L’etica e il futuro della democrazia
di Gaspare Mura
La crescente specializzazione funzionale del lavoro in generale, e di quello intellettuale in particolare, ha contribuito all’accresciuta complessità che caratterizza oggi i tre ambiti generali della politica, dell’economia e del diritto, sia a livello nazionale che sovra-nazio- nale. Tale fenomeno che, com’è noto, non riguarda più solamente i paesi occidentali e che rende i li che legano l’etica alla prassi sem- pre più dif cili da individuare, sta avendo notevoli ripercussioni sia sulla con gurazione dei saperi che della cittadinanza così come si è imposta dal dopoguerra ad oggi. Nuove professionalità di tipo tec- nocratico si affermano ovunque diventando sempre più il tramite fra centri decisionali di vario genere ed i cittadini.
La cruciale importanza di una problematizzazione interdisciplinare della questione tecnocratica viene ormai riconosciuta sia nell’am- bito delle democrazie liberali che in quello di regimi politici che,
pur non essendo ancora tali, aspirano a trasformarsi in senso liberal- democratico. Nella fase storica attuale è diffusa la convinzione se- condo la quale le identità, individuali e collettive, siano un qualcosa di eminentemente disponibile, ossia producibile e riproducibile ad libitum, cui deve corrispondere un pronto riconoscimento da par- te degli apparati statali e sovra-statali amministrativi e di governo. Esiste, dunque, la forte tendenza a rivestire del linguaggio dei diritti qualunque rivendicazione libertaria. L’etichetta di ‘vera democrazia’ nisce per essere attribuita solo a quei sistemi che riconoscono e proteggono come tale ogni bene ritenuto degno di tutela da parte di chi, gruppi o individui, lo propone in quanto bene. Ripetendo che in democrazia nessuna decisione o deliberazione può avere a che vedere con la ragione o il torto, con la verità o l’errore, si nisce per ridurre quella della liceità delle aspirazioni al pieno riconoscimento delle istanze di libertà e dei comportamenti individuali ad un insie- me di questioni risolvibili solo sulla base della mera forza numerica, del mero arbitrio, ossia di ciò contro cui la democrazia moderna si è posta come rimedio. L’esperienza e la comprensione del valore e del signi cato dell’esercizio responsabile dei diritti e dei doveri di cittadinanza rischiano di mutare a tal punto che, come da più parti viene preconizzato, non si può escludere il rischio che emergano nuove forme di totalitarismo ideologico.
Si sta affermando, anche all’interno dei paesi che costituiscono l’Unione Europea, un modello ‘minimo’ di democrazia liberale in cui la partecipazione responsabile e consapevole dei cittadini viene concepita come metodo elettorale di scelta paci ca della leadership politica. Mentre la scienza economica indica che la via del libero svi- luppo e della crescita passa per l’abbattimento di tutti quegli osta- coli che rallentano le relazioni di mercato e la mobilità delle cose e delle persone indipendentemente dal senso o dalla ratio dei limiti che s’intende superare, la scienza giuridica mette se stessa al servi- zio di questa grande opera di erosione di vecchi limiti e barriere. Il diritto positivo si è ripiegato per intero nelle procedure, che, lungi dall’intrattenere un rapporto esistenzialmente signi cativo con una verità fondante, come recipienti, sono capaci di accogliere qualsia- si contenuto. In un contesto in cui a causa degli effetti della cd. information revolution risulta ormai dif cile trovare anche un solo aspetto della nostra vita che non sia pesantemente in uenzato dallo scambio rapido e continuo d’informazioni di vario genere, politica, diritto, economia ed il sapere tecnocratico in generale si presentano sempre più come congegni di organizzazione della essibilità e della contingenza. Tecnocraticizzandosi, ovvero retrocedendo al rango di amministrazione o gestione dell’esistente, la politica sembra abdi- care ad una delle sue funzioni storiche più importanti in quanto, anzichè frenare o comunque governare gli sviluppi e le trasforma- zioni disgreganti rispetto ad una convivenza sociale esistenzialmente signi cativa, paci ca e rispettosa degli equilibri ambientali, li reputa spesso come fattori di stimolo alla luce di nuovi modelli di bonum commune proclamati dinamici ed innovativi. In questo contesto, si pone in modo pressante il problema della ride nizione della sostan- za etica della teoria e prassi della dignità della persona, della sua libertà e responsabilità e, di conseguenza, la domanda sul bonum commune come nalità primaria della politica.
La democrazia dubita di se stessa. È urgente chiedere se siamo di-
nanzi a una sua crisi involutiva o se la democrazia ha un domani di fronte ai problemi che l’angustiano, e che ne rendono insuf ciente una determinazione solo desostanzializzata e procedurale. Risuonano le questioni: quale sarà il suo futuro tra crescenti aspettative individ- uali e scarsa identi cazione comunitaria? Su quali basi possiamo an- cora credere alla democrazia? Dobbiamo considerarla irrinunciabile e tenercela stretta? Sono domande che tanti concittadini si pongono, e noi con loro. L’attenzione è catturata in particolar modo dai nuovi problemi che assillano la democrazia e che, aggiungendosi ai vecchi non ancora risolti, rischiano di appesantirla oltremisura.
E’ doveroso allora chiedersi: quale futuro della democrazia? 1La do- manda sul futuro della democrazia è tutt’altro che nuova, ed anche per questo è così importante: è ovvio che si riprendano incessante- mente le domande che contano, non quelle super ciali e scontate. Inoltre è questione ardua per la velocità del mutamento sociale e culturale in Occidente, e la conseguente dif coltà cognitiva e predit- tiva. In ogni caso tale domanda percorre da un capo all’altro il ca- polavoro di Tocqueville, e si fa più stringente ed ansiosa in specie nel terzo libro di La democrazia in America, composto qualche anno dopo gli altri due. Ascoltiamo un suo brano:
Perché vi sia una società e, a più forte ragione, perché questa soci- età prosperi bisogna, dunque, che tutti gli spiriti dei cittadini siano sempre riuniti e tenuti insieme da alcune idee principali, e ciò non potrebbe avvenire se ognuno di essi non venisse ad attingere le sue opinioni alla stessa fonte, e non accettasse di ricevere un certo nu- mero di credenze belle e fatte.
Che Tocqueville avesse ragione nel considerare fondamentale la con- divisione di ‘alcune idee principali’, lo mostra il fatto che numerosi loso pubblici contemporanei hanno fatto ricorso al metodo del consenso pubblico-pratico in democrazia, e tra questi si annoverano esponenti diversi per formazione e origine come J. Maritain, J. Rawls e M. Nussbaum. La frase tocquevilliana affonda le sue radici in una lunga e grande storia iniziata nel ‘600 e proseguita dall’Illuminismo e poi dal cristianesimo ‘teologico-politico’ come soluzione al prob- lema di cercare una base comune per il con-vivere civile, non solo al di là delle contrapposizioni religiose, come spesso e riduttivamente si ricorda, ma come fondamentale garanzia che la vita comune non degeneri in una incomprensione generalizzata e nell’impossibilità del dialogo. Se la democrazia è governo attraverso la discussione e la deliberazione, che favoriscono l’inclusione, non vi è soluzione al problema senza la costruzione di un consenso compartecipato su nuclei centrali, che potremmo chiamare i fondamenti prepolitici della democrazia.
Il costituzionalista tedesco Ernst-Wolfang Böckenförde, nel saggio
1 Norberto Bobbio pubblicava nel 1984 presso Einaudi un importante saggio dal titolo: Il futuro della democrazia . Il titolo dell’Annuario di loso a 2011 (Mimesis, Milano) riprende in altro contesto e con altri intenti lo stesso tema: Il futuro della democrazia. L’identità del titolo non può celare le grandi differenze di contesto, contenuto e problematiche intervenute da allora. Il libro bobbiano portava un sot- totitolo chiaro ed esplicito: Una difesa delle regole del gioco. Questo compito è certo rimasto importante, ma non costituisce forse più il punto apicale in ordine al futuro della democrazia, e in certo modo non lo era neppure per Bobbio che non fece mistero di ritenere essenziale un ‘appello ai valori’. Si tratta dei valori morali di tol- leranza, giustizia, libertà, indispensabili per una valida vita democratica.
La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione (1967), pro- pone una tesi su cui possono consentire quanti sono preoccupati per la democrazia, indipendentemente dalle ideologie o fedi di ri- ferimento:
“Lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio ch’esso si è assunto per amore della libertà”.
È questa tesi che ha permesso di instaurare un nuovo dialogo, posi- tivo per entrambe le parti, tra il cristianesimo e la cultura postmo- derna, di cui è testimonianza il noto confronto tra J. Habermas e J.Ratzinger, pubblicato con il titolo: Ragione e fede in dialogo (Mar- silio, Venezia 2005).
Secondo Habermas le stesse religioni, e in particolare il cristiane- simo, risultano preziose e indispensabili alla società postsecolare af nché essa non ricada in una aberrante modernizzazione, in cui dominano i mercati, si esaurisca il senso della solidarietà, si esalti il privato sul pubblico, e si trasformino i cittadini in monadi isolate, af evolendo la speranza nella comunità internazionale, e si assista impotenti alla depoliticizzazione dei cittadini nel contesto di un’ economia e di una politica globalizzate; l’af ato messianico e la forte istanza etica della tradizione biblico-cristiana devono allora poter costituire, nell’ambito delle società postsecolari, non solo ter- mini di un dialogo fondato sul “riconoscimento” (Ricoeur), ma una vera “s da cognitiva”, capace di mettere in discussione i limiti della stessa ragione postsecolare:
“Per questo- scrive Habermas- vorrei far entrare nella discussione il fenomeno della persistenza della religione in un ambiente sempre più secolare, assumendolo, però, non in qualità di semplice dato di fatto sociale. La loso a deve prendere sul serio questo fenomeno, per così dire, dall’ interno, assumendolo come una s da cogniti- va”.
In base a queste considerazioni, occorre interrogarsi allora sui fon- damenti della democrazia e sulla ‘costituzione’ come insieme di valori-guida. Alcuni grandi temi staranno alla base della democra- zia domani: l’idea di persona, le questioni eticamente sensibili, il compito del diritto, il nesso religione-politica.
I primi due nuclei si richiamano a vicenda e sono fortemente intrec- ciati, dipendendo da loro la possibilità di trovare un consenso (mo- rale e antropologico) compartecipato, che risulta previo per pro- cedere verso ideali di giustizia e di oritura umana. Tra i temi prin- cipali un discorso prolungato meriterebbe il nesso tra democrazia e dottrine sulla giustizia su cui si è ripreso a discutere enormemente da decenni, coinvolgendo il ruolo delle preferenze, desideri e di- ritti in democrazia, la domanda su quale pacchetto di beni questa deve offrire ai cittadini, e più generalmente il ruolo e l’ef cacia del canone contrattualistico di vario genere. Ci si può persino doman- dare se l’impostazione del tema della giustizia non vada ripreso da capo, riportando in servizio il tema del bene comune, in genere ostico al liberalismo politico. Molti problemi politici e sociali non possono essere affrontati con la teoria della scelta razionale, quale metodo per l’allocazione di un certo tipo di risorse. La razionalità pratica necessaria in democrazia va assai oltre l’astratta teoria della scelta razionale.
Nel campo della vita, della famiglia, dei diritti umani sorgono da
tempo molti problemi, spesso denominati ‘eticamente sensibili’, e una notevole varietà di risposte, che richiedono un lungo dialogo e consigliano di evitare la mera ricerca di soluzioni imperative ed esclusivamente af date al criterio di maggioranza. L’esistenza di di- verse visioni e comunità morali non suggerisce un ‘rompete le righe’ in cui ciascuno si regola in base alla sua visione, ma un dialogo teso alla comprensione reciproca, oggi così impegnativo per la persis- tente dif coltà di valutare le innovazioni scienti che e tecnologiche, in specie quelle che incidono sul modo in cui si nasce e si muore, sulla gestione del corpo nell’era della potenza tecnica, sulla possibil- ità stessa di trasformare la persona. In certo modo le dif coltà ver- tono sui nuovi modi con cui può essere interpretata la frase di Pascal secondo cui “l’uomo supera in nitamente l’uomo”.
Quest’ultimo punto, che rivela la indubbia centralità della questione antropologica, sta diventando sempre più decisivo, e tale da mettere a dura prova il criterio di Tocqueville di rimanere riuniti intorno ad alcune idee principali. In altri termini, il suggerimento benvenuto di attingere alla stessa fonte, o almeno di ricercarla, manifesta serie dif coltà quando i fondamentali criteri che innervano la democrazia - ci si può riferire in specie alla versione che ne dà il ‘liberalismo po- litico’ anglosassone e continentale - non sembrano in grado di gestire la centrale questione dell’identità: chi è persona e chi no? Sembra arduo se non impossibile risolvere questioni di identità ponendosi soltanto sul piano dell’etica, perché i problemi di identità si avviano a soluzione sul piano speculativo, ricorrendo alla sinergia di espe- rienza, scienza e ontologia. In tale sinergia si veri ca un uso pubblico della ragione, auspicato da tanti ma in modi spesso riduttivi, poiché tale uso pubblico non è affatto limitato alla scienza - come perlopiù si pretende - ma include la conoscenza e l’argomentazione ontolog- ica. Forse tra i fondamenti prepolitici della democrazia occorre an- noverare una ragione che non sia mutilata dallo scientismo.
Mentre nel diritto contemporaneo si compie il transito dal soggetto (giuridico) astratto alla persona (S. Rodotà ed altri), diventa sem- pre più estesa, forte e minuta la presa del diritto positivo sulla vita delle attuali società complesse. La sua pervasività crescente nelle democrazie conduce a un’ampia giuridi cazione dei rapporti umani, compresi quelli primari ed esistenziali, una volta lasciati all’ambito privato. Inoltre il pluralismo culturale delle società occidentali pone sulle spalle del diritto nuovi compiti di boni ca sociale, e lo rilan- cia come indispensabile fattore coesivo della convivenza, altrimenti lasciata allo sparpagliamento centrifugo di singoli e gruppi. Ciò ac- cade quando il losofo e il giurista intravedono il grande rischio del nichilismo giuridico col suo concetto arbitrario di legge e di ri uto di ogni forma di diritto naturale. Nel nichilismo giuridico il con itto tra Legge e Ragione raggiunge l’acme: la prima è un prodotto del solo volere (del più forte, di una qualsiasi maggioranza) e la ragione non vi ha parte alcuna.
Tale nichilismo è una possibilità sempre incombente, non una tigre di carta che si congeda con uno schiocco. Lo abbiamo sperimentato dolorosamente in passato, e non vi sono motivi per escluderlo ot- timisticamente in futuro: i germi della disgregazione sono sempre all’opera e nessuna valida conquista è mai acquisita per sempre. Il nichilismo giuridico eleva un grave rischio per la democrazia, il cos- tituzionalismo e quella base di valori comuni auspicata da molti. Il
nichilismo ha ben poco a che fare con l’alternativa meramente logica tra essere e nulla, ma concerne la domanda sulla verità e quella sul valore dell’essere umano. In prima battuta vi è nichilismo quando si ritengono da abbandonare i concetti di verità e bene, e la persona umana è ridotta a qualcosa di insigni cante.
Il nichilismo giuridico in uisce, getta la sua ombra sui diritti umani e sul costituzionalismo, avvertendoci che i guadagni costituiti dalle Carte dei diritti e dalle Costituzioni moderne vanno salvaguardati proprio in ordine all’avvenire democratico. Tuttavia il valore giuridi- co delle Costituzioni quali espressioni supreme del diritto positivo non rende super uo il livello del diritto naturale. Alla domanda se non vi sia più bisogno del diritto naturale, essendo i valori fonda- mentali divenuti positivi con le moderne costituzioni, occorrerebbe dare risposta negativa. Forse gli autori che sostengono forme di ‘neo- costituzionalismo’ come sostituto funzionale del diritto naturale, sarebbero in dif coltà ad animare una solida giusti cazione soltanto empirica delle prospettive centrali del neocostituizionalismo. Ascoltiamo una seconda volta Tocqueville:
Non vi è quasi azione umana, per quanto particolare, che non nasca da un’idea generale che gli uomini hanno concepito di Dio, dei suoi rapporti con l’umanità, della natura dell’anima e dei doveri verso i loro simili. Non si può negare che queste non siano la fonte da cui de- riva tutto il resto. Gli uomini hanno, dunque, un immenso interesse a farsi idee ben salde su Dio, l’anima i doveri generali verso il Cre- atore e verso i propri simili, poiché il dubbio su questi ultimi punti abbandonerebbe tutte le loro azioni al caso e li condannerebbe, in un certo senso, al disordine e all’impotenza. Questa è, dunque, la materia su cui è necessario che ognuno abbia idee ferme, e disgrazi- atamente è anche quella in cui è più dif cile fermare le proprie idee con il solo sforzo della ragione’.
Così scrivendo, Tocqueville sosteneva il ruolo centrale del vero in politica e democrazia, ed apriva uno spazio per il compito della fede religiosa entro la sfera pubblica, poiché nelle questioni centrali da lui enunciate il solo ricorso alla ragione non è ultimamente risolutivo. Egli si muoveva dunque anche oltre la questione che da circa cen- tocinquantanni anni prende il nome di ‘laicità’. Indubbiamente essa resta al centro, come mostra da decenni l’animato dibattito che le è dedicato, ma si è fortemente trasformata ed ampliata includendo temi che in passato avevano una trattazione separata, e tra questi quello del signi cato della verità nelle democrazie: possono le democrazie fare a meno della verità? Possiamo procedere solo in nome del rispetto e della caritas, separando verità e carità? Se l’apostolo Paolo invita a fare la verità nell’amore di dilezione (Veritatem facientes in cari- tate), non sarà altrettanto necessario rispettare ed amare nella verità (Caritatem facientes in veritate)? Verità e carità di per sé fomentano il dialogo, uniscono, non separano, né conducono necessariamente all’intolleranza. Si può ef cacemente cooperare con chi difende po- sizioni diverse e una concezione diversa della verità, dunque entro una società pluralistica culturalmente e religiosamente, purché si cerchi un accordo pratico alto: non vi sono motivi necessari per cui la diversità di posizioni sul vero debba condurre ad impugnare la spada ed intendere l’altro come un nemico da emarginare.
La costante tensione alla verità è costitutiva dell’essere umano, e non è una buona partenza metterla da parte, neppure in politica. Quello
stesso Giovanni in cui leggiamo ‘In principio era il Logos’ (che è identicamente Verbum e Ratio, Parola e Ragione), scrive pari- menti: ‘Deus caritas est’, Dio è amore di dilezione. Dio-Logos è identicamente Amore. L’uomo non separi ciò che in Dio è unito e identico, né separi nel suo pensare ed agire veritas e caritas.
Se c’è una loso a politica come trattazione loso ca della po- litica e della democrazia, non sarà solo un’introduzione al passag- gio dalla vita politica alla vita loso ca (come sembra intendere L. Strauss), ma suo compito sarà di cercare il vero, il vero pratico almeno, e di saper dire una parola di verità che allontani la men- zogna. E ognuno sa quanta parte abbiano la menzogna e l’inganno nella strategia politica vissuta.