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Il mondo alla rovescia del liberismo

 

di Andrea Margheri

Tutti i dati ci dicono che siamo ancora molto lontani dall’alba della ‘nuttata’ che ha avvolto, avvolge e quasi soffoca l’Europa, con primo epicentro la tragedia della Grecia, e nei giorni successivi con un terremoto vasto come l’Unione, particolarmente violento in Portogallo, Spagna e Italia. L’Europa, frenata dalla Germania della Merkel, ha agito tardi. Si è limitata a misure di emergenza (la possibilità per la Bce di acquistare titoli degli Stati, il Fondo europeo per contrastare situazioni fallimentari). Ma, l’attacco dei mercati ha una dimensione assolutamente maggiore dell’area dell’intervento di emergenza, che pure costituisce un passo avanti sulla via di un governo comune dell’economia).

Non solo perché mira al cuore della struttura finanziaria dell’eurozona, la Bce appunto, che non avendo alle spalle né uno Stato né una politica economica davvero coordinata, spesso contraddetta da interessi nazionali ben più aggressivi, è esposta all’attacco delle forze della speculazione. Ma soprattutto perché è «solo il calcio di inizio» (Cacace) di una partita decisiva per l’intero

sistema del capitalismo globalizzato e delle forze che lo compongono. È un vero e proprio scontro politico per stabilire chi comanda. Per decidere chi è servo e chi padrone, come ci ha spiegato tante volte Silvano Andriani. La finanza internazionale sta verificando, a partire dalla crisi greca, ma mirando agli altri Paesi europei in difficoltà, la capacità degli Stati di sostenere quei disavanzi che si sono formati proprio a causa dell’esplosione della bolla speculativa e proprio per salvare le banche dal fallimento.

Quei disavanzi, infatti, si sono formati quando le banche, avendo in ostaggio le grandi masse di risparmiatori, hanno imposto in tutto il mondo, a partire dagli Usa, agli Stati e ai cittadini il peso della crisi causata dagli ‘eccessi’ della finanza creativa e dall’esplosione della ‘bolla’ speculativa dei derivati.

Come sostiene giustamente Obama, quella crisi è stata così grave per il vuoto di regole e di controlli che ha reso ciechi e impotenti gli Stati proprio mentre avveniva quel colossale trasferimento di risorse dall’impresa e dal lavoro alla intermediazione finanziaria. Naturalmente, dopo il «caso» Lehman Brothers, gli ostaggi sono sempre stati salvati al prezzo imposto dalle banche, dai Fondi, dalle assicurazioni. Speculazione. Così una crisi devastante, nata dai meccanismi del mercato autoregolato, insuperabile da una crescita della disuguaglianza (il trasferimento di risorse dalla produzione e dal lavoro alla rendita speculativa, che oltre a essere iniquo comprime insopportabilmente la domanda aggregata, come Krugman e Stiglitz ci hanno spiegato) si è evoluta e momentaneamente placata attraverso un ulteriore aumento della disuguaglianza, e cioè scaricando costi enormi sugli Stati e quindi principalmente sui lavoratori dipendenti e sui ceti medi che pagheranno il prezzo più alto dell’austerità imposta dai disavanzi. Contemporaneamente, alle imprese diventa più difficile ricorrere al sostegno necessario del credito.

Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: caduta della domanda, difficoltà delle imprese, disoccupazione, caduta dei servizi anche di più alto livello (formazione e cultura). È questa la condizione che in Italia il governo di centrodestra si è ostinato a nascondere dietro la formula di una rapida «uscita dalla crisi», e che è semplicemente il trasferimento della crisi alle grandi masse popolari.

In questo scontro violento tra la finanza e la politica sinora il meccanismo fondamentale del capitalismo è rimasto intatto per l’accanita opposizione alla istituzione di nuove regole e nuovi controlli sia su scala internazionale sia al livello degli Stati nazionali. È inevitabile un ulteriore attacco nei punti più esposti contro gli Stati più indebitati ed economicamente più squilibrati. Fa parte della partita che è solo iniziata. Per questo il primo obiettivo è l’euro, che è una moneta senza Stato. Il caso della Grecia dimostra che si è aperta una corsa del sistema verso una disuguaglianza sociale drammatica, difficilmente tollerabile. Ma gli economisti liberisti ci spiegano ora che bisognava lasciare la Grecia al suo destino. Oppure che due Euro, uno a Nord uno a Sud, possono reggere meglio di una sola moneta (Zingales) e prefigurano, così, un’evoluzione rovinosa per molti Paesi e per il Sud dell’Italia, in particolare. Sono solo proposte isolate e si collegano a una spinta culturale e politica più vasta e articolata, possibilista sulle soluzioni di emergenza, ma molto determinata sull’obiettivo strategico?

Credo che sia vera la seconda ipotesi. E l’obiettivo strategico è il seguente. Il sistema capitalistico fondato sul potere assolutomdella finanza deve restare identico a se stesso. Nonostante il risultato catastrofico sul piano produttivo e sociale, non c’è niente di sostanziale da cambiare. Ora questo modello dispiega tutto il suo potere attaccando le faticose conquiste politiche dell’Unione europea come la moneta unica e la solidarietà tra gli Stati membri. Il cerchio si chiude. Il sistema rilancia il suo ‘squilibrio permanente’, ancora senza regole e senza controlli, e tenta di imporre la sua egemonia alla politica.

Nella sua strenua battaglia Obama lo ha ben compreso. Per questo è sostenuto da una cultura di sinistra combattiva e ricca di contributi. È una battaglia davvero storica, che ha messo a nudo la natura delle forze contrapposte, ma anche le falle di un sistema democratico in cui il peso anche mediatico ed elettorale dei diversi interessi organizzati è estremamente disuguale, determinato com’è dalla quantità di denaro che ciascuna organizzazione di interessi mette in campo. L’abbiamo potuto leggere chiaramente nello scontro per la riforma sanitaria, la prima battaglia storica sostenuta da Obama: la disuguaglianza sociale condiziona ancora, molto pesantemente, la democrazia americana. Nella sua Storia del popolo americano dal 1492 a oggi, Howard Zinn ha ricostruito con molta chiarezza questa costante della società americana che ha attraversato la discriminazione razziale e i conflitti sociali, fino ai grandi conflitti operai di inizio secolo. Ma oggi c’è un attacco al principale pilastro della società americana, quel ceto medio laborioso e creativo che ne costituisce storicamente la principale forza propulsiva. Obama incarna la possibilità di una risposta riformista e vincente. Così, lo sbocco della crisi globale è il terreno di un confronto di altissimo livello tra le tendenze democratiche più avanzate, anche sul terreno sociale e culturale, e le tendenze conservatrici della rendita e dei privilegi, della disuguaglianza sociale che domina il sistema finanziario ancora sotto il vessillo del «pensiero unico » ultraliberista. Quel vessillo che ha trionfato con Reagan e con Bush e che falsifica il pensiero liberale democratico anche di fronte agli effetti della attuale crisi. Il contrario avviene in Europa. Nel nostro continente la sinistra attraversa un periodo di afasia e non è stata in grado di presentare un’analisi esauriente della crisi e un progetto politico adeguato alla gravità delle sue conseguenze. Così, la sola risposta è stata l’intervento dei governi di fronte all’emergenza più evidente e immediata: il rischio di fallimento delle banche e le difficoltà finanziarie delle imprese maggiori.

Dopo questo intervento, mentre già molti intravedevano una luce alla fine del tunnel e facevano i conti di una ripresa produttiva considerata molto prossima – i più ottimisti parlavano in Italiano – le stesse forze che avevano generato la bolla speculativa davano il via a una ‘ripartita’ degna del Barça e intervenivano sugli indebitamenti degli Stati. A partire dalla Grecia, per minacciare Portogallo, Spagna e Italia. La crisi mostrava più chiaramente la sua natura ‘sistemica’, il suo carattere di crisi del modello capitalistico forgiato dal potere assoluto, senza regole e controlli, della finanza. Alla ‘ripartenza’ della speculazione corrisponde il coro degli economisti liberisti che «paventano» rivalutazioni dello statalismo di ispirazione socialista ed esondazioni del potere politico nei campi dell’economia. Così, di fatto, ripropongono il «pensiero unico» che ha già dato i suoi risultati più vistosi dal 2008 a oggi.

In «Mondoperaio» Covatta paventa «conclusioni affrettate sulla crisi del capitalismo». Ma non è forse lecito, da un punto di vista rigorosamente riformista, constatare che è proprio questo modello di capitalismo, proprio l’assetto geopolitico che esso ha imposto appoggiandosi alla forza economica, tecnologica e militare degli Usa, proprio la ‘rete’ di istituzioni che non garantisce né solidarietà né cooperazione, il ‘sistema’ insomma, così com’è ad imporre la necessità storica di una svolta?

Coloro che invocano a gran voce riforme radicali non tirano, caro Covatta, «conclusioni affrettate». E, aggiungo io, non sono certo preda di inconcludenti pulsioni morali, fondate su un’etica delle intenzioni avulsa dalla realtà. Al contrario sono loro che hanno il semplice coraggio di una constatazione realistica e di una adeguata scelta pragmatica. È, infatti, la stessa natura della crisi che ci pone di fronte a un bivio: o la continuazione di questa marcia insensata di un modello non sostenibile né socialmente – perché irrimediabilmente diseguale e condannato dal ‘corto circuito’ della compressione della domanda –, né ecologicamente – perché fondata su un abuso irrazionale di risorse e di ambiente. O un riequilibrio del rapporto di potere tra la politica e la finanza attraverso regole e controlli nazionali e sovranazionali, attraverso nuove istituzioni globali per il funzionamento di un multilateralismo cooperativo tra tutti i popoli e tutti gli Stati. Ora l’Europa di fronte alla tragedia della Grecia ha avuto un sussulto e ha saputo muovere qualche passo su questa seconda strada. Ha saputo opporre una decisione politica risoluta, nel senso della cooperazione e della solidarietà, allo scatenamento della speculazione. È un fatto positivo. Ma la dimensione in cui l’Europa deve muoversi non è solo quella dell’emergenza finanziaria che è un’inevitabile conseguenza della mancata crescita e dell’uso scriteriato delle risorse delle future generazioni: ristagno produttivo e accumulo di debito pubblico hanno strangolato la Grecia. E potrebbero strangolare altri Paesi tra cui l’Italia. Si ripropone, quindi, come ai tempi del Piano Delors o ai tempi del vertice di Lisbona, la questione essenziale di un nuovo e dinamico modello di sviluppo, di una capacità dell’Europa o della parte più avanzata di essa, di progredire insieme con una visione cooperatrice e un programma coraggioso. Si ripropone, cioè, nei fatti anche a livello europeo proprio quell’ipotesi di un rapporto di interazione efficace tra programmazione pubblica, uso razionale delle risorse e mercato competitivo. E la condizione è una scelta coraggiosa verso una coesione politica maggiore, capace di contenere e alla lunga sconfiggerei nazionalismi. È stata questa la scelta federalista dei maestri dell’europeismo come Spinelli e Delors, ma oggi

questa strategia, già sconfitta dal rifiuto francese dal progetto di Costituzione, è soffocata dal prevalere di vecchie e nuove forze nazionaliste e localiste. Ora si configura il rischio di un ritorno indietro con la riduzione dell’euro a una ristretta élite di Stati ricchi e il ritorno degli altri alle monete nazionali. Eppure un’equilibrata interazione tra politica ed economia è stata la base di esperienze molteplici nelle grandi democrazie europee, tanto da far parlare qualche anno fa di ‘modello scandinavo’ e di ‘modello renano’. E anche in Italia si avviò un confronto positivo su questo terreno ai tempi dell’‘economia mista’ e della ‘concertazione’. Tutte esperienze, oggi, affidate alla storia, ma che certo esprimevano, nel loro insieme, la necessità di stabilire in modo razionale, trasparente e democratico l’equilibrio tra l’uso delle risorse pubbliche, il sistema produttivo e finanziario, il lavoro, le esigenze di coesione sociale. E questa esigenza diventa via via più pressante di fronte alla scarsità di risorse naturali e alle condizioni ambientali provocate dal cambiamento climatico. Lo strumento necessario per soddisfarle è la programmazione democratica, condizione di un patto esplicito tra le forze sociali del lavoro, dell’impresa, della finanza, da gestire sempre in modo flessibile e con il massimo possibile di dinamismo. Credo che anche in Italia si ponga essenzialmente questa que-stione. Se si considerano le vicende e le discussioni degli ultimi giorni, si nota quanto rapidamente il polverone propagandistico dell’‘ottimismo a tutti i costi’ si vada via via diradando per lasciare il posto a un confronto più netto e chiaro di posizioni.

Nessuno può dissentire dall’esigenza del rigore finanziario che il ministro Tremonti va affermando. E a Tremonti va riconosciuto il merito di aver portato l’Italia in prima fila nella critica alla posizione dissennata della Merkel sulla necessità degli aiuti alla Grecia e sulla costituzione del Fondo europeo. Ma i meriti di Tremonti non vanno oltre. Quando Epifani, al Congresso della Cgil, in risposta a Tremonti ha affermato che il rigore va saldato a una strategia di sviluppo che faccia perno sul lavoro e sull’impresa, non solo per garantire l’occupazione, ma per puntellare le condizioni della crescita con il mantenimento della domanda interna, ritengo non facesse altro che interpretare nel modo più netto i più stringenti dati di fatto. Una strategia di sviluppo richiede coesione sociale e quindi una concertazione tra le forze sociali, una visione unitaria del sistema Paese che non offuschi la questione meridionale, una politica industriale fondata sull’innovazione e sulla qualità dei prodotti, un sostegno al credito per l’innovazione, una politica scolastica e formativa all’altezza del tempo presente, un intervento nazionale ed efficace, non puramente propagandistico, sulle infrastrutture e soprattutto sulle grandi reti di comunicazione, di mobilità, di approvvigionamento energetico. In questo elenco, che desumo anche dai documenti della Confindustria e delle associazioni delle Pmi, risuona l’eco di Lisbona e della strategia europea rimasta ancora sulla carta. Ma le delusioni e la necessità di una ‘ripartenza’ in Europa, non devono far abbassare la guardia alle forze riformiste in Italia. Alla posizione unilaterale e, in definitiva, sulla scorta visuale di Tremonti e di tutto il governo, si collegano gli ammonimenti liberisti contro il rischio delle ‘esondazioni’ politiche. Sono anch’essi di corta visuale. Le vere battaglie liberali contro i privilegi, le rendite di posizione, le chiusure corporative richiedono coesione e anche mobilitazione sociale. Al di fuori di questo si predica in lingua liberale, si agisce con risultati corporativi: com’è accaduto così a lungo e come accade tuttora oggi in Italia.

Nella stessa direzione vanno le chiusure localistiche di quei settori della Lega ancora convinti che un pezzo d’Italia possa salvarsi da solo e rifiutano una strategia di sistema nazionale. Rifiutare questo localismo unilaterale, miope e destinato a tagliarci fuori dai processi storici del nostro tempo ci pare assolutamente necessario, tanto più che essa pesa come un macigno sull’intero governo di centrodestra. Ma ciò non significa rifiutare un confronto serio sul federalismo. Siamo, infatti, tra coloro che ritengono auspicabile una soluzione federale fondata, però, su un nuovo patto di solidarietà e di collaborazione tra Nord e Sud.

D’altra parte è del tutto evidente che i ritardi di un discorso finalmente concreto e conclusivo sul federalismo fiscale e il permanente disagio a discutere charamente sui numeri e sul livello dei servizi pubblici segnalano una permanente ostilità a quel patto. È ben altro il federalismo a cui continuano a pensare i gruppi prevalenti nella congerie rissosa del governo di Berlusconi.

Ancora una volta si afferma la tendenza a partire proprio dallo squilibrio drammatico tra il Nord che guarda all’Europa industrializzata e il Sud che guarda all’altra riva del Mediterraneo per imporre una prospettiva separatista ancora più rigida che rappresenterebbe la rottura dell’unità nazionale. È questo il frutto avvelenato dell’egemonia che la Lega è riuscita a costruire nella babele di linguaggi che ritroviamo nel centrodestra.

Sono, dunque, numerose e forti le posizioni che rendono difficile affrontare la crisi con l’equilibrio e la razionalità necessari. Ma possono essere forti anche le esigenze culturali, sociali e politiche di cui si sono fatte portatrici le forze di centrosinistra e il movimento sindacale, solo che si superino la vocazione alla segmentazione e alla contrapposizione di ristretti interessi personali e di

gruppo. Solo che si ricominci a fare politica con la consapevolezza della gravità dei problemi sociali, economici istituzionali.

Sì, la crisi è in una fase nuova, in cui più chiare sono le conseguenze sociali. Questa fase nuova va affrontata con un progetto complessivo di riforma del modello di sviluppo che non si limiti a considerare l’emergenza, ma guardi davvero lontano nello spazio e nel tempo. Da questo deriveranno, razionalmente, le scelte tattiche e le alleanze. Non può essere il contrario. Repetita Juvant: mettere il carro innanzi ai buoi, parlare degli strumenti prima che degli obiettivi, come si riducono a fare alcuni settori del Pd, è una miopia politica paralizzante. Il contrario della teoria e della prassi del riformismo socialista.

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