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La laicità

dei monaci buddisti

di Adriano Fabris

Le notizie che provengono in questo periodo dal Myanmar, la ex Birmania, oltre che sollecitare ciascuno di noi a un impegno concreto, c’inducono a rivedere le categorie con le quali vediamo molto spesso ragionare in merito alle questioni religiose. Nell’epoca in cui viviamo – quella della “guerra al terrore” promossa dagli Stati Uniti a seguito dell’attacco alle Twin Towers – è facile, anche se sbagliato, pensare che ‘religione’ sia sinonimo di ‘fondamentalismo’, quindi d’intolleranza e di rifiuto della democrazia. È facile cioè, anche se sbagliato, fare di tutta l’erba un fascio e considerare le religioni, da una prospettiva ancora illuministica, come esempi di un modo di pensare che dev’essere definitivamente superato. I mondi religiosi, invece, sono davvero qualcosa di complesso. In essi convivono possibilità molteplici: non solo di relazione fra l’umano e il divino, ma di rapporto fra uomo e uomo.

E così, almeno per chi pensa ancora tali rapporti in maniera unilaterale, possono esserci vere e proprie sorprese. Come quando si assiste, ad esempio nel caso dei monaci theravada della ex Birmania, alle vicende di uomini religiosi che scendono per le strade, chiedono libertà, pagano in prima persona la loro scelta. E questo solo perché essi vogliono rendere concreti i loro principi religiosi, ponendoli al servizio delle genti. Così come hanno fatto molti uomini di altre religioni, anche nel recente passato: da Martin Luther King a monsignor Romero, per esempio. Agendo, però, sempre allo stesso modo: agganciando la richiesta di giustizia nel rapporto fra uomo e uomo a una dimensione ulteriore, quale viene offerta dal legame religioso.

Il punto sul quale riflettere, dunque, è proprio questo. Non si può affatto rifiutare la possibilità di un collegamento con la sfera divina per chi ad essa intende affidarsi: sarebbe messo in questione il principio stesso della libertà religiosa. Né è moralmente lecito delegittimare una tale scelta: ad esempio identificando tout court l’opzione religiosa con un atteggiamento di stampo fondamentalistico. Bisogna invece individuare i modi concreti in cui il legame con il divino promuove, non già esclude, la giustizia nei rapporti fra gli uomini: rintracciando questi stessi modi all’interno delle varie tradizioni religiose e realizzando un dialogo aperto tra le varie componenti, religiose e non religiose, di una società. La laicità di uno Stato, infatti, poggia proprio su questo dialogo, non già sull’esclusione della componente religiosa. E tuttavia, come ci ricorda Böckenförde, per stabilire un adeguato rapporto dello Stato con le religioni è necessario trovare il giusto equilibrio fra due assunti. Da una parte, infatti, è compito dello Stato regolare le questioni della convivenza materiale degli uomini. E dunque i diritti e i doveri delle cittadine e dei cittadini di uno Stato non devono essere condizionati dall’esercizio della libertà confessionale. Dall’altra parte, però, lo Stato deve altresì salvaguardare le garanzie costituzionali, fra le quali vi è la libertà religiosa. E quindi nell’ordinamento giuridico statale dev’essere garantito lo spazio per l’espressione di questa libertà, nella misura in cui ciò è compatibile con le esigenze fondamentali della comune convivenza. Certo: trovare un giusto equilibrio fra queste posizioni non è affatto facile. Ma cercare di realizzarlo è l’unico modo per evitare esiti fondamentalistici: sia di matrice religiosa che di carattere antireligioso. E provare davvero a farlo è l’unica via per costruire una laicità autentica. Una via, dunque, che passa anche attraverso l’esperienza delle religioni. Come ad esempio attestano i monaci del Myanmar.

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