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Il pensiero di Pietro Scoppola

di Iginio Ariemma*

Pietro Scoppola è stato sicuramente uno dei protagonisti principali del processo di formazione prima dell’Ulivo e poi del Partito democratico. Il Pd non è la continuazione dell’Ulivo, ma è indubbio che tra l’uno e l’altro molti sono i fili di connessione e Scoppola è stato ed è tanta parte di 

questo nesso. Si potrebbe dire che egli ne è ‘l’ispiratore’, ma, come tutti i luoghi comuni, questa definizione rispecchia soltanto in parte la verità. Soprattutto non mette in luce la profondità e l’ampiezza del suo pensiero che l’attuale Pd, con le sue ombre, riflette soltanto in misura monca. Ma su questo aspetto ritornerò in seguito. Ridurre però Pietro Scoppola a questo non è giusto. Considerava il partito uno strumento, seppure molto importante, ma non il fine. Il fine era la democrazia dei cittadini ovvero la democrazia dei cristiani, che per lui era la stessa cosa, data la sua convinzione sul nesso originario tra cristianesimo e democrazia. Scoppola è stato uno storico di grande valore, un intellettuale pubblico autorevole, tra i più ascoltati non soltanto nel mondo cattolico, ma anche tra i laici. Ma in questa sede noi intendiamo ricordare soprattutto la sua opera di grande costruttore e riformatore della democrazia italiana, che tanto amava e che egli voleva rendere meno fragile, più coesa e partecipe. «I cittadini per l’Ulivo» erano per lui – questa la mia convinzione – uno dei laboratori sperimentali della democrazia dei cittadini. 

Ho conosciuto Pietro molti anni fa, negli anni Settanta, ma i nostri primi incontri risalgono alla campagna referendaria del 1991 e del 1993 allorché fu introdotto il maggioritario, e soprattutto dopo, nelle elezioni del 1994, quando si trattava di costruire una lista unitaria tra lo schieramento di sinistra, che comprendeva l’ex Pci in cui militavo e Alleanza democratica di cui egli faceva parte. Tuttavia fino alla sconfitta elettorale del 2001 non posso dire che tra di noi ci fosse comunanza di frequentazione e di idee. Dopo sì. Specialmente con la nascita e la costruzione dei Cittadini per l’Ulivo. Mi ricordo molto bene il lungo colloquio che avemmo, Renato Strada e io, a casa sua, per proporgli di presiedere la costituenda «Rete», e anche i suoi interrogativi, le sue riserve e diffidenze che poi superò con la consueta generosità. Da allora non passava settimana che non ci sentissimo: e non soltanto sui problemi che riguardavano la Rete, ma un po’ su tutto. Ho imparato molto da questi incontri. Pietro credeva molto nell’amicizia, tanto è vero che volle introdurre nel manifesto costitutivo la frase seguente che è di suo pugno: 

 

I cittadini per l’Ulivo lavorano per l’unità dell’Ulivo e ne interpretano l’anima unitaria. Devono perciò instaurare tra le varie componenti oltre che un rispetto reciproco, un clima di amicizia, senza il quale è difficile dare vita ad una volontà politica comune. 

 

A me manca molto la sua amicizia. 

 

Un cattolico a modo suo.

Pietro Scoppola è scomparso  il 25 ottobre 2007. Tre giorni prima che ci lasciasse mi parlò dell’aldilà. Anche la volta precedente, circa quindici giorni prima, in un colloquio durato quasi un’ora, ne parlammo. Soprattutto l’ultima volta era molto stanco, parlava a fatica, ma con molta lucidità. Venne, premurosa, sua figlia, ma la pregò di lasciarci continuare. E ancora di più mi è rimasta impressa l’assenza di angoscia e la serenità del volto e delle parole. Mistero e fede. Mistero, perché mi rammentò la scommessa pascaliana. «La fede può essere proposta o vissuta non come verità dimostrata o dimostrabile, ma come scelta, come rischio di un impegno senza riserve, come scommessa», mi ripeté quasi sottovoce. Addirittura pensai che fosse una sorta di cortese generosità, abituale nei miei confronti, verso di me non credente. Mentre sentiva venir meno le forze residue ed era costretto a ricorrere alla bombola di ossigeno per respirare. Ma, ripensandoci, ne compresi la pienezza di fede, il suo personale, continuamente ricercato e ravvivato rapporto con Dio. Mi venne allora in mente il versetto che spesso citava: «Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad gehennam». La fede non è riducibile a una dottrina, è libertà, è coscienza. A questo proposito non ha esitato a interloquire e a discutere, nei suoi ultimi interventi su «la Repubblica», il modo con cui Benedetto XVI affronta il nesso tra fede e ragione e la storicità del diritto di natura. Religione e fede, a suo parere, non possono essere identificate. Sono due ‘grandezze’ per così dire diverse. L’una, la religione, è credere nella verità rivelata, appartenenza di tradizione, di storia, di cultura. L’altra, la fede, è il rapporto con Dio, che è un rapporto di devozione e sottomissione, ma pugnace, combattuto, e sempre personale. E la persona per lui significa individuo innalzato a valore. Il legame tra le due grandezze sta nel fatto che «non si crede da soli, ma solo e sempre in una comunità credente e orante». Per questi motivi era come spaurito di fronte alla fede dei giovani di oggi. «Questo clima di incertezza sul futuro» scrive «spinge verso il rifiuto di ogni prospettiva di fede, di ogni valore – visto che nulla è garantito – e verso una fede senza dubbi, senza ricerca, che possa rappresentare psicologicamente un punto saldo di approdo». Per Pietro, invece: «una fede che non dubita è una fede morta», ripeteva con Miguel de Unamuno, (Un cattolico a modo suo, Morcelliana, Brescia, 2008, p.15 e p. 48). 

 

Il pontefice Paolo VI lo definì «un cattolico a modo suo». C’è in questa definizione non soltanto una indubbia acutezza nel cogliere un tratto essenziale della personalità di Pietro, ma anche qualcosa di più. Scoppola non ha mai concesso nulla ad atteggiamenti di eresia e neppure di dissenso più o meno pregiudiziale. Questi comportamenti erano considerati da lui manifestazioni di aristocraticismo intellettuale e personale, se non anche, talvolta, di sciocco esibizionismo. Ferme erano le sue convinzioni, ma altrettanto ferma era la sua fiducia nel confronto democratico, nel dialogo, nella capacità di ascolto, nel rispetto non soltanto delle regole democratiche, ma anche della tradizione e del sentimento popolare. Scoppola non ha mai messo in discussione il principio di autorità del pontefice, ma, nello stesso tempo, ha sempre denunciato, in particolare negli anni più recenti, quella che definiva la «Chiesa del silenzio», che parla con una voce sola, sia pure autorevole, come quella del Papa. Sovente mi ha detto che non amava le piazze piene e le chiese vuote e silenti. Verso la gerarchia ecclesiastica, diceva, occorre obbedienza, ma obbedire in piedi, non in ginocchio. Egli rifiutava le etichette. Perciò era critico verso espressioni, quali cattolico liberale, cattolico popolare, e persino cattolico democratico lo sentiva un po’ stretto. Talora li utilizzava, perché era consapevole che non esistono «cattolici senza aggettivi», e anche i cristiani sono «dentro una cultura, una estrazione sociale … insomma una scelta di campo e tanti condizionamenti reali» (La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita. Intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, Roma-Bari, 2005, p.14). Un cattolico a modo suo è il titolo che volle dare, con una punta di orgogliosa compiacenza, al suo ultimo libro, pubblicato, per sua scelta, per i tipi della Morcelliana, una casa editrice cara a Paolo VI. Me ne parlò con sollievo, nell’ultimo incontro che abbiamo avuto, per essere riuscito in pochi mesi a dare di sé l’ultima testimonianza. Una testimonianza sobria e sincera, in cui fa i conti con se stesso, con la lucidità del laico e la serenità del credente. Come mi disse, era, per certi versi, un ritorno ai pensieri che lo avevano arrovellato in gioventù. Fino all’ultimo, in questa sorta di piccolo testamento spirituale, non esita a esporre i suoi dubbi e le sue convinzioni sui temi più discussi e spinosi, che tormentano la Chiesa cattolica: sulla contraccezione, sui sacramenti alle persone divorziate, sull’ordinazione femminile, e persino sui novissimi, a partire dalla vexata quaestio dell’inferno. E sempre con al centro la problematicità della fede e la saggezza del dubbio. Non si è mai presentato, come ha detto Oscar Luigi Scalfaro, «come credente in divisa, questa divisa che subito divide perché io non sono come gli altri, non sono come voi. Lui infatti è sempre stato totalmente eguale». 

 

Il mondo cattolico e la democrazia italiana 

Non è mia intenzione, né ho la competenza necessaria per ricordare l’elevato contributo che egli ha dato agli studi storici. Altri l’ha già fatto, e lo potrà fare in futuro molto meglio di me. Una delle sue qualità – l’ho già detto – era la generosità e pertanto la capacità di formare allievi di notevole levatura, orientarli e seguirli, all’università e nella vita associativa. 

Credo che la sua passione politica risalga agli anni giovanili. In La democrazia dei cristiani dice che il suo primo riferimento è stato don Primo Mazzolari, un riferimento almeno curioso per un giovane proveniente dalla borghesia romana e cresciuto in una scuola molto cattolica, addirittura gesuita, come il liceo Massimo. Ma solo parzialmente, perché, in quegli anni di guerra e del crollo del fascismo e subito dopo la fine della guerra per un giovane di formazione cattolica l’antifascismo, democratico e progressista e soprattutto in prima persona, di don Primo Mazzolari aveva una forte attrazione. Tuttavia, il suo impegno politico, vero e proprio, inizia a partire dagli anni Settanta. Prima c’è stata la partecipazione, appassionata e intensa, ai lavori del Concilio Vaticano II, che ha lasciato in lui un segno molto profondo nella sua attività e opera futura. E prima ancora il lavoro di storico, cioè lo scavo nella storia italiana, specialmente sul rapporto tra questa storia e la Chiesa e il mondo cattolico dal Risorgimento a oggi. 

Il suo interesse precipuo, in questi anni, ma anche dopo, è nei confronti dei movimenti politici laici all’interno della Chiesa cattolica: il neoguelfismo (1957), il modernismo e la formazione, poi fallita, della prima Democrazia cristiana (1961), fino alla nascita del Partito popolare (gli studi compresi in Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, Il Mulino,1966), Chiesa e lo Stato nella storia d’Italia e La Chiesa e il fascismo (Laterza 1967 e 1970). Anche nei lavori del Concilio 

Vaticano II uno dei punti che più gli premeva, come cattolico e come intellettuale, è stato il ruolo autonomo, la responsabilità dei laici nei confronti del clero e della Chiesa in generale. 

Il cuore della sua ricerca, storica e teorica, che durerà tutta la vita, è, infatti, il rapporto tra democrazia e cattolicesimo. Ricordava e citava spesso Alexis de Tocqueville e in particolare i due splendidi tomi La democrazia in America, in cui Tocqueville rivendica alla religione, e a quella cattolica, più che a quella protestante, un ruolo regolatore e moralizzatore della democrazia, in quanto contiene e tempera la passione egualitaria, e quindi protegge i cittadini contro le pretese irragionevoli a conoscere e dunque a rivoluzionare tutto, mentre affida a Dio la questione dei fini ultimi e del destino dell’umanità. La credenza o «l’ardore per l’eguaglianza», per Tocqueville, è inevitabile. Ma, affinché sia compatibile con la libertà, deve essere parte dell’ordine sociale e 

del processo democratico. La condizione sine qua non per cui la religione possa svolgere questo ruolo è che ci sia una separazione tra potere politico e religione, e pertanto una concezione laica della vita politica. Se c’è «unione intima» con la politica la religione perde la propria universalità. E lo stesso accade allo Stato e al potere politico. Scrive Scoppola, seguendo Tocqueville: 

 

Lo stato laico ha bisogno della religione. Ma la religione deve accettare in pieno la laicità per svolgere il ruolo di lievito della democrazia. [E ancora:] La democrazia sfida ogni religione, perché si fonda sulla libertà di coscienza e sul principio di maggioranza che può entrare in conflitto con i criteri di verità proposti da una religione. 

 

L’esperienza religiosa ebraico-cristiana è quella che ha offerto alla democrazia il suo vero fondamento: il senso della fragilità, del limite, del peccato, della fallibilità umana fonda l’esigenza di stabilire i diritti individuali dell’uomo, di sottoporre il potere al controllo e alla necessità del ricambio. 

 

Gli stessi concetti si trovano in Norberto Bobbio e Jürgen Habermas, due intellettuali agnostici, ma che hanno compreso a fondo la portata della tradizione e del sentimento popolare religioso. Andando oltre Tocqueville, Scoppola sottolinea due concetti. Il primo è il nesso originario tra cristianesimo e la democrazia: il secondo concetto concerne il diritto soggettivo che il cattolicesimo deve maggiormente considerare, se vuole essere coerente con il nesso originario precedente e soprattutto affrontare la modernità. Soggettività e libertà di coscienza, persona e fede sono i termini che, insieme a democrazia, forse più percorrono la sua ricerca storica e umana: 

La democrazia si concilia difficilmente con l’integralismo religioso di ogni colore; si concilia assai bene con la fede intesa come scelta personale rispettosa delle scelte diverse, come adesione ad una verità che trascende l’uomo sicché nessuno può dire di possederla come cosa sua, ma tutti devono cercarla. (Le tre citazioni precedenti sono tratte da La democrazia dei cristiani, cit., pp. 200, 14, 193, 210). 

Il mondo cattolico italiano soffre di una sorte di anemia religiosa e culturale, di arretratezza culturale, che non ha ancora chiaramente preso coscienza dei problemi più vivi del mondo moderno, che non ha ancora chiaramente risolto il problema della libertà, che si dibatte nelle strettoie del vecchio clericalismo. (Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna, 1966, p.322). Scoppola ripeteva spesso l’espressione di Aldo Moro che i cristiani, nei confronti della democrazia, avevano o, più esattamente, potevano avere qualcosa di più: il principio di non appagamento, che derivava loro dalla religiosità vissuta in modo completo e senza ipocrisia. Ha ricordato Leopoldo Elia, amico di una vita, che Scoppola «non poteva permettere che la religione fornisse alibi a condotte transigenti e disinvolte». 

Conseguentemente a quanto detto l’analisi storica, e politico-culturale, di Scoppola sul rapporto tra la Chiesa e più in generale tra il mondo cattolico e la democrazia italiana è molto realistica. Non è assolutamente ‘tenero’, nei suoi studi storici, nei confronti della Chiesa: Scoppola vede in questi limiti, che non sono leggeri persino nei termini (anemia religiosa, arretratezza culturale, clericalismo), una delle ragioni di fondo che hanno fatto sì che nel nostro Paese non si affermasse e avesse basi di massa un partito conservatore di chiara impronta democratica. 

Addirittura scrive che la Chiesa ha impedito o almeno ostacolato la costruzione di «un sentimento nazionale condiviso». Questi limiti, insieme all’orientamento prevalente del clero e delle gerarchie vaticane, sono stati determinanti per fare vincere le correnti più intransigenti e clericali, e far naufragare la prima Democrazia cristiana, quella di Romolo Murri, e il moto di rinnovamento religioso e culturale rappresentato dal modernismo, agli inizi del ‘900, e, negli anni seguenti, per condizionare e offuscare il programma e la politica del partito popolare, in contrasto con le aspirazioni autonomistiche e democratiche di Luigi Sturzo. Successivamente questo conservatorismo clericale ha avuto un peso considerevole nel determinare la connivenza e le compromissioni tra Chiesa e fascismo, a cui Pietro dedicherà pagine illuminanti e incontrovertibili. La democrazia italiana è stata segnata dalla freddezza, se non proprio dalla ostilità della Chiesa, le cui manifestazioni principali sono state la non separazione tra Chiesa e Stato, che, attraverso il Concordato del 1929, ha assunto anche i risvolti di «unione intima» con il fascismo, per usare l’espressione di Tocqueville, la non partecipazione dei cattolici alla vita politica, se non in modo ipocrita e non trasparente, il rifiuto a ogni processo di rinnovamento sociale. 

Questa tradizione è stata una zavorra negativa e pesante anche negli anni della Repubblica. Scoppola, giustamente, ha contribuito in maniera notevole ad allargare la visione della Resistenza e della lotta di Liberazione al fascismo, che non può essere ristretta, al ruolo, seppure primario, della guerra partigiana. La partecipazione alla Liberazione è stata molto più ampia. Soprattutto dalla caduta del fascismo in poi c’è stata una funzione, a livello di massa, oltre che dei militari, della popolazione civile, con un apporto molto significativo del mondo cattolico, che sta sempre più venendo in luce: nell’aiuto, anche con gravi rischi personali, dei perseguitati ebrei, dei militari italiani e stranieri delle truppe alleate, dei prigionieri e dei partigiani. Un contributo che va parecchio al di là di quella ‘zona grigia’ di chi stava in disparte e si era ritirato e rifugiato ‘nella casa in collina’ (25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino, 1995; La costituzione contesa, Einaudi, Torino, 1998). È significativo che Andrea Riccardi, suo allievo, abbia dedicato a Pietro il recente L’Inverno più lungo, sulla Roma città aperta del 1943-1944. 

Tuttavia, anche lui come Giuseppe Dossetti, che pure la guerra partigiana l’ha fatta, seppure senza sparare un colpo, conveniva che, in larga parte del mondo cattolico, non era avvenuto «un innamoramento serio» verso la Costituzione, nata dalla Resistenza. La Democrazia Cristiana, e in particolare la leadership di De Gasperi è dovuta partire da qui. Cercando di garantire alla rinascente democrazia italiana il consenso della Chiesa dopo le sue compromissioni con il fascismo, riportare alla democrazia quei ceti medi e quelle realtà popolari che avevano dato il loro consenso al fascismo, assicurare su questa base una valida resistenza democratica al comunismo. (A colloquio con Dossetti e Lazzati,14.11.1984, Il Mulino, 2003, p.131). 

Scoppola dà un giudizio positivo sul lavoro svolto dai partiti politici per far crescere e radicare la democrazia da quella che ha definito, forse nella sua opera più matura, la repubblica dei partiti (La repubblica dei partiti, Il Mulino, 1991, ed.11, 1997). Ma oggi è una democrazia ancora non del tutto consolidata; che contiene nel suo seno aspetti di fragilità e precarietà. Egli è convinto che il venire meno della DC non ha aperto la via ad una più dispiegata democrazia, ma ha fatto riemergere dal profondo della società italiana una realtà di arretratezza culturale e morale che la DC aveva a suo modo incanalato in espressioni e verso obiettivi politici.

Oggi, purtroppo, assistiamo a «uno sbandamento di gran parte del mondo cattolico verso una destra senza storia». Questo è stato il suo assillo nell’ultimo periodo della sua vita. Un assillo tanto più acuto in quanto era convinto, molto convinto che «la democrazia dei cristiani non può essere una nuova democrazia cristiana. La domanda dei cristiani, invece, oggi coincide con la democrazia di tutti», nella quale ci sia una grande tensione etica nel pieno rispetto della diversità tra laici e cristiani (La democrazia dei cristiani, cit., p.191). 

 

Passione politica come disegno per il futuro 

Come ho già detto in precedenza, Scoppola viene trascinato dentro la battaglia politica dal referendum sul divorzio nei primi anni Settanta. Scoppola è uno dei leader, forse il più autorevole, dei cattolici del no, di coloro cioè, che pur essendo convinti dell’indissolubilità del matrimonio cattolico, sostennero però la piena laicità dello Stato e quindi il diritto di legiferare sul divorzio. La notorietà, conquistata in quella occasione, in una certa misura, gli viene fatta pagare poco dopo, quando una parte del clero e della gerarchia vaticana chiede la sua estromissione dalla presidenza della commissione preparatoria del convegno molto importante, promosso dal Vaticano, su «Evangelizzazione e promozione umana». Venne difeso dal pontefice Paolo VI, che, come ho già ricordato, per quell’occasione coniò per Pietro la qualificazione di «cattolico a modo suo». In questi anni, è bersaglio anche di contestazioni violente: alla fine del 1968 all’università di Trento dove aveva avuto da poco la cattedra (si dimette dalla cattedra per non sottostare all’imposizione sui temi e sui metodi di insegnamento da parte del movimento studentesco), e, più pericolosamente, nel 1977, quando viene trovata sotto la sua automobile una bomba ad alto potenziale. 

Dopo l’esperienza a «il Mulino», che ha sempre considerato fondamentale nel suo cammino, nel 1975 è uno dei fondatori della Lega democratica, una delle fucine più interessanti e importanti, e purtroppo ancora poco studiata, dei cattolici democratici. Insieme al periodico «Appunti di politica e di cultura», sorto nel 1978 pochi mesi dopo il rapimento di Moro, e diretto in più occasioni da Pietro Scoppola, raccoglierà le riflessioni e le energie delle teste migliori del progressismo cattolico. Purtroppo molti di loro stanno scomparendo. È un’intera generazione del cattolicesimo democratico che se ne va, senza che si veda chi la sostituirà, almeno finora. Negli anni della Lega Democratica Scoppola, pur non essendo iscritto alla Dc, è fautore di un rinnovamento radicale della Dc. Scoppola è sempre più convinto che l’unità politica dei cattolici era un ostacolo non soltanto allo sviluppo democratico e civile del Paese, ma allo stesso cattolicesimo. Tanto da non escludere, in disaccordo con Aldo Moro, l’opportunità di una frattura della stessa Dc, se non si fosse rinnovata. In secondo luogo è convinto che per far crescere la democrazia italiana, anche come misura di igiene democratica, è necessario dare vita a un sistema elettorale e istituzionale che prevede l’alternanza tra campi opposti. Sulla base di questo disegno appoggia con convinzione la segreteria di Benigno Zaccagnini, prima e dopo il caso Moro. Anche dopo, con la segreteria di Ciriaco De Mita, considera possibile tale rinascita. Nel 1981, infatti, è uno dei più prestigiosi e ascoltati membri dell’assemblea dei cosiddetti esterni per rinnovare la Dc. Nel 1983 accetta di essere candidato come indipendente nelle liste democristiane e viene eletto senatore. Farà parte della commissione bilaterale Bozzi per le riforme istituzionali, dove proporrà una riforma elettorale di tipo tedesco per favorire la partecipazione dei cittadini e l’alternanza di schieramenti contrapposti, uno progressista e l’altro conservatore. Inoltre – altra sua iniziativa significativa – presenterà la proposta di rivedere il Concordato con la Chiesa e di inserire nella scuola l’insegnamento di cultura religiosa, a partire dalla Bibbia, facendo divenire facoltativo, in orario non curriculare, l’insegnamento confessionale. A questo proposito mi ha raccontato con un certo gusto che l’iniziativa era stata ritenuta un po’ avventurosa da parte del gruppo comunista e in particolare del senatore Gerardo Chiaromonte, che pertanto non la appoggiò. 

Sicuramente non è stato il mancato successo di queste iniziative a farlo desistere dal candidarsi nuovamente nel 1987, ma piuttosto la convinzione che per avviare la terza fase della politica italiana occorreva procedere con altri mezzi. Di qui la stesura, in gran parte opera sua, delle nove tesi per l’alternanza (1988), a cui segue, già nel 1990, l’impegno, insieme a Mario Segni, a favore del referendum che, nel 1993, ha introdotto il maggioritario. 

In quegli anni partecipa attivamente ai tentativi di nuova aggregazione politica, che puntano a costruire uno schieramento democratico e progressista: i Popolari per la riforma e Alleanza democratica. Punto centrale di queste nuove alleanze è l’intesa con gli ex Pci, dopo il crollo del comunismo e la svolta del 1989, che porta alla costituzione dei Ds. 

Pietro Scoppola non è mai stato un cattocomunista. Pur riconoscendo al Pci e soprattutto ai suoi militanti una tensione etica e spirituale con cui era necessario confrontarsi e dialogare, lo ha sempre combattuto in quanto riteneva che il Pci continuasse a essere troppo «morbido» e «concessivo» non soltanto nei confronti del comunismo sovietico e della rivoluzione d’ottobre, ma anche, più a fondo, di quella che egli definiva «la cultura della rivoluzione», la quale porta inevitabilmente al giacobinismo e al terrore come mezzo di comando. E questo perché è intrinsecamente una cultura della verità assoluta. «La rivoluzione» scrive «è un mito fuorviante per la democrazia» (La repubblica dei partiti, cit., prefazione, p.26). Il comunismo, tuttavia, così diceva, va combattuto con l’anticomunismo democratico, quello praticato dalla Dc nel dopoguerra per merito della leadership di De Gasperi. Scrive: 

 

Non si comprende la storia della Repubblica e l’opera di De Gasperi, se non si dà il giusto rilievo a questa categoria dell’anticomunismo democratico, troppo a lungo ignorata, di un anticomunismo cioè convinto di potere e dovere far fronte alla pressione comunista con gli strumenti della democrazia, nella Costituzione, nel rispetto della legge, in Parlamento, sulla base del consenso democratico dell’elettorato. (Relazione De Gasperi, tra passato e presente, Valsugana, 

19.08.2004). 

 

Scoppola non era mai stato un seguace di De Gasperi, ma, studiandolo (La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, 1977), ne apprezza la profonda spiritualità e si rende conto e riconosce la lungimiranza politica del leader trentino, proprio per il rinnovamento sociale e per il consolidamento della democrazia italiana. 

Lo spartiacque nel rapporto con i comunisti italiani, anche per lui, è il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Già prima erano avvenuti contatti e convergenze, ma si era sempre mantenuto alquanto distante; tanto da essere alquanto critico verso quel gruppo di cattolici, con i quali aveva rapporti di amicizia, che avevano accettato di prendere parte alla lista della Sinistra indipendente a fianco del Pci. Ma dopo Moro si convince sempre più che dal confronto occorreva passare alla ricerca dell’intesa con il Pci. Anche in uno dei suoi ultimi scritti ha insistito sul fatto che la vicenda Moro è stata una grande occasione perduta per dare compimento alla transizione italiana. Per due motivi: la mancata «interpretazione politica unitaria e coerente» si è tradotta in delusione e sfiducia nella democrazia e nella politica (Introduzione a La coscienza e il potere, Laterza, Roma-Bari, 2007). 

Il decennio 1980-1990, dopo l’assassinioMoro, è per Scoppola «uno dei più cupi della storia della Repubblica», durante il quale «il popolo cristiano diventa muto» (La democrazia dei cristiani, cit., p.154). Il crollo del comunismo sovietico del 1989 elimina in Scoppola ogni riserva e ogni ombra sulla necessità di procedere ad una intesa piena tra le forze che hanno dato vita alla Costituzione per rendere compiuta la democrazia italiana. Di qui la sua battaglia referendaria e la sua ferma convinzione che fosse necessario superare definitivamente quelli che erano stati i macigni miliari, contrapposti, della politica italiana: l’unità dei cattolici e l’unità delle sinistre. In un primo tempo Scoppola aveva pensato che le riforme istituzionali o soltanto elettorali potessero accelerare la transizione italiana. Ma in uno dei suoi ultimi interventi questa illusione è completamente caduta e dirà: 

 

Abbiamo un po’ tutti commesso l’errore di immaginare la transizione italiana ad un livello esclusivamente politologico; di non vedere le condizioni più profonde culturali ed etiche. Abbiamo immaginato che il passaggio al maggioritario e al bipolarismo garantisse per sé solo il compimento di quello che ho chiamato il processo fondativo della democrazia italiana. (Assemblea dei Cittadini per l’Ulivo, Roma, 17 marzo 2007). 

 

Egli, a dire il vero, ha sempre avuto una riserva di fondo nei confronti della proposta di una nuova Costituente, persino nell’uso del termine, pur essendo favorevole a rivedere alcune norme di essa, senza però stravolgerne i principi e il dettato di fondo. Nella Costituente, secondo lui, si celava o si mascherava una radicalità e una deriva che egli non condivideva nel modo più assoluto come ha testimoniato la sua battaglia per la difesa della Costituzione nel referendum del 2006, contro la legge del governo Berlusconi che la modificava radicalmente in senso autoritario. 

Infine non sottoscrisse il referendum Guzzetta-Segni di modifica dell’attuale legge elettorale, perché, diceva, l’esito di esso sarebbe «destinato a coprire il più spregiudicato trasformismo» con un risultato dunque opposto a quello perseguito. Pur essendo sempre favorevole a un sistema bipolare che favorisse l’alternanza di schieramenti contrapposti, negli ultimi anni era meno persuaso della validità del sistema elettorale maggioritario e si pronunciò per il modello spagnolo che aveva il merito, attraverso il disegno di piccoli collegi, di condurre i partiti al bipolarismo senza accedere a premi di maggioranza e senza clausole di sbarramento o altri marchingegni come il recupero dei resti che falsano il voto. Agostino Giovagnoli, uno dei suoi allievi, («la Repubblica», 26-10-2007) si è chiesto, a proposito della sua azione politica, se si può parlare di sconfitta oppure di fallimento politico e offre una risposta che mi trova d’accordo. In realtà Scoppola «ha perseguito una missione impossibile: cambiare il costume civile e politico degli italiani, facendo leva contemporaneamente su un rinnovato senso religioso e su un profondo spirito laico». Riformatore religioso e riformatore dello Stato e della democrazia, questo è stato Scoppola, che ha candidamente confessato: 

 

Sì, la politica mi ha appassionato, ma per quello che non riesce ad essere molto più per quello che è; [cioè] come politica in sé, come disegno per il futuro, come valutazione razionale del possibile e come sofferenza per l’impossibile, come chiamata ideale dei cittadini a nuovi traguardi, come aspirazione a una uguaglianza irrealizzabile che tuttavia è il tormento della storia umana (Un cattolico a modo suo, cit., p. 47). 

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