Tra liturgia e disincanto: la profanazione del dispositivo democratico
di Luciana Cadahia
1.
Il presente contributo parte da una certa inquietudine, da cui scaturisce immediatamente una domanda: in che misura la reinterpretazione degli elementi della tradizione teologico-politica ci aiuta a pensare la politica stessa? Questa domanda la formuliamo a partire dal evento democratico stesso, che di solito viene associato all’idea di un processo di secolarizzazione attraverso il quale gli uomini sono riusciti a liberarsi da un potere trascendente e dai dogmi religiosi che lo sostenevano. Con il venir meno delle fondamenta religiose la democrazia non sarebbe altro che la possibilità di uno sviluppo di relazioni immanenti di potere. Attraverso questa serie di relazioni gli uomini dovrebbero organizzarsi internamente, dando al governo una precisa legittimità. La democrazia sarebbe, quindi, la forma d’esercitazione del potere politico per eccellenza. Questo determinerebbe che, nei momenti di conflitto popolare, debba inevitabilmente essere presente, garantendo una negoziazione costante. Va però anche tenuto in considerazione il fatto che si possa ottenere l’effetto contrario, ovvero, la possibilità di una depoliticizzazione che, a sua volta, funzioni paradossalmente come una forza politica che pretenda istituire e mantenere un determinato ordine, come se fosse una democrazia liberale. Com’è quindi possibile che una forma di potere che voglia liberarsi dei dogmi della religione sia riuscita a neutralizzare la politica stessa? Credo che la chiave che permette di comprendere pienamente questo processo risieda nell’evitare una scissione troppo netta e radicale tra politica e religione.
A questo punto sarebbe il caso di chiederci se l’esperienza della democrazia non dia vita necessariamente ad una nuova teologia politica. Per dare una risposta a questa questione si partirà da alcune riflessioni di Jaques Derrida e Giorgio Agamben, riguardanti il legame tra violenza e diritto, così da comprendere l’origine teologica del pensiero politico contemporaneo.
2.
Lo spettro della teología politica non ha smesso di aggirarsi continuamente per tutto il XX secolo. Nel 1922, Carl Schmitt proclama che la teología politica è sopravvissuta al processo di secolarizzazione occidentale, dato che “tutti i concetti decisivi della dottrina moderna dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”. Questo si può vedere chiaramente nel suo dibattito con Erik Peterson e Hans Blumenberg. Sebbene sostenessero dottrine opposte, questi due pensatori condividevano la pretesa di interrompere il vincolo tra teologia e politica. Il primo desiderava manenere due sfere indipendenti in modo tale che la politica, separata dalla teologia, conservasse un valore in se stessa. Il secondo, al contrario, cercava di eliminare qualsiasi vestigio di teologia nella politica, per rendere evidente la rottura con il passato religioso e per affermare il trionfo del lessico scientifico della politica. Pur fortemente contrario a queste due posizioni, Schmitt dimostra chiaramente il suo interesse circa lo studio del modo in cui la forma politica e giuridica della Chiesa si è trasferita alla sovranità statale e alla terminologia giuridica. In altre parole, circa il modo in cui lo spazio del sacro si era trasferito dalla religione all’ambito della sovranità secolare. Schmitt non concorda con la diagnosi di questi due pensatri, soprattutto perché aveva intuito che le pretese di porre fine alla teologia politica da parte della teologia non erano che un altro modo di esercitare la politica, un modo che de-legittima lo Stato come istanza centrale, sovrana, totale, e che mette in discussione la società omogenea e il popolo che la sostiene. A sua volta, la scomparsa della teologia implicava automaticamente la scomparsa della politica.
In ultimo termine, la disputa tra questi due pensatori dipendeva dalla loro diversa concezione della politica. Mentre per Schmitt la teologia politica è un “processo di transvalorazione che nella Modernità trasforma alcuni concetti di matrice teologica in categorie giuridico-positive, coincidendo di fatto con il movimento di secolarizzazione (sebbene non quello di laicizzazione assoluta senza “resti mitico-teologici”)”, per Peterson invece, proseguendo con la lettura di Ambrogio e Agostino, è inerente al monoteismo, ovvero, a una “sorta di cortocircuito logico-storico che inserisce una terminologia politica (il monoteismo) all’interno del lessico religioso, in funzione di una giustificazione dell’ordine esistente o, più semplicemente, la rappresentazione teologica del potere”. Di qui in avanti seguiremo l’interpretazione di Schmitt, dato che ci permette di pensare in che modo lo spazio del sacro continua ad essere presente nel discorso politico contemporaneo, ovvero nelle democrazie liberali.
3.
Sono stati soprattutto Weber e Foucault ad aprire uno spazio a partire dal quale fosse possibile rendere intelligibile questa problematica. Weber si sforzó di mostrare, da una parte, fino a che punto la nozione di disciplina come forma di esercizio del potere sulla condotta degli uomini fosse strettamente vincolata alla scomparsa del germe religioso dell’ascesi. E dall’altra, in che modo entrambi i fenomeni abbiano posto le basi per lo sviluppo dell’etica capitalistica nei termini di una disgregazione sociale in sfere d’azione auto-referenziali e incapaci di produrre una sintesi che potesse articolare un unico ordine politico stabile. In linea di continuità con questa diagnosi, Foucault mostrò i difetti che la teoria della sovranità mostrava quando cercava di pensare le forme di potere che avevano cominciato a regolare le condotte dell’uomo nella modernità. In questo senso, grazie ai suoi lavori sul problema della governabilità durante il Cristianesimo e la modernità, non solo individuò i presupposti ormai caduchi di tale teoria, ma ristrutturò anche un campo di intellegibilità a partire dal quale si potesse pensare in che modo la gestione della vita dell’individuo e della popolazione si fosse trasformata in oggetto della politica.
La nota caratteristica di entrambe le letture risiede nel fatto che, seppure sarebbero disposte ad accettare il presupposto di una progressiva ritirata dell’assolutismo teologico e della forma di un potere centrale che ordini la totalità dello spazio sociale, tuttavia, avrebbero contribuito all’elaborazione di una lettura disincantata di questo processo.
Se proseguiamo queste riflessioni, il disincanto del mondo moderno sembrerebbe aver provocato, la ritirata dei concetti e dei problemi religiosi dal pensiero politico –nei termini di una progressiva de-teologizzazione della politica- e, dall’altra, l’emergere di una nuova logica di governo immanente segnata dalla retorica dell’economia, nei termini della gestione della vita degli uomini come utili del processo di produzione capitalistica. La conclusione alla quale sembra portare questa diagnosi è che i nuovi gestori della retorica economicista avrebbero firmato il certificato di defunzione della teologia politica e sepolto per sempre lo stigma della religione entro il conflitto tra gli uomini. Adesso si tratterebbe di pensare l’intrallacciamento del tessuto sociale in un altro modo, per cui il pensiero politico adotterebbe un atteggiamento che, o possa accompagnare tale processo –attraverso la confezione di modelli risolutivi- oppure cerchi di sviscerare i dispositivi che mantengono salda e unita questa logica.
La novità che studiarono pensatori come Weber o Foucault risiede quindi nel fatto che la prassi economica è stata incorporata al terreno della politica nei termini di un dispositivo disciplinare destinato a formare, regolare e orientare la vita degli uomini sia nella sua dimensione collettiva sia in quella individuale. In questo modo, i rapporti economici si sarebbero estesi all’azione degli uomini come oggetti da gestire, in altre parole, utili disponibili.
4.
Se si accettano queste affermazioni diventa plausibile l’idea che sia stato il dispositivo politico ad estendersi nell’economia; tuttavia ci resta ancora da pensare, da una parte, in che modo questo processo si articola con la teologia del laicismo, cioè con un processo di secolarizzazione a partire dal quale certi aspetti religiosi vengono traslati al terreno della democrazia. E, da un’altra parte, se è conveniente o meno concepire questo fenomeno come un processo di neutralizzazione della politica, cioè un processo di de-politicizzazione che ha reso possibile l’emergere dell’ambito economico come quella logica a partire dalla quale la condotta umana viene guidata.
Per delucidare questo problema è necessario fare innanzitutto un chiarimento. Da una parte, troviamo la tradizione della filosofia politica e della teoria moderna della sovranità, il cui oggetto di studio è stato sempre lo Stato inteso come un potere trascendente che ordina la totalità del sociale. E, da un’altra parte, la biopolitica moderna, a partire dalla quale si è studiato in che modo i poteri immanenti regolano la vita degli uomini. Si potrebbe dire che mentre Schmitt si colloca in questa prima linea, i lavori di Weber e di Foucault apparterrebbero alla seconda. In un certo senso la differenza tra uno e l’altro paradigma si fonda sul diverso modo in cui comprendono il processo di secolarizzazione.
Giorgio Agamben è uno dei pensatori attuali che ha cercato di conciliare entrambe le questioni, riportando il problema teologico della sovranità sotto la luce della logica biopolitica. Nel testo Il regno e la gloria, Il procedimento argomentativo centrale che gli permette di sostenere questa tesi si basa sull’affermazione secondo cui il successo dell’economia –in quanto dispositivo che ordina la vita degli uomini-, non affonda le sue radici nel processo di secolarizzazione, bensì nelle stesse origini del Cristianesimo. In questo modo, l’origine teologica dello Stato sovrano moderno non sarebbe che l’incorporazione di una oikonomía già presente nel Cristianesimo, cioè una forma di potere intesa come gestione della vita degli uomini. Dato che rimane esclusa da questo schema la possibilità dell’azione politica, la vita degli uomini si sarebbe ridotta a una nuda vita sottomessa alla logica di un Leviatano. In questo modo, Agamben giunge alla conclusione che l’origine teologica dello Stato sovrano moderno non sarebbe se non l’incorporazione di una oikonomía già presente nel Cristianezimo, ovvero una forma di potere biologizzante che avrebbe gestito la vita degli uomini come una nuda vita, incapace di portare a compimento un’azione politica. Il difetto che troviamo in questa prospettiva, non risiede solamente nella problematica accettazione della tesi che l’oikonomía della quale parlava Aristotele si troverebbe in una linea di continuità con l’esperienza economica attuale. Oltre a questo, esiste senza dubbio una visione essenzialista-degenerativa della politica, nel senso che in un determinato momento la politica esce fuori di sé, tradisce la sua stessa essenza e cade vittima dell’oikonomía. Questa idea ripete i difetti della teoria del contratto sociale, nel senso che ha bisogno di ricorrere a un’origine che la fondamenti. Mentre in questa teoria era necessaria la credenza in uno stato di natura precedente il contratto sociale come ricorso esplicativo che la dotasse di un senso, nel caso della visione essenzialista-degenerativa è necessaria la credenza che sia esistita una polis ideale posteriormente contaminata. Se l’origine possiede una priorità segreta che determina il presente, ogni azione politica che ignori il lavoro genealogico realizzato da Agamben è condannata al fallimento. Non sarebbe che una nuda vita che si oppone chisciottescamente a uno Stato che l’ha modellata e definita come tale.
In buona misura, i difetti che troviamo nella lettura realizzata da Agamben risiedono nel presupposto che la logica politica moderna sia stata segnata dal trionfo di un’economia che si sarebbe servita esternamente della politica per conservare le sue possibilità di espansione. Perciò diventa necessario pensare che accade se si accetta che il valore attribuito all’economica funziona come una teologia politica all’interno stesso di un determinato dispositivo politico-democratico.
5.
Orbene, se si stabilisce una connessione tra i due paradigmi di analisi indicati in precedenza, cioè tra l’origine teologica dei concetti politici e l’estensione dell’economia come la logica di mercato che tenta di regolare le forme di vita nella cultura occidentale, è possibile pensare un certo carattere teologico nell’esperienza dell’economica, nel senso seguente. Se si parte dalle riflessioni di Walter Benjamin, nelle quali afferma che il capitalismo non rappresenta solamente, come un Weber, una secolarizzazione della fede protestante, bensì un fenomeno religioso, è possibile definire la religione come quell’istanza di potere che sostrae cose, luoghi, animali o persona dall’uso comune e li trasferisce a una sfera separata dalla quale si presuppone che emana la forza della coesione sociale. In questo modo, non solo non vi è religione senza separazione, ma ogni separazione mirata a una riunificazione più alta e completa contiene o conserva in sé un nucleo autenticamente religioso. Questa separazione divide il sacro dal profano, ovvero ciò che è inaccessibile da ciò che è di uso comune, facendo del dispositivo politico una sorgente occulta del potere. In questo senso, sembrerebbe che il mercato si presenti come quell’istanza del sacro che riunisce in una totalità di senso gli uomini e la merce, collocando gli uni e gli altri come utensili disponibili per il consumo della vita. Detto in altre parole: il dispositivo politico si cela nell’economia e come economia, estendendo il suo potere alle forme di vita contemporanea. Il mercato si istaura come qull’ambito di rapporti inaccessibile e trascendente, che attraverso la coesione totalizza i vincoli tra gli uomini e fa del consumo l’unica esperienza del sacro.
Se profanare significa riportare all’uso comune ciò che era stato separato nella sfera del sacro, è necessario, paradossalmente, dissacrare la lettura monodimensionale che afferma la democrazia liberale di mercato come l’unica esperienza possibile. Analizzare il discorso che si articola all’interno delle democrazie liberali, che otorga loro un senso e un fondamento, permette di costatare che questa determinata esperienza non è per nulla libera dalla storica lotta simbolica per vertebrare discorsivamente un ordine politico. Per questa ragione, invece di inquadrare questo processo come il risultato necessario di un esito naturale, come se il modello delle democrazie liberali fosse l’unico terreno semantico a partire dal quale fosse possibile trattare i problemi, sembra invece conveniente avvicinarsi a esso nei termini di una strategia discorsiva che cerchi di delimitare in che modo si articola il sociale. Da qui deriva la necessità di mantenere una certa distanza rispetto all’idea di un “modello originale” di democrazie, chiaramente formulato, al quale dovremmo adattarci, oppure precisarlo meglio. Invece di considerare le democrazie liberali come un insieme di idee o concetti chiari e precisi, il cui senso può essere perfettamente determinato per esprimere l’organizzazione di una comunità politica data, è conveniente avvicinarci a questo discorso nei termini di un dispositivo, ovvero considerarlo come un insieme di attività e meccanismi che hanno la finalità di provocare un determinato effetto sulla condotta di chi è assoggettato da questo discorso.
Non consideriamo che il discorso in generale, e quello delle democrazie liberali in paricolare, sia lo specchio fedele di una realtà data. Al contrario, concepiamo il discorso come un modo caratteristico di produzione di significato. Di quello che si tratta, allora, è di studiare come ciò che sembra necessario all’interno di un determinato discorso (dispositivo) democratico è in realtà il risultato di un’assenza di problematizzazione. Detto in altro modo, profanare la teologia inerente alle democrazie liberali potrebbe consistere precisamente nel farle dire un’altra cosa rispetto alla parola democrazia.
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