposto alla Germania non si trova la Grecia, ma Spagna ed Irlanda, i due paesi con il debito pubblico più basso in Europa. La Spagna ha avuto il bi- lancio pubblico addirittura in attivo nei tre anni precedenti la crisi. Ora si fa un gran parlare della necessità di rafforzare il patto di stabilità. E nessuno pare accorgersi che paesi come la Spagna, l’Irlanda, l’Inghilterra, che secon- do i criteri del patto erano i paesi più stabili, sono invece la principale fonte di instabilità.

Il patto di stabilità, così come è, non funziona. Esso è tarato sulla crisi degli anni ’70 che era molto diversa dall’attuale. Quella nasceva da un con itto distributivo tra paesi produttori e paesi consumatori di petrolio e tra capitale e lavoro e si manifestava attraverso forte in azione e crescita del debito pub- blico. Le politiche economiche furono orientata negli anni ’80 al controllo dell’in azione e dei de cit pubblici ed ebbero successo. Dalla ne degli anni ’80 l’instabilità si è manifestata con la formazione ed esplosione di bolle spe- culative che nulla avevano a che vedere con il debito pubblico, piuttosto na- scevano dall’eccesso di debito privato e dai ussi di capitale corrispondenti. Anche la crisi attuale è nata quando l’in azione era bassissima e i de cit pubblici sotto controllo. Se si vuole davvero avere un patto di stabilità allora bisognerebbe tenere conto non solo del debito pubblico, ma anche di quello privato e del tasso di risparmio ; in ultima analisi della eventuale tendenza di ciascun paese a vivere al di sopra dei propri mezzi.

Le divergenze tra paesi europei hanno sì origine dalla loro diversa struttura economica e dalle grandi diversità esistenti al momento dell’avvio della mo- neta unica, ma sono alimentate anche dal funzionamento dell’euro. Il tasso di cambio tende a ssarsi né al livello dei paesi deboli, né a quello dei paesi forti, ma fra questi due livelli. Esso risulta perciò troppo alto per i deboli, che ne sono svantaggiati, e basso per i forti, che ne traggono vantaggio. Le stupefacenti performance della Germania nel commercio estero si spiegano anche così. In mancanza di politiche europee di sviluppo dirette a ridurre le divergenza la frattura dell’area euro sarà inevitabile. Le politiche di au- sterità aumenteranno le divergenze in quanto saranno più dure per i paesi più deboli.

Coloro che sostennero negli anni ’80 l’introduzione della moneta unica sa- pevano che una moneta senza Stato non era mai esistita. Consideravano comunque la sua nascita come tappa di un processo che doveva portare all’unità politica dell’Europa. E non si trattò solo di un disegno istituziona- le, ma anche del tentativo di de nire un progetto si sviluppo economico e sociale europeo sostanzialmente diverso da quello anglosassone che il pen- siero unico cercava di imporre in tutto il mondo.

Quella stagione di crescita dello spirito e della progettualità europei fu gui- data da leader della sinistra, dai Mitterand, Brandt, Delors, Napolitano. Ma la generazione successiva abbandonò quella strada per seguire il suono il- lusorio della retorica della “terza via”. Il divario crescente fra la retorica dell’elite politica e la realtà ed il senso comune – tipo: non vi è contraddi- zione fra allargamento ed approfondimento dell’Unione; l’euro sostituirà il dollaro come moneta internazionale; stiamo salvando la Grecia- può essere mortale. L’esempio più tipico di tale divario è il progetto di Lisbona. Lì si af- fermava che gli europei sarebbero diventati i migliori, ma si rinunciava a po- litiche sociali ed economiche comuni per ripiegare su inef caci pratiche di coordinamento, che riducevano il ruolo dell’Unione a quello di controllore, e non si esprimeva alcuna valutazione critica del processo di globalizzazione e del modello di sviluppo dominante.

Abbiamo assistito al fallimento di una generazione che ha lasciato la sinistra europea inerme di fronte alla crisi ed alla necessità di cambiare sostanzial- mente l’approccio ai temi della globalizzazione e dell’uni cazione dell’Eu- ropa. Bisognerebbe prenderne atto e cercare di cambiare pagina.

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