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La missione dell’università 

e l’attuale maggioranza di governo

di Mauro Visentin

Come mi ero impegnato a fare in un intervento riguardante l’università comparso sullo scorso numero di novembre di InSchibboleth, torno su questi temi. Non, però per dare seguito all’impegno preso allora di affrontare altre questioni relative al pessimo stato in cui versa l’università italiana, dopo che, in quell’intervento, avevo discusso del metodo che l’attuale maggioranza di governo preannunciava di voler adottare per risolvere il problema, rilevantissimo, del reclutamento dei docenti. Due “casi” hanno, infatti, di recente, destato in me l’esigenza di non lasciar cadere l’opportunità, che con essi si è offerta, di riflettere sul rapporto che il governo in carica e la maggioranza politica che lo sostiene intendono stabilire con l’accademia, il suo ruolo e la sua missione. Sono, uno, di carattere generale (riguardante, cioè, la condizione dei nostri atenei nel loro complesso e attinente sempre alle linee programmatiche che il ministero si appresterebbe a tradurre in leggi e decreti aventi ad oggetto i concorsi universitari), l’altro, di natura specifica e perfino, in un certo senso, personale, in quanto relativo ad un’iniziativa promossa dall’università nella quale insegno: quella di Sassari. Si tratta di due fatti emblematici, che esprimono bene il modo in cui il partito berlusconiano e il governo che ne è espressione guardano alla realtà universitaria, e che, d’altra parte, si prestano ad alcune considerazioni che ritengo istruttive.

    Iniziamo dal secondo. Un’interpellanza parlamentare e un appello che ha raccolto numerose adesioni nel mondo accademico, promossi entrambi dai radicali, hanno fatto sì che esso uscisse dalla cerchia ristretta dell’ateneo e della città di Sassari. Si tratta della proposta, formalmente avanzata dalla facoltà di Giurisprudenza, di conferire una laurea honoris causa al colonnello libico Muhammar Gheddafi (o, come nelle loro lettere di protesta, che hanno circolato largamente nella rete dell’indirizzario d’ateneo, hanno scritto i colleghi più dotti e raffinati, Mu'ammar Abu Minyar al-Qadhdhafi). Sulle origini dell’iniziativa è stato steso, dai proponenti, un velo di riserbo. Il preside di giurisprudenza, Giovanni Lobrano, in una dichiarazione rilasciata all’Adnkronos, sostiene a) che essa non è partita da lui anche se lui e la sua facoltà l’hanno fatta propria, b) di essersi consultato, prima di avanzarla, con alcuni colleghi anziani e con il rettore uscente, Alessandro Maida, e c) di non poter dire di più “perché non si tratta di questioni personali” delle quali l’interpellato possa liberamente disporre. La dichiarazione dell’ottimo collega (nei confronti del quale queste considerazioni non intendono sollevare alcun rilievo polemico, visto che nutro per lui la massima stima al punto di avergli dato il mio voto in occasione delle ultime elezioni per la guida dell’ateneo, nelle quali ha, senza successo, opposto la sua candidatura a quella del rettore in carica) appare confusa e imbarazzata. La ragione dell’imbarazzo è chiara: l’ondata trasversale di proteste che la proposta ha suscitato l’ha resa automaticamente orfana, e coloro che l’hanno concepita, suggerendo a Lobrano e a giurisprudenza di farsene ufficialmente promotori, si sono defilati, inducendo Lobrano, per correttezza e discrezione, a non svelare i risvolti dell’affaire. Ma in città ed entro la cerchia dell’ambiente universitario la voce ricorrente è che essa sia stata ispirata da un esponente sardo di rilievo della maggioranza di governo. E’ verosimile che, in occasione della riunione del G8, in un primo tempo prevista in Sardegna, a qualcuno nel centrodestra sia venuta l’idea che, per rinsaldare i legami di amicizia con la Libia e il regime che la governa, legami che proprio adesso stanno dando i frutti attesi in tema di cooperazione tra Italia e Libia nel controllo dei flussi migratori che transitano fra le due sponde del Mediterraneo, fosse opportuno concedere al leader libico un’onorificenza accademica. Non voglio commentare la proposta né gli argomenti con i quali è stata difesa da Lobrano (sulla prima ho già espresso, in diverse sedi, la mia ferma contrarietà, sui secondi non vorrei infierire, anche se non posso fare a meno di osservare che la “singolare perizia”, cui – secondo il decreto regio del 1933 che ancora regola la concessione delle lauree ad honorem, come ricordato e invocato da Lobrano – va ricondotta l’attribuzione di questa onorificenza, può certo essere riconosciuta a qualsiasi leader che si sia impadronito del potere e lo abbia mantenuto per un cospicuo numero di anni, come è accaduto e accade, nella storia del secolo scorso e ai giorni nostri, in tante dittature, senza che per questo costui debba essere indiscutibilmente considerato degno di stima e rispetto, ossia di quei tratti che il termine latino honos/honor compendia in sé, non limitandosi a designare una semplice capacità di realizzazione, ossia una qualità moralmente neutra, per la quale il latino utilizza altre espressioni – virtus, facultas, ars, per esempio). Il mio intento, in questa sede, è di mettere in luce il concetto che dell’università deve nutrire una classe politica come quella attualmente al governo se ritiene di potersi servire di un ateneo per omaggiare in modo ipocrita e servile il leader di un Paese con il quale si vogliono ristabilire rapporti diplomatici di buon vicinato, per ragioni dettate dall’interesse nazionale e dalla realpolitik. E’ vero, naturalmente, che non meno grave e censurabile è la risposta di quegli organi accademici i quali, di fronte ad una pressione indebita di questo tipo, non hanno saputo fare altro che mostrare la propria condiscendenza. Ma questo è un problema diverso, di uomini, caratteri, personalità, non un problema “sistemico”. O lo è soltanto nel senso che dimostra la debolezza (soprattutto economica) dell’università italiana e dunque la sua ricattabilità da parte del potere politico. Non denuncia, in altre parole, l’atteggiamento generale di una classe dirigente (tanto è vero che la proposta di cui stiamo parlando ha incontrato un nutrito fuoco di sbarramento da parte di moltissimi docenti dell’ateneo al centro del caso e anche di numerose altre università italiane; del resto, possiamo essere certi che come iniziativa non sarebbe mai potuta nascere spontaneamente all’interno del mondo accademico). 

    Il caso è tanto più significativo perché consente di mettere in chiaro il legame che indubbiamente intercorre tra la considerazione in cui il governo e i suoi esponenti mostrano di tenere l’università – e ciò che essa, bene o male, rappresenta – e un’identità culturale, quella dei partiti che ne fanno parte, che di solido ha, evidentemente, solo l’apparenza o la facciata, facendo anche risaltare la coerenza che sussiste fra le due cose. Le formazioni politiche che hanno dato vita all’attuale maggioranza hanno esibito sin qui e continuano ad esibire un atteggiamento di rifiuto nei confronti del multiculturalismo, considerato (sulla scia della Chiesa e fatte salve le schermaglie che contrappongono quest’ultima alle decisioni più incresciose imposte dalla Lega in fatto di immigrazione clandestina) l’equivalente del relativismo culturale. Questo atteggiamento si è spinto, in alcuni casi, attraverso gli esponenti più oltranzisti del “partito del nord”, fino ad abbracciare posizioni palesemente xenofobe. Sembra un paradosso, ma la proposta di conferire una laurea ad honorem a Gheddafi mostra una sintonia occulta con tutto questo. Ho già definito questa iniziativa “servile e ipocrita” e tanto più tale giudizio deve essere ribadito quanto più appaia chiaro che nessuna necessità diplomatica spingeva il governo verso una deriva così cinica: non si possono, forse, intrattenere rapporti amichevoli, fondati su interessi comuni, politico-economici, di scambio e cooperazione, senza mostrare ossequio, acquiescenza e sostegno nei confronti di una politica – nonché dei valori che essa esprime – che è agli antipodi di tutto quello che costituisce l’identità assiologica dell’Occidente? E’ chiaro che sì. Dunque la proposta, o meglio il suggerimento venuto all’università di Sassari dal mondo politico esprime un eccesso di zelo che non riguarda la diplomazia ma piuttosto l’ignoranza elementare del fatto che il riconoscimento e l’accettazione della diversità non si spinge, non deve né può spingersi, fino a valicare il confine che separa i valori di riferimento di una cultura da quelli di un’altra. Come ho già diffusamente cercato di spiegare sulle pagine di questa rivista, il relativismo ontologico non va mai confuso con quello assiologico e il primo non implica affatto il secondo. Crederlo è il segno inequivocabile di una incertezza e insicurezza di fondo a proposito della propria identità culturale e del suo significato, un’incertezza e un’insicurezza che spingono ad oscillare fra la chiusura oltranzista, ai limiti della xenofobia (e talvolta anche ben oltre questi limiti), e, torno a ripetere, l’acquiescenza servile nei riguardi di posizioni con le quali il confronto è possibile, e talvolta proficuo, solo se, innanzitutto, si produce sulla base di una precisa presa di distanza. Tutto questo è uno dei frutti migliori dello svolgimento storico della civiltà e della scienza occidentali. Ovvero, precisamente dei valori e del patrimonio rispetto ai quali compito e missione dell’università sono sempre stati quelli di esserne, ad un tempo, testimone, garante e promotrice. 

    Alla luce di queste considerazioni, come stupirsi se la maggioranza che governa attualmente il Paese mostra segni evidenti di assoluta noncuranza per l’immagine, il ruolo, il peso e le finalità dell’istituzione scientifica che, piaccia o non piaccia, esprime ancora, da noi, l’impegno maggiore e sopporta la maggiore responsabilità nel dare seguito alla propria vocazione volta ad assicurare lo sviluppo e la trasmissione del sapere, ossia l’università pubblica? E come stupirsi se, dopo tutta l’indignazione mostrata lo scorso autunno per il familismo e il localismo dilaganti nell’università italiana, quando si doveva contrapporre all’ondata di proteste che i tagli finanziari all’istruzione di ogni ordine e grado aveva suscitato nella scuola e negli atenei, oltre che in buona parte dell’opinione pubblica, il governo non ha trovato di meglio che contrabbandare una proposta di sostanziale sanatoria e promozione ope legisdegli attuali associati e ricercatori come una riforma dei meccanismi concorsuali che dovrebbe introdurre, nell’università, rigore, selezione meritocratica e oggettività di valutazione, innalzando la qualità e la produttività della didattica e della ricerca nei nostri atenei?

    Di che cosa si tratta? Semplicemente di questo: della sostituzione di un metodo concorsuale fondato sulla costituzione di commissioni locali (costituite per 4/5 di docenti esterni all’ateneo che bandisce, eletti a livello nazionale dai loro colleghi di raggruppamento) – che, nell’ultima e più rigorosa versione, conferiscono una sola idoneità a colui, tra i candidati, che ciascuna di esse ritiene scientificamente più maturo e attrezzato – con un’unica commissione nazionale (per ogni raggruppamento scientifico) che conferisce un’idoneità a chiunque essa ritenga ne abbia titolo. In altre parole, mentre con l’attuale meccanismo le commissioni possono “idoneizzare” al massimo tanti candidati quanti sono i posti messi a concorso, con quello che si prospetta, l’unica commissione nazionale che verrà costituita per ogni settore disciplinare potrà attribuire un numero “aperto” di idoneità (in teoria, queste ultime potrebbero essere conferite anche a tutti i candidati concorrenti, nessuno escluso) in modo che gli atenei possano poi attingere dall’elenco di idonei che si sarà costituto in questo modo, scegliendo i propri (che hanno tra l’altro il pregio, indiscutibilmente “scientifico”, di costare meno, ovvero solo la differenza retributiva corrispondente allo scatto fra i due ruoli), con l’unico vincolo della disponibilità dei fondi necessari e nella più completa libertà di destinare, quelli disponibili, alla chiamata di un collega con il quale sussistono legami annosi e rapporti di complicità e amicizia, piuttosto che ad investimenti in progetti di ricerca, in attrezzature tecnico-scientifiche che potrebbero migliorare la didattica e la qualità dello studio, in programmi di formazione e di aggiornamento. 

E’ circolata, alla fine di marzo, una bozza programmatica contenente questa ed altre proposte, frutto di una discussione “seminariale” promossa dal Ministero dell’Istruzione e dell’Università, nella quale, fra l’altro, si legge: “Il punto più debole della normativa finora in uso è infatti quello di costringere gli atenei a bandire concorsi teoricamente aperti quando il vero obiettivo, spesso del tutto legittimo, è quello di promuovere un docente interno”. Poche righe dopo, nel paragrafo intitolato”Mobilità”, troviamo scritto, nero su bianco, quanto segue: “Il sistema italiano è molto ingessato, poiché la mobilità tra le sedi – cioè la libera circolazione delle idee e dei saperi che costituisce da secoli l’essenza stessa dell’università – è ridotta al minimo e sopravvive solo perché massicciamente incentivata dal MIUR (…) Da 10 anni a questa parte circa il 95% dei docenti fa carriera nella sede in cui ha inizialmente conseguito il posto di ricercatore (…) Elementi di mobilità nazionale e internazionale vanno fortemente accentuati se l’Italia vuole tornare ad essere pienamente competitiva in sede internazionale” (corsivi miei). Ebbene, anche lasciando da parte l’ineffabilità di considerazioni come quelle che – dopo le accuse rivolte qualche mese or sono al sistema universitario di favorire, sfruttando il metodo di reclutamento vigente, il localismo e il familismo su cui si fondano e prosperano i potentati baronali – si spingono a qualificare come del tutto legittime le aspirazioni delle singole sedi accademiche di promuovere i docenti interni con concorsi “solo teoricamente aperti” (dove la denuncia non riguarda il fatto che questa apertura sia solo teorica, ma che essa imponga, comunque, ai “legittimi obiettivi” dei diversi atenei, di seguire, per realizzarsi, un percorso complicato e tortuoso!), anche tralasciando di tornare, con cose già dette, su tutto questo, come si può attribuire ad altro che a sprezzante noncuranza per la logica elementare e per l’oggetto di un discorso che non si esime dal violarla così platealmente l’accostamento fra la rivendicazione della legittimità delle “promozioni” interne e la denuncia della scarsa mobilità interuniversitaria? Come si può pensare che favorendo gli avanzamenti di carriera interni si possa altresì incentivare la mobilità dei docenti? E’ possibile che un simile ragionamento nasca da un’autentica preoccupazione per le sorti del nostro sistema di istruzione superiore e da una ponderata analisi delle esigenze della ricerca scientifica e dell’avanzamento del sapere nel nostro Paese? Ognuno può darsi la risposta che crede. I fatti sono questi.

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