top of page

L’ultima Enciclica e l’economia

 

di Silvano Andriani*

Nell’Enciclica vi sono alcuni punti di riferimento che penso siano molto importanti per un credente, per me che non lo sono resta la condivisione dell’idea che anche la lettura di quanto accade nel nostro tempo debba avvenire a partire da un sistema di valori che culminano nella convinzione che obiettivo principale della crescita economica sia lo sviluppo umano integrale delle persone. Perciò devo notare una no- notevole convergenza di quanto io penso con le tesi dell’Enciclica.

V ciclica. Vorrei limitarmi a qualche osservazione su temi che considero particolarmente significativi. Non sono convinto che il difetto principale della visione che ha guidato lo sviluppo economico negli ultimi trenta anni sia un’eccessiva fiducia nella tecnica. Certamente esiste il problema dell’uso della tecnica e della scienza, ma ciò che ha caratterizzato il «pensiero unico» dominante negli ultimi trenta anni è, a mio avviso, un’eccessiva fiducia nel mercato non nella tecnica. Si tratta di un pensiero non nuovo che affonda le sue radici nell’Ottocento, si chiamava «utilitarismo», è partito da Bentham ed è arrivato alla signora Thatcher Thatcher, che, come è noto, più volte ha affermato di ritenere che la società non esista e che esistano soltanto gli individui. Del resto la teoria economica «neoclassica» è stata dominante in buona parte del Novecento. Per essa il mercato perfetto è costituito solo da individui uguali, cioè dotati delle stesse informazioni e dello stesso potere d’acquisto, che agiscono  razionalmente con motivazioni esclusivamente economiche. È chiaro che un mercato siffatto sarebbe un perfetto allocatore delle risorse, sempre migliore dello Stato, in grado di recuperare l’equilibrio in qualsiasi situazione e di autoregolarsi. Attraverso i suoi meccanismi, il perseguimento da parte degli individui del proprio tornaconto si tradurrebbe automaticamente nel bene comune.

Tale visione non è un’approssimazione alla realtà, ne è invece un travisamento, ed è evidentemente ideologica: come l’Enciclica ci ricorda, i mercati sono entità storicamente determinate, che risentono della struttura sociale, della  cultura e delle leggi esistenti; la loro conformazione e il loro funzionamento sono influenzati dalla distribuzione del reddito e dal modo concreto nel quale l’economia è strutturata dal sistema delle imprese. E le motivazioni all’agire delle persone non sono solo economiche e non sono sempre razionali.

Quell’approccio è stato già clamorosamente e tragicamente smentito nel Novecento, la cui storia è segnata da grandi crisi finanziarie ed economiche e da guerre influenzate anche dall’andamento dell’economia. Esso fu gradualmente superato mentre si affermava un nuovo pensiero, quello che fu alla base della creazione dello «Stato sociale»; ma l’approccio liberista è disgraziatamente tornato in auge negli ultimi trenta anni a dimostrazione del fatto che non sempre siamo disposti ad apprendere le lezioni della storia. Il risultato di questo ritorno è stato un generale aumento delle disuguaglianze e il conseguente aumento della le concentrazione della ricchezza, il che, tra l’altro, ci allontana ancora di più dall’idea di un mercato perfetto dove tutti dovrebbero essere uguali. Poiché, tuttavia, nei Paesi ricchi l’aumento delle disuguaglianze impatta su società fortemente segnate da ideologie consumiste, il risultato è stato che la maggioranza della popolazione è stata indotta a indebitarsi fortemente.

Questo è avvenuto particolarmente in un gruppo di Paesi ricchi a modello anglosassone che sono vissuti per molti anni al di sopra dei propri mezzi indebitandosi pesantemente sull’estero da ultimo, ed è la prima volta che accade nella storia economica, indebitandosi verso Paesi relativamente poveri, Cina in testa. Paesi poveri che prestano denaro a quelli veri, ricchi: questa realtà evidenzia un meccanismo distributivo immorale e, alla lunga, insostenibile e questo enorme processo di indebitamento è stato la condizione oggettiva che ha favorito gli eccessi della finanza che hanno innescato la crisi economica in atto.

Ci si potrebbe porre tre domande:

• perché gran parte delle famiglie nei Paesi ricchi, e soprat- soprattutto

nei Paesi anglosassoni, si è così fortemente indebitata?

• perché un Paese relativamente povero come la Cina ha un tasso di risparmio mostruoso giacché risparmia oltre il 50% del prodotto lordo secondo i dati ufficiali?

• perché esso destina una parte consistente dei propri risparmi non al miglioramento del benessere dei propri cittadini, ma al finanziamento della insensata crescita consumi di Paesi ricchi?

Non è qui il caso di analizzare i meccanismi che portano a questi risultati paradossali, ma essi tutti hanno origine da una iniqua distribuzione del reddito e della ricchezza. Sicché i fatti dimostrano ancora una volta che una cattiva distribuzione ti pone non solo problemi etici, ma anche problemi di funzionalità dei sistemi economici giacché la crescita delle disuguaglianze pone ostacoli a una sana crescita della domanda e la concentrazione del reddito e della ricchezza in una ristretta fascia della popolazione impedisce a una crescente parte della popolazione di realizzare le proprie capacità e, di conseguenza, rende più inefficienti le società e i mercati.

La teoria economica «neoclassica», poiché parte dall’assunto di un mercato composto solo da individui, ha sempre avuto difficoltà a spiegare l’esistenza delle imprese, che sono forme organizzative della società. Nella sua nuova, recente versione ha tentato di superare tale ostacolo negando che l’impresa sia una forma di organizzazione della società e sostenendo che essa sia un semplice nesso di contratti individuali, che possono essere sciolti in qualsiasi momento e che tutti, però, fanno capo a un soggetto coordinatore: il capitale finanziario. Spetterebbe dunque a quest’ultimo il governo dell’impresa il cui unico scopo sarebbe allora quello di «produrre valore per gli azionisti», cioè profitti, secondo la formula che si può ancora leggere nel codice di autodisciplina delle imprese italiane. Per dirla con la frase icastica del premio

Nobel Milton Friedman, leader della scuola di Chicago, mio «The business of business is business ». Secondo questo modo di vedere qualsiasi idea di responsabilità sociale dell’impresa è da considerare eversiva, giacché l’impresa esaurirebbe la sua funzione sociale generando profitti. Questa visione dell’impresa, detta « shar shareholder value eholder », è diventata dominante negli ultimi due decenni e ha determinato il modo in cui le imprese sono state governate.

I grandi scandali societari scoppiati all’inizio del decennio in corso e la crisi finanziaria hanno messo in evidenza generalizzati comportamenti sostanzialmente immorali, quando non criminali, da parte delle imprese, che sono causa non ultima della crisi che stiamo attraversando. Ora quella teoria, « shar shareholder value eholder », è stata rinnegata da tutti, ma nei fatti continua a operare. Non che manchino imprese che hanno scelto un approccio a responsabilità sociale, anzi esiste un’organizzazione mondiale di tali imprese, ma la gran maggioranza di esse è condotta dal capitale finanziario nel proprio interesse.

L’enciclica nel paragrafo 36 affronta esplicitamente il tema del rapporto fra etica ed economia e si pone l’interrogativo se si debba considerare lo Stato il luogo della redistribuzione e dell’eticità mentre l’economia sarebbe il luogo dell’egoismo e del tornaconto personale. La risposta è chiara:

 

… va tenuto presente che è causa di gravi scompensi separare l'agire

economico, a cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da

gire quello politico, a cui spetterebbe perseguire la giustizia mediante

la redistribuzione … la dottrina sociale della Chiesa ritiene che

possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia

e di socialità, di solidarietà e di reciprocità anche all’interno

dell’attività economica e non solo fuori di essa… .

… anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica

del dono come espressione della fraternità possono e devono

trovare posto entro la normale attività economica.

 

L’enciclica sembra escludere anche che l’eticità dei comportamenti nell’economia possa affermarsi semplicemente attraverso il volontariato, con la costituzione di un «terzo set- traverso settore», per quanto esso sia molto valorizzato. Questo, infatti, resignificherebbe dividere la società e l’economia compartimenti stagni in uno dei quali, quello nel quale i rapporti di scambio non sono finalizzati al profitto o addirittura i rapporti economici non sono rapporti di scambio, varrebbero porti rapporti umani di solidarietà, mentre nell’altro, che poi sarebbe comunque di gran lunga il più grande, varrebbe la legge del proprio tornaconto. Perciò suscita qualche dubbio l’affermazione, contenuta nello stesso paragrafo 36 che Io ritengo che il problema sia capire come indurre a comportamenti etici in un sistema economico nel quale i rapporti di scambio sono orientati anche al profitto. E questo non può essere solo il risultato di comportamenti individuali. La stessa Enciclica aveva in precedenza affermato che voler volere il e bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità carità. Considerando i rapporti di scambio, bisognerebbe innanzitutto chiedersi come si realizza in essi la giustizia.

 

Per esempio: quale è la giusta distribuzione fra capitale e lavoro?

A questa domanda il riformismo di orientamento socialdemocratico aveva dato una risposta chiara: la politica dei redditi. Il maggior prodotto derivante dal miglioramen- miglioramento dell’attività produttiva doveva essere ripartito fra capitale e lavoro attraverso un collegamento sistematico delle le retribuzioni alla dinamica della produttività del lavoro. Dopo  l’affermarsi del pensiero e delle politiche liberiste si è tornati a considerare il lavoro come una merce – il che, secondo l’Enciclica, è immorale – il cui prezzo è determinato dal apporto fra domanda e offerta, mentre, a causa dei processi di porto liberalizzazione, l’offerta di lavoro gradualmente raddoppiava per l’ingresso nel mercato mondiale di centinaia di milioni di nuovi lavoratori. Il risultato è stato, nei Paesi avanzati, la stagnazione delle retribuzioni, l’aumento delle disuguaglianze e della concentrazione della ricchezza con le conseguenze in precedenza richiamate.

Credo che l’incorporazione di comportamenti etici nell’economia non possa prescindere dall’affermarsi di una diversa visione dell’impresa, una visione per la quale l’impresa sia considerata come una struttura sociale il cui scopo non sia semplicemente di valorizzare il capitale finanziario, ma quello di valorizzare tutti gli asset in essa presenti, naturalmente, il lavoro e debba con le sue strategie di sviluppo trovare un equilibrio fra gli interessi di tutti soggetti che a essa fanno riferimento: capitale finanziario, lavoratori, consumatori, fornitori, creditori, comunità locali nel cui territorio le aziende insistono. Sono d’accordo con l’Enciclica che sia di fondamentale mportanza valorizzare il lavoro, giacché la collocazione delle persone nella divisione sociale del lavoro è un tratto determinante della loro identità. Ed è anche il terreno sul quale soprattutto le persone possono realizzare le proprie capacità, ineludibile di uno sviluppo umano integrale. La rivoluzione tecnologica basata sull’informatica crea le condizioni oggettive per un processo di liberazione del lavoro, ma il fatto che, come mostrano recenti ricerche, nel Paese tecnologicamente più avanzato, gli Usa, neanche le figure più tipiche dell’economia della conoscenza hanno beneficiato, con apprezzabili aumenti di reddito, del rilevante aumento della produttività verificatosi negli anni precedenti la crisi, mostra che le potenzialità contenute nell’economia della conoscenza sono compresse dalla scelta di modi di produrre orientati al breve termine in quanto orientate esclusivamente a produrre profitti.

La sinistra storica ha ritenuto che la liberazione del lavoro potesse avvenire istantaneamente attraverso una misura giuridica: la socializzazione dei mezzi di produzione. Il risultato inevitabile è stato la concentrazione del potere nelle mani di una burocrazia. Ciò che andrebbe socializzata invece è la conoscenza.

Si tratterà di un processo di lunga durata, ma per il quale la rivoluzione informatica sta creando i presupposti.

Importante è adottare modi di produrre che favoriscano la crescita della capacità di iniziativa dei lavoratori, la loro creatività e responsabilità. Andrebbero così socializzate anche le funzioni imprenditoriali non solo nel senso di favorire forme di organizzazione della società e dell’economia – a partire e dall’organizzazione della finanza – che allarghino di molto la base sociale per la formazione di nuovi imprenditori, ma anche di favorire l’adozione nelle imprese di forme di  organizzazione della produzione che aumentino gli spazi di autonomia e incentivino l’iniziativa delle persone.

Assisteremo anche in futuro, come sostiene l’Enciclica, alla coesistenza di diversi tipi di impresa e di diverse forme di governance, ma è importante che, nella concretezza delle diverse situazioni, le forme di governance adottate riflettano un equilibrio dei diversi interessi e inducano, nella misura possibile, all’adozione di modi di produrre che favoriscano la crescita culturale dei lavoratori. Allo stesso scopo deve essere organizzato il mercato del lavoro, i processi formativi e riformativi e il controllo dei processi di mobilità. Il coinvolgimento dei lavoratori nella governance dell’impresa e nella distribuzione dei benefici derivanti dalle sue performance può assumere forme diverse a seconda dei diversi tipi di attività e dell’importanza che in esse ha il fattore conoscenza; nelle situazioni più avanzate si può pensare concretamente ormai di dare vita a imprese di capitale e lavoro del tipo di quelle preconizzate da James Meade in Agathopia Agathopia.

Anch’io credo che definire il rapporto fra Stati nazionali e organizzazioni multilaterali sia, in questa fase della globalizzazione, di particolare importanza. Credo, tuttavia, che debba partire dalla convinzione che tale rapporto non è un gioco a somma zero. Assisteremo, anzi stiamo già assistendo, a un formidabile rafforzamento del ruolo degli Stati nazionali e questo è, in una certa misura, inevitabile, giacché di fronte ai colpi della crisi ci si rivolge, in prima battuta, allo Stato nazionale per essere protetti e, più in prospettiva, in quanto il processo di ricollocazione di ciascun Paese in un contesto mondiale in rapido mutamento dovrà tenere conto delle specificità di ciascun Paese. Il rafforzamento simultaneo degli Stati nazionali e delle istituzioni internazionali è, tuttavia, possibile in un contesto nel quale, come auspica l’Enciclica, cresca complessivamente il ruolo della politica nel governo del processo di globalizzazione.

Oggi il problema principale è, a mio avviso, quello di accompagnare il nuovo interventismo statale con nuovi interventi delle istituzioni multilaterali. In mancanza di ciò mi pare forte il rischio che la nuova forza degli Stati nazionali

possa debordare in un ritorno del nazionalismo e del protezionismo, come accadde durante la crisi degli anni Trenta che fece fare al processo di globalizzazione un salto all’indietro di circa un secolo e preparò il terreno per la Seconda guerra mondiale.

Purtroppo in questa direzione non si intravede molto all’orizzonte. Il rafforzamento del ruolo del G20 è un fatto positivo, ma la sua effettività si capirà solo nei prossimi mesi. Particolarmente deludente mi sembra il comportamentodell’Unione europea che non è stata in grado di mettere in campo un piano comune per il risanamento dei sistemi finanziari e per il rilancio dell’economia europea, ma nemmeno di fissare regole comuni per gli interventi di salvataggio che tutti portano finora una spiccata impronta nazionalista in quanto rivolti, in barba a tutte le regole precedenti, lista a rafforzare la competitività del Paese interessato nei confronti degli altri.

fronti Anche il rapporto fra Stato e mercato non è un gioco a somma zero. Negli anni Ottanta, quando lo slogan dominante ma era «meno Stato», alcuni di noi lanciarono uno slogan alternativo, apparentemente paradossale, «più Stato e più mercato». I fatti hanno largamente convalidato tale approccio. I Paesi scandinavi sono certamente quelli che hanno sempre conservato la maggiore presenza dello Stato, la più alta pressione fiscale, il più alto livello di spesa pubblica e di spesa sociale.

E sono quelli, che, negli ultimi trenta anni, hanno realizzato non solo la più alta crescita economica e i più alti livelli di occupazione, ma, secondo recenti ricerche, sono i Paesi che hanno la più alta mobilità sociale. Ora, tutte le teorie economiche riconoscono al mercato innanzitutto il merito di liberare le potenzialità degli individui, perciò la mobilità sociale mi sembra il migliore indicatore del buon funzionamento dei mercati. Che più Stato e più mercato stiano bene insieme è intuitivo in quanto solo un’adeguata offerta di beni pubblici e un’equa distribuzione del reddito posso- possono consentire alla generalità delle persone di realizzare le proprie capacità.

Il mercato è un’istituzione insostituibile proprio in quanto è il sistema decisionale più decentrato, quello che più di ogni altro dà alle persone la possibilità di esprimere la propria creatività, la propria capacità di iniziativa, la propria propensione al rischio. E perciò è il meccanismo più adatto a produrre innovazione. Dove è stato abolito, soprattutto le capacità di innovazione sono risultate drasticamente menomate.

Ma i mercati non sono razionali. Lasciati a se stessi risultanosistematicamente irrazionali e quindi instabili, come dimostra la successione di bolle speculative e crisi finanziarie e immobiliari degli ultimi trenta anni. Inoltre tendono ad aumentare le disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza e quindi ad aumentare la propria imperfezione. Ci sono tre cose, a mio parere, che i mercati non sono in grado di fare. In primo luogo non sono in grado di autoregolarsi, come la storia ormai largamente ci insegna. In secondo luogo non sono in grado di generare un modello distributivo che sia nello stesso tempo equo e funzionale rispetto all’obiettivo di una crescita stabile e non trainata dal crescente indebitamento pubblico e privato. Infine, non sono in grado di definire il complesso dei valori che devono guidare lo sviluppo a livello nazionale e mondiale e quindi di definire la  qualità dello sviluppo e di realizzare anche una responsabile distribuzione delle risorse ambientali e finanziarie fra le generazioni presenti e quelle future. Per sopperire a questi limiti del mercato la politica deve ridefinire il proprio ruolo.

La ridefinizione del ruolo della politica è tanto più importante in una fase nella quale ogni Paese dovrà riposizionarsi tante in un contesto mondiale in rapido e profondo cambiamento. L’aspetto più positivo dell’ultimo incontro dei G20 penso sia l'aspetto la convergenza, non so quanto reale o apparente, e, comunque frutto soprattutto delle pressioni del presidente Obama, sull’idea che sia necessario superare i profondi, diversi squilibri accumulatisi nell’economia mondiale nella fase precedente. Gli Usa dovranno allora consumare di meno, impor- dente. importare di meno e risparmiare di più. La Cina dovrà abbandonare le strategie mercantiliste che hanno usato la sottovalutazione della moneta nazionale come leva per favorire le esportazioni a danno dei concorrenti. L’Europa dovrà contare di più sulla crescita della propria domanda interna per il proprio sviluppo. Cose che il Fondo monetario internazionale predica inutilmente da anni.

Per l’Italia, ma anche per la maggioranza dei Paesi europei, la domanda principale mi sembra sia ora la seguente: la nuova fase di sviluppo che dovrà dischiudersi dopo la crisi dovrà essere trainata, come quella precedente, da un’ulteriore crescita dei consumi privati? I Paesi come l’Italia sono quelli con un alto livello di consumi privati, per quanto essi vadano un po’ redistribuiti poiché vi sono ancora molti che non ne hanno a sufficienza. L’alternativa sarebbe uno sviluppo trainato dall’impegno a fare compiere al sistema produttivo un salto di l’impegno qualità che solo può consentirgli un adeguato riposizionamento nell’economia mondiale e avvicinarci alla possibilità di utilizzare pienamente le potenzialità umane di cui disponiamo e, soprattutto, trainato dal potenziamento dei beni pubblici.

Si tratterebbe di beni quali la messa in sicurezza e la valorizzazione del territorio, l’ammodernamento delle infrastrutture, l’istruzione in tutti i suoi aspetti, la sanità, la giustizia, l’organizzazione del mercato del lavoro, il rispetto delle leggi.

Previsioni del Fondo monetario ci dicono che il livello medio dell’indebitamento pubblico nei Paesi avanzati, che nel 2007 era del 79% diventerà di circa il 120% nel 2014. Per l’Italia sarebbe di circa il 130 per cento. Questo balzo in alto del livello di indebitamento pubblico non è certo conseguenza di un fallimento degli Stati, ma di un fallimento dei mercati che si sta rovesciando nei bilanci pubblici. Se, come io auspico in consonanza con l’Enciclica, la scelta fosse la seconda, bisognerebbe vedere come sia possibile potenziare i beni pubblici in presenza di una situazione così pesante del bilancio pubblico.

Questo, a mio avviso, potrebbe essere il principale problema della politica economica per i prossimi decenni che richiederà, per essere risolto, molta fantasia nell’inventare nuove forme di collaborazione fra pubblico e privato. Superare gli squilibri dell’economia mondiale significa anche redistribuire le potenzialità e le risorse dello sviluppo tra le diverse parti del pianeta. L’Enciclica parla di una «Autorità politica mondiale»: questa espressione ha per me una particolare risonanza poiché mi ricorda il «Governo mondiale» proposto da Enrico Berlinguer all’inizio degli anni Ottanta inun testo denominato Carta per la pace e per lo sviluppo che trattava il rapporto fra il Nord e il Sud del mondo e che ho avuto l’onore di contribuire a formulare collaborando con lui insieme ad altri. So bene che un tale obiettivo può sembrare utopistico ed è comunque di molto lungo periodo. Ma i  grandi progetti sono difficili da realizzare quando si annunciano, diventano impossibili se non se ne parla. A quell’obiettivo ci si può comunque avvicinare per tappe e la tappa attuale è la riforma delle esistenti organizzazioni internazionali per dare a esse una rappresentatività che tenga conto dei profondi mutamenti in corso nei rapporti politici ed economici mondiali e una reale efficacia nell’assicurare stabilità ed equità allo sviluppo mondiale.

 

 

 

* In collaborazione con la rivista Argomenti Umani, 

diretta da Andrea Margheri

bottom of page