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Dio e 

la macchina

 

di Massimo Donà

1) Quello delle religioni del Libro è un Dio intriso di ‘passioni’. E’ un Dio che ama, punisce e gioisce, un Dio sempre e comunque rivolto a noi. Che ci guarda attento – anzi, che tutti ci ri-guarda intimamente. E’ un Dio che l’anima riconosce come vivente e pulsante in se medesima, nel suo fondo più abissale; interior intimo meo, lo definiva Agostino.  

E’ un Dio che sceglie il proprio popolo, che si fa uomo – che si rivela nella storia; e agli umani, appunto, destina la terra.

Ma c’è un altro Dio; quello che i Greci faticavano a ricondurre all’umano in senso proprio; si pensi ad esempio alla critica rivolta da Senofane all’antropomorfizzazione del divino operata sino ad allora dagli esseri umani. 

Vissuto tra il VI e il V secolo a.C., egli avrebbe aspramente criticato Omero ed Esiodo per aver attribuito agli dèi tutto quanto presso gli uomini veniva fatto oggetto di onta e biasimo. E lo rilevava con la massima chiarezza: i mortali appaiono inspiegabilmente convinti che gli dèi siano fatti a loro immagine e somiglianza; ma se i buoi, i cavalli e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò che gli uomini sanno fare, i cavalli disegnerebbero figure di dei simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come ciascuno di loro è foggiato.

Per Senofane, invece, si può solo dire che Dio è uno; uno, tra gli dèi e tra gli uomini; il più grande, né per aspetto simile ai mortali, né per intelligenza.

D’altro canto, nel mondo greco, la religione olimpica avrebbe sempre più radicalmente lasciato spazio all’idea di un divino concepito appunto come unica realtà: to theion. Primo teologo fra i filosofi, dunque, Senofane. Che intorno a Dio ragiona in forma specificamente razionale. Rilevando in primis come il Principio, sempre nell'identico luogo in verità permanga, senza muoversi per nulla; come neppure gli si addica recarsi or qui, or là. 

Certo Dio tutto muove, sempre per Senofane – primo inquieto rappresentante dell’eleatismo. Senza fatica, con la sola forza del pensiero, tutto smuove il suo Dio. Ma anche tutto intero vede, tutto intero pensa e tutto intero ode. Allo stesso modo nessuno può averlo mai incontrato, né colto – ché, nulla di propriamente divino vi sarebbe, per l’eleate, nell’orizzonte delle manifestazioni naturali. 

La divinità impersonale di Senofane, insomma, non aiuta in alcun modo gli umani; che possono confidare solo nelle proprie forze. D’altro canto, per lui l’uomo è autonomo e perfettamente responsabile della propria conoscenza, ossia del grado di perfezione di volta in volta raggiunto.

Un vero e proprio antecedente del Dio aristotelico è dunque quello di Senofane; motore immobile da nulla sedotto. Imperturbabile, impersonale, anche il Dio dello Stagirita, infatti, governa l’universo come un motore governa il movimento di una macchina. 

“Il primo motore muove come ciò che è amato, mentre tutte le altre cose muovono essendo mosse” (Metafisica, 1072 b). 

Muove, cioè, ma non come il Dio-amore immortalato da Dante: “l’amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso, Terza Cantica, Canto 33°, verso 145). E’ ben vero che qui Dante sembra parafrasare Aristotele; ma in verità il suo Dio è innanzitutto “amore”. E dunque non muove tutto come l’indifferente motore aristotelico, al quale nulla interessa delle sorti degli umani (come già accadeva al Dio epicureo); amato e non amante è infatti un tale Dio. Pensiero impassibile che riesce a pensare solo a se stesso. Perfettissimo e dunque rigorosamente estraneo alle vicende cosmiche. Ovvero, alla loro faticosa vicenda millenaria, alle imperfezioni costituenti e caratterizzanti  il loro procedere, al ‘limite’ insuperabile di cui fa esperienza il suo più insigne abitatore e testimone: l’essere umano. 

Pensiero di pensiero; sempre identico a sé, il Dio greco governa un universo di fatto concepito come una vera e propria macchina. 

Anche il motore di qualsivoglia macchina, infatti, muove i diversi ingranaggi senz’altro scopo che non sia il già da sempre realizzato suo essere quel che è. Puro principio di movimento. Per ciò stesso immobile. Se anch’esso si muovesse, infatti, ci si dovrebbe porre il problema del principio di un tale movimento; e dunque si dovrebbe riconoscere che esso non è Dio, l’eterno, il perfettissimo; ma un semplice derivato – in quanto ‘mosso’ esso medesimo da un altro motore. 

Il principio di ogni movimento, dunque, non può essere mosso. Il principio di ogni mutamento non può mutare. Perciò Dio deve essere concepito come eterno, immobile, impassibile, impersonale, e dunque come perfettamente autonomo. Principio a se stesso. Causa sui, sarebbe stato anche definito.

Eppure nel ragionamento di Aristotele qualcosa sembra non quadrare sino in fondo. Infatti, solo in quanto causa del movimento universale, un tale Principio può dirsi autonomo, indipendente; libero dal mondo. Da un mondo esso sì, invece, assoggettato al suo imperium. 

Eppure, come sarebbe stato messo in evidenza da Hegel, qualche secolo più in là, un principio fungente da dominus, ovvero da padrone, non può che rivelarsi esso medesimo servo del proprio servo. Perché chi si ritiene libero per essersi svincolato da altro, per essersi mostrato movente e non mosso, ed è dunque reso libero dal tipo particolare di rapporto realizzato con il proprio altro, è fatto essere libero nel rapporto e per il rapporto da esso per l’appunto realizzato. E’ il rapporto, cioè, a renderlo libero… il suo rapporto con un altro. Quel rapporto che fa di esso medesimo ‘un altro’. 

Ma l’altro in quanto altro non può mai dirsi “libero” in senso proprio; se non per il tipo di relazione guadagnato in rapporto a questa o quella alterità. Ossia è libero solo condizionatamente al tipo di rapporto realizzato. Per questo nessun rapporto può rendere davvero liberi; se per libertà si intende una condizione di non asservimento a questa o quella realtà, infatti, tale condizione e il suo mantenimento “dipendono” in toto dall’eventualità costituita dal mantenimento dell’altro in tale condizione di asservimento o dipendenza. Insomma, la libertà dell’uno ‘dipende’ in toto dal mantenersi tale da parte della dipendenza altrui. Insomma, tale libertà ‘dipende’. E dunque non è affatto libera dalla dipendenza.

Tale libertà dipende dalla dipendenza. E dunque è essa medesima “dipendente” – proprio come quella da cui vorrebbe essersi liberata. O meglio: si illude, forse, d’essersi liberata.

Il motore immobile, quindi, è solo apparentemente libero e auto-nomo. La sua ‘legge’ è l’altro, ossia, ciò che esso muove – ciò senza il cui movimento esso non sarebbe davvero ciò che è: ossia ‘motore’. Il motore vive sempre e solamente per la sua macchina. A nulla è asservito, certo, il suo muovere; ma nulla sarebbe, esso medesimo, di là da tale movimento, e dunque di là dall’esser mosso da parte di ciò che esso muove. Di là dal complesso ingranaggio di cui esso funge appunto da principio. 

Certo, esso non ad-tende ‘amorevolmente’ alla sua macchina; e dunque rimane perfettamente indifferente rispetto allo stato di salute del ‘per esso moventesi’. Di ciò che per esso, solamente, esiste. Dunque, tutto il resto vive e si muove, e quindi esiste come tale solo grazie alla sua potenza motrice. 

Ma non in quanto amato da quest’ultima. Essa muove infatti solo in ragione della propria perfezione. O anche, del proprio esser se medesimo. 

Proprio in quanto perfetto, il motore muove; esso non muove, cioè, muovendosi – come farebbe qualsiasi determinazione mondana o in qualche modo determinata, finita o vivente. Esso muove per il semplice fatto di essere ciò che è. 

Il Dio aristotelico, insomma, è immobile solo in forza del movimento che pro-duce e che, solo, gli consente una perfetta immobilità. E’ cioè il movimento dell’altro da sé a garantirgli la perfezione; una perfezione, dunque, tutt’altro che autonoma. Anzi, totalmente dipendente da quel movimento. Quello che gli consente appunto di non mutare. 

Essa risulta infatti da un’analisi del moventesi, ossia della natura, della physis, quale sua imprescindibile condizione di possibilità. E’ il movimento, cioè, che la reclama e la esige. Perciò si può dire che, da ultimo, essa venga fatta essere dal movimento. Ossia da ciò che essa medesima non-è. 

Veramente libero è dunque solo il Dio concepito dalle grandi tradizioni monoteiste; libero perché non condizionato dal muoversi del moventesi. Perché libero di non far essere il movimento. Di non far essere l’esistente. Un Dio che potrebbe sempre riconoscersi anche ‘solo’. Un Dio che tutto muove ‘muovendosi’. Come ogni movente finito e contingente. Che ama e odia; che giudica condannando e premiando. Che salva per un  intervento diretto nella storia. Sia nell’ebraismo che nell’islamismo, così come anche nel Cristianesimo, le cose stanno così. Un Dio tutt’altro che indifferente o impersonale è dunque il loro; un Dio che interloquisce – sia pur in forma enigmatica – con gli umani e con le cose tutte. 

Che si muove, però, pur essendo nello stesso tempo anche perfettamente immobile – a differenza dei motori umani, troppo umani, di cui è costellato questo mondo. E che muovono solo muovendosi, sì da veder necessariamente naufragare ogni loro supposta perfectio.

Il Dio dei tre grandi monoteismi si com-muove al cospetto delle meraviglie dell’esistente. E delle sue storture. E’ un Dio che si commuove di fronte alle sventure di cui è costellato il nostro infimo atomo opaco del male. E’ un Dio che garantisce un fine, e dunque un senso, al movimento infinito che tutto travolge – a nulla consentendo di ‘stare’. Un fine che è la sua stessa libertà. Quella caratterizzata appunto da una perfectio che è davvero singolare; perché analoga a quella che in ogni esistente si sviluppa e si misura in relazione ad una imperfezione ivi comunque sempre perfettibile; che si perfeziona, cioè, guardando alla sua libertà. Ad-tendendovi irresistibilmente. Che non ha però in tale fine un ‘destino’; bensì una semplice ‘possibilità’. 

Laddove, l’esistente del kosmos aristotelico ha invece nel proprio motore una ragione assolutamente necessaria; che è invero esso medesimo a fondare ed esigere secondo necessità. 

Insomma, mentre il Dio di Aristotele è la permanenza che riflette e disegna le ragioni dell’esistente, quello dei grandi monoteismi è un Dio in cui l’esistente trova piuttosto la condizione di possibilità di un’esistenza incessantemente sospesa alla sua (di quello stesso Dio) assoluta libertà. 

Perciò nessun meccanicismo avrebbe mai potuto soddisfare le esigenze di una vera e propria religione della libertà. Di là da eventuali accordi tra scienza e fede – come quelli che non di rado hanno cercato di spartirsi l’ambito del definibile –, nessuna idea di mondo-macchina avrebbe mai potuto realmente conciliarsi con le ragioni di una vera e propria religione della libertà. Ovvero, della fede in un Dio inteso come principio ‘libero’. Perché nessun Dio libero può fungere da principio di un mondo-macchina, a meno che questa stessa macchina non riconosca il proprio necessario condizionamento. 

Ma la macchina in quanto macchina, come abbiamo appena visto, è essa medesima a condizionare il proprio principio. Sì che riconoscere un principio libero significherebbe per essa non avere più nel principio ciò che giustifica il proprio altrimenti inspiegabile movimento, ma piuttosto ciò che potrebbe anche svelare la costitutiva insensatezza e irragionevolezza della propria dinamicità, e dunque della propria esistenza. Perché il riconoscersi come “macchina” implica necessariamente la consapevolezza dell’imprescindibilità del principio di causa. 

Nella macchina, infatti, ogni movimento è logicamente riconducibile ad una causa (ad un movente, un motore). Non avremmo a che fare con una macchina, insomma, se negli ingranaggi costituenti quel determinato organismo vitale e dinamico non riuscissimo a riconoscere i nessi causali che consentono di comprenderne il funzionamento. La macchina infatti funziona. E il suo movimento è meccanico solo in quanto è articolato secondo ben precisi nessi causali – tali per cui tutto sia infine riconducibile ad un motore primo. Da ciò la possibilità di ripararne gli eventuali guasti. La macchina, infatti, può sempre anche rompersi; nella misura in cui il suo perfetto dinamismo può appunto sempre inter-rompersi. 

Ma anche qui: se si tratta di una macchina è sempre possibile, in linea di principio, cercare di ripararla. Ovvero, di ripristinare i legami infranti. Di rimettere in moto la sua dinamica; appunto perché è la macchina a dominare la logica e il principio che la rende possibile. La macchina si sa come tale solo perché è nota, nel suo dominio, la logica che ne sovrintende il funzionamento; la stessa che le ha consentito di poter contare su quel certo principio. Perciò chi conosce la macchina conosce necessariamente anche la natura del suo motore. Essendo quest’ultimo nient’altro che l’ultima espressione di una logica grazie a cui, solamente, la macchina può riconoscersi come macchina. E non a caso quando si rompe, ossia quando vengono meno alcune delle connessioni causali che la fanno essere appunto quella macchina che è, di sicuro la macchina si ferma; ma la sua fissità non ha allora nulla a che fare con quella che abbiamo visto dover essere necessariamente attribuita al motore. Si ferma e non muove più nulla, infatti. 

L’immobilità della macchina non ha insomma nulla a che fare con la fissità del motore. Mentre la prima non muove alcunché, la seconda muove il tutto (della macchina). Perciò la fissità della macchina ferita può-deve essere ‘superata’ e in qualche modo risolta. E rimessa in moto. Tanto è vero che nessuna macchina può essere riconosciuta come tale se non nel suo essere in movimento. Perciò la macchina a riposo non è mai realmente valutabile e chiaramente riconoscibile. La macchina ferma può sempre ingannare. Perché rende inevitabilmente azzardato il proprio riconoscimento. La macchina a riposo potrebbe sempre non essere una macchina. E’ solo il movimento a renderne riconoscibile l’essere macchina; perciò il motore deve essere in funzione; ossia deve muovere in quanto riconosciuto come tale nel e per il movimento della macchina. 

In questo senso il motore è davvero parte integrante della macchina. Da cui è peraltro ‘fatto essere’ come tale. Perciò la sua necessaria fissità è la fissità del permanente. Ovvero, di ciò che appare come tale solo alla luce del movimento di cui è ragione. Perciò il suo permanere è misurabile solo alla luce del divenire di cui è originaria condizione di possibilità. Perciò la sua eternità è il suo semplice durare nel tempo. Il suo rimanere sempre uguale a sé nel movimento, nel divenire – che, solo, può rendere attestabile il suo non mutare, il suo non trasformarsi. 

Mentre la fissità del Dio rivelato, la fissità della sua libertà allude ad un eterno che nulla ha a che fare con il tempo. E dunque con la permanenza. Il Dio libero, in questo senso, non dura affatto. E’ al di là di ogni durata. E se si manifesta, se si ri-vela, può farlo solo nell’inafferrabilità dell’istante – che dice in quanto tale negazione della durata, ovvero la sua krisis più radicale. 

 

 

 

2) Ma un principio che ‘sta’ o ‘permane’ solo nel senso del durare, è un principio ormai tutto risolto del principiato. E che fa del principiato stesso ‘il vero principio’: ovvero, l’orizzonte intrascendibile che, solo, può dirsi principio a se stesso. 

Nell’orizzonte del mondo-macchina, divino non può che essere il mondo stesso. Perciò la prospettiva meccanicistica non poteva non sancire il tramonto degli immutabili; o meglio dell’immutabilità del principio, qualsiasi dovesse essere la sua forma specifica. Perciò la fede nella macchina, o meglio la fede nell’esser macchina da parte dell’esistente non poteva che condurre all’assolutizzazione del divenire. E quindi del principiato. Risolvendolo in principio di sé medesimo. Perciò proprio l’ontologia nietzschiana rappresenta l’estrema rigorizzazione del cosmo galileiano. E della sua visione meccanicistica. Perciò Nietzsche è il vero destino della scienza moderna. Perciò egli avrebbe potuto risolvere l’esperienza ontologica fondamentale in un essere ormai fatto coincidere con il divenire.

Perciò il falsificazionismo contemporaneo avrebbe finito per svelare la propria costitutiva attitudine alla divinizzazione del mondo. Ossia, alla divinizzazione della macchina in quanto macchina.

Perciò scienza e fede continuano inutilmente a tentare improbabili conciliazioni. 

Perciò l’umanità contemporanea, radicata com’è nella fede in una logica rigorosamente causale – senza la quale sarebbe costretta a farsi una ragione dell’irrisolvibile enigmaticità dell’esistere, e dunque ad affidarsi alla libertà di un solo ‘possibile’ Principio  –, avrebbe finito per produrre una vera e propria superstizione della macchina. Di ogni tipologia di macchina. Sì da fare della macchina l’unico vero totem giustificamente adorabile, in quanto cifra della sua stessa perfetta autonomia. 

Se il mio esistere è principio a se stesso, divina è la macchina che anch’io sono, in quanto ragione di qualsivoglia principio necessario a spiegarmi – o meglio, a spiegare il mio altrimenti insensato muovermi, ad-tendere, desiderare, ovvero il mio esistere tout court. 

Perciò adorare la macchina significa credere nella autonomia, ossia nella divinità del divenire, del movimento, e quindi dello stesso esistere processuale.

Perciò nessun vero cristiano, nessun vero musulmano, nessun vero ebreo potrebbe-dovrebbe adorare la macchina. E vedere nella macchina lo specchio fedele della propria improbabile autonomia. 

Perciò, credere nella macchina significa non tanto essere radicalmente atei; quanto piuttosto credere nella divinità del nostro stesso esistere. E adorarla nella forma oggettivata che ogni macchina riesce a proporci. 

Da ciò il ruolo sempre più rilevante, nell’età contemporanea, delle diverse possibili oggettivazioni dell’esser macchina della macchina. Dal treno all’automobile, dalla nave all’aereo… tutte icone della fede nell’intrascendibilità del movimento. Del suo riconoscersi come principio a se stesso; come principio del suo stesso principio. 

Perciò l’uomo contemporaneo ha fame di movimento; e difficilmente riesce a ‘stare’. Difficilmente è contento del proprio ‘stare’. E viaggia, si propone mete da raggiungere, e sempre agisce. 

Solo l’uomo contemporaneo avrebbe potuto fare dell’azione la propria prima ragione esistenziale; solo nell’epoca di Goethe si sarebbe potuto azzardare una così radicale traduzione dell’incipit giovanneo: in principio era l’azione. Ad agire è infatti sempre colui il quale si sa come moventesi; a fare dell’agire stesso il principio della propria esistenza non può che essere, insomma, l’uomo macchina portato alla luce dalla modernità. Da una modernità vocata al “rendere ragione”,  una modernità finalmente capace di portare a fondo una logica come quella strutturante il rapporto principio-principiato – una logica da sempre fondata sulle ragioni del principiato.

Una logica che avrebbe finito per informare di sé anche i rari tentativi di pensare Dio a partire da Dio (come quello, peraltro stra-ordinario, messo in forma da Sant’Anselmo nel Proslogion). E dunque per destinarli ad una costitutiva aporeticità.

Ecco da dove viene il contemporaneo assillo della macchina, nonché della velocità da essa resa quotidianamente sperimentabile.  Ecco da dove il culto dell’automobile; quale simbolo perfetto dell’homo novus, autonomo… che a nulla e a nessuno è davvero più tenuto a render conto. Di un uomo finalmente trasformatosi in divinità, e che proprio per ciò di tutto può o deve in qualche modo esser in grado di render ragione.

Da ciò il culto per la macchina come simbolo di divinità e dunque di bellezza – stante che da sempre il verum è stato anche pulchrum. La macchina è vera macchina, infatti, solo in quanto capace di esprimere bellezza e splendore; in quanto espressione di un gusto universale, e per ciò stesso da tutti riconoscibile. Di un gusto tanto più vero quanto più universalmente riconoscibile. Di una bellezza davvero valida per tutti – che proprio perciò rende inequivocabili testimoni della divinità che comunque in noi finisce per esprimersi. 

Il bello è vero in quanto capace di imporsi al riconoscimento collettivo; in quanto la sua verità non si ritrovi costretta al semplice autoriconoscimento. Ché, ogni esistente è macchina; e dunque ogni divino meccanismo deve potersi riconoscere nello splendore di questa o quella sua immagine. 

D’altro canto il Novecento è stato il secolo della motorizzazione di massa; perciò proprio nella macchina si sarebbe stati destinati a riflettere il livello di consapevolezza di una già posseduta e comunque “difficile” divinità. Da ciò il bisogno di renderla bella in relazione al grado di consapevolezza relativo al proprio statuto. Alla propria autonomia. 

Enzo Ferrari l’aveva ben compreso; la macchina deve essere sì funzionante, efficace, veloce… ma soprattutto ‘bella’. Sì da lasciar trasparire con la massima potenza il proprio insostituibile valore simbolico.

Perché, l’automobile che sfreccia sulla strada è il divino stesso che attraversa la nostra peraltro ineliminabile finitezza. D’altro canto, la nostra è una macchina che può sempre anche rompersi. Non è perfetta, dunque. Per quanto ragione di tutto, anche del proprio motore, essa deve sempre esser pronta a ripararsi, deve sempre disporsi a risanare le proprie ferite. 

Perciò, vederla scorrere veloce davanti ai nostri occhi, è come vedersi riflessi in uno specchio capace di ricordare la “vera” macchina – quella che è sì vivente in ognuno di noi, ma che solo in quanto totalità delle esistenze, in quanto incondizionata esistenza universale (dove, però, l’universale non si distingua più dall’individuale), può sapersi nella sua verità… di là dalla presunzione del singolo e della sua immagine motorizzata. Che, certo, sempre della medesima divinità finisce per farsi immagine; ma in forma particolare, limitata e dunque solo relativamente ‘bella’. Mai capace di essere la divinità che comunque sa di ‘dover’ essere. 

Perciò ad Enzo Ferrari mai riuscì di dirsi pienamente felice. Perciò i suoi immancabili occhiali scuri non erano affatto un vezzo; ma dovevano piuttosto nascondere una tragica consapevolezza. Per quanto realizzato, mitizzato, egli appariva infatti perfettamente consapevole del dolore di un’esistenza che, proprio in quanto divina, autonoma, realizzata, mai avrebbe potuto essere ‘da sola’ conforme alla propria peraltro indiscutibile perfectio. 

Questo viene cioè reso evidente dalla potenza della “macchina”: che, proprio in quanto divino, il mortale è destinato ad essere perpetuamente impari rispetto alla propria verità. Che, proprio in quanto originariamente infinito, mai al finito sarà dato d’essere soddisfatto della bellezza (sempre ‘finita’) di volta in volta guadagnata. 

E che, dunque, solo nel dolore da ciò provocato abita invero la perfezione che ogni imperfetto è indefinitamente destinato a ricordare e disperatamente ricercare.

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