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L’anello di Gige e l’invisibilità del privato

 

di Claudia Baracchi

La giustizia è un patto che in realtà limita le potenzialità del singolo, andando contro l’interesse individuale e la stessa natura umana: l’hanno sostenuto in tanti, a partire dai sofisti antichi. L’idea trova formulazione definitiva in Hobbes (contratto sociale) e varianti ancora in Nietzsche e Freud. La sua intramontabile fortuna è dovuta in non minima parte al fatto che la vita pubblica di ieri e di oggi sembra offrirne ampia illustrazione e conferma.

Platone non è tra coloro che della giustizia danno un’interpretazione disincantata. Eppure, da grande maestro dell’arte imitativa, presta voce a questa tesi nella Repubblica, specialmente là dove fa rievocare dal giovane Glaucone la storia dell’anello di Gige (359b-360d). La storia riguarda il far cose senza essere visti: si dice che Gige il lidio, in possesso di un anello che consentiva a piacimento di diventare invisibili, ne sfruttasse il prodigio commettendo ogni sorta di efferatezze ed eccessi,  garantendosi così immenso potere. Sullo sfondo dell’antica leggenda Glaucone vuole denunciare lo scandalo della giustizia, l’ipocrisia che ne circonda le pratiche nell’Atene del suo tempo. Nessuno, dice, dà valore alla giustizia in sé; tutti la lodano per convenzione e per debolezza (la moralità del gregge, dirà Nietzsche) ma, ogni qualvolta si presenti l’occasione, ognuno si comporta ben diversamente. Questo il testo:

“…coloro che praticano la giustizia lo fanno malvolentieri e solo perché sono incapaci di commettere ingiustizia…. E questa, si potrà dire, è la prova decisiva che nessuno è giusto di proposito, ma in quanto vi è costretto: ciò perché nel suo intimo nessuno considera la giustizia un bene, poiché anzi ciascuno, dove crede di poterlo fare, commette ingiustizia. Privatamente ogni uomo giudica assai più vantaggiosa l’ingiustizia che la giustizia…. Supponiamo che uno disponga di una simile facoltà [l’anello dell’invisibilità] e tuttavia non consenta mai a commettere un’ingiustizia e a toccare la roba d’altri: quanti venissero a saperlo lo giudicherebbero disgraziato e sciocco. Eppure nei loro conversari lo loderebbero….” 

Sono parole facilmente trasponibili nei contesti a noi familiari. Purché non si sia visti, si perpetrino pure le più vili iniquità e crimini inauditi. Ma che non si sappia, appunto: che non si intacchino immagine e reputazione, che non si vada a ledere lo spettacolo ossequioso dei valori istituiti. Non abbiamo cessato di essere testimoni di una dicotomia che, sebbene pervasiva, non dovrebbe sembrarci ovvia: da un lato il teatrino del pubblico, della rappresentazione e della rappresentanza, dall’altro l’invisibilità del privato. L’individuo onora nelle forme il contratto con i molti, ma morde il freno (ciò che vive come freno) e persegue in ogni modo una realizzazione di sé che nulla ha a che fare con relazione, misura, vincoli mondani.

Dal testo platonico emerge così un primo dato. La separazione di pubblico e privato e la concomitante finzione della giustizia (“fatta la legge, trovato l’inganno”) sono espressioni di una frattura più profonda, tra individuo e comunità, secondo cui il singolo può solo soffrire del patto con gli altri. Esprimono cioè la convinzione che la natura umana sia essenzialmente non relazionale; che in realtà l’individuo non deva nulla a nessuno; che l’altro vada visto con l’acquolina in bocca o con fastidio, come preda o come ostacolo. Il secondo dato che emerge è la strutturale inevitabilità della menzogna: si fa di nascosto ciò che non si può dire—né agli altri né, al limite, a se stessi. Tra parentesi, qui si trovano già, in nuce, il fondamento dell’interiorità, l’esperienza di sé al limite del dicibile, la problematica della confessione.

Dunque il privato si costituisce in questa sottrazione di sé, in questa scomparsa dalla coscienza (collettiva come pure individuale). Tutelato da tale dissimulazione potrà dedicarsi, non visto, alle sue vere finalità. Si dice in inglese: spazzare la polvere sotto al tappeto. Tale sarebbe la logica dell’invisibilità del privato. Come se l’invisibile non importasse, o meglio, se potesse diventare ricettacolo di ogni immondizia. Una sorta di metafisica capovolta: invece di rivolgersi all’invisible con timore, eventualmente con vergogna, si crede di poterne fare la propria discarica. Se non si vede, si può fare. Ci si può fare di tutto. Si può fare finta di niente. La logica dei furbi, insomma. In Italia va molto. Forse non ne abbiamo l’esclusiva, ma certo questo assunto raggiunge da noi altezze  (o bassezze) mirabili.

Eppure lo sanno tutti che il pubblico è una recita e ben altro accade al riparo dalle indiscrezioni. Per quanto abilmente occultato, il privato non è esattamente un segreto. Ne può sempre trapelare documentazione. Come per un’instabilità nel rapporto tra gli opposti, il privato si dà sempre nella sua potenzialità di non restare invisibile, cioè di non restare privato. Inoltre può anche darsi che l’individuo stesso, sebbene molto si adopri per rimuovere consapevolezze sgradite, sia turbato da un vissuto che tende insopprimibilmente ad emergere, a farsi secernere nella vita cosciente. Questo rende necessarie operazioni repressive sempre più energiche per cancellare il presentimento di sé, per negare la realtà, a partire dalla propria, e ricostruirla. Ci si dissocia da sé, da ciò che in se stessi è intollerabile, per tollerarsi e convivere con sé. Ma l’invisibile non è necessariamente impercettibile, e il represso non necessariamente soppresso—e questo presenta un potenziale di destabilizzazione permanente.

Così a volte (per ragioni misteriose e quindi degne di meraviglia) il dispositivo del diniego e della menzogna si inceppa. Abbiamo un soprassalto di coscienza. Come se si fosse aperta una fenditura nella diga, fuoriesce copiosamente la realtà fin’ora nascosta, insostenibile e deforme, e si fa strada un dubbio: forse l’egoismo, la rapacia, l’appetito famelico che innegabilmente caratterizzano l’essere umano non ne descrivono esaurientemente la natura; forse c’è in noi qualcosa di irriducibile ai privati stratagemmi del potere; forse ritorna a vantaggio solo di alcuni (gli abili manipolatori del gioco pubblico) convincerci che è da furbi perseguire l’interesse personale ad ogni costo e con ogni mezzo; forse è intollerabilmente brutta, povera, diminuita, la vita spesa così.

È questa la breccia che Platone tenta di aprire: farci provare questo dubbio, coltivarlo come un seme vulnerabile e prezioso. Drammaturgo incisivo, ma ancor di più educatore e psicologo, mette in scena Glaucone (suo fratello, nella realtà storica), e per suo tramite i mali che affliggono Atene. Ma Glaucone, che pure sa dar voce alla retorica dominante con efficace cinismo, superando in questo anche i sofisti, questo ragazzo che pure sa giocare il gioco della giustizia ridotta a vuota eloquenza (strumento dei potenti), ne resta ciò nonostante insoddisfatto, si ribella. Cioè diviene egli stesso figura del dubbio. 

C’è in Glaucone un disagio, un’irrequietezza. I comportamenti e i costumi del suo tempo non lo assorbono completamente e lui vuole altro, vuole essere nutrito diversamente. È questo che provocatoriamente chiede a Socrate nel dialogo della Repubblica: dimmi qualcosa d’altro, desidero che tu mi parli della giustizia, del bene che essa porta nella vita di chi la cerca e la onora al di là delle apparenze. E di questo nutrimento il dialogo si occuperà, tentando una rieducazione delle giovani vite esposte ad uno spettacolo politico deturpante e malsano.

Quello che noi traduciamo come Repubblica è in effetti un dialogo sulla costituzione (politeia): non solo e non tanto la costituzione della polis, ma crucialmente la costituzione dell’anima, vera e propria rifondazione psicologica. Anche in questo la psico-politica platonica si rivela  eccedente rispetto alle demarcazioni disciplinari che vorrebbero la scienza politica e la psicologia (la scienza del pubblico e quella del privato) reciprocamente estranee.

Parte della grandezza di questo progetto è cominciare dalle cose così come stanno: cominciare dalle malattie presenti, farne diagnosi attenta, capirne l’eziologia, e solo su questa base tentare una guarigione. Cruciale è la volontà di capire senza giustificare, anzi capire proprio per poter giudicare, per scegliere e fare diversamente. Così, sebbene nell’intimità con la menzogna si dia il massimo rischio, al contempo vi si indovina (per quanto filiforme e sempre a rischio) un’opportunità. Dinnanzi allo spettacolo della menzogna sempre più caricaturale, insostenibile, si potrebbe rigenerare, forse, la consapevolezza di uno scarto, un sentimento di sé che fa dire: io non sono solo così, non solo quello, non tutto lì.

Ecco dunque la fiducia platonica nella potenzialità umana, o meglio, la convinzione che la natura umana rimanga in gran parte ancora da esplorare, che ogni sua definizione resti necessariamente parziale e dogmatica, ed essa vada pertanto avvicinata nel suo mistero. È questa fiducia smisurata e visionaria che gli fa affermare che, in circostanze propizie, un essere umano mai accetterebbe di confinarsi nell’inganno e sempre si porrebbe nella ricerca della verità. Dice Platone, tramite Socrate: “nessuno volontariamente consente a falsificazioni in quello che è l’elemento principale del proprio io e nei problemi di capitale importanza…. Tu credi … che io dica qualcosa di straordinario. Dico invece che tutti sarebbero ben poco disposti ad accogliere e conservare nell’anima loro il falso” (Repubblica 382a-c). Se e quando il dubbio, l’inquietudine della domanda, si aprono un varco, il desiderio di chiarezza, di disperdere l’errore e comprendere meglio, ne segue: di vitale importanza è tenere aperto lo spazio di questa possibilità.

Non dovette sfuggire a Platone che si contano in grande numero coloro che il falso accolgono in sé e nel falso vivono apparentemente per scelta. Ma, si dice molto più avanti nel dialogo, costoro non sono né liberi né in grado di scegliere, bensì prigionieri di se stessi, delle loro stesse pulsioni, automatiche e incontrollabili. Si tratta di anime distrutte, destrutturate e stravolte, che vivono nel conflitto e proiettano il loro disordine nel mondo, con danno tanto maggiore quanto più potere costoro hanno avuto la sventura di acquisire nella pubblica arena. Valga per tutte  l’anima del tiranno, disintegrata al punto da non avere più un contatto affidabile con le cose stesse dentro e fuori di sé, e quindi ormai oltre ogni anelito per la verità. È in questa figura che si riassume l’umanità malata. Poiché essere interiormente divisi, vivere nell’abbaglio e nella rimozione, avere perso l’aderenza alla terra e alla sua misura, e al contempo compiacersi del fango in cui si rotola: è questa stessa la definizione di malattia. Che in molti possano pensare questo stile di vita desiderabile, invidiabile—questa è la radice ultima del problema.

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