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Déraison filosofica e interpellanza poetica. Un singolare tentativo di commercio con l’oscurità

Alcune domande 

a Giovanni Invitto

a cura di Bachisio Meloni

D.: Professor Invitto, mi permetta di iniziare la nostra conversazione non senza aver fatto prima cenno a quanto è stato osservato in precedenza in questi nostri dialoghi, ad esempio riguardo all’interpretazione filosofica chiamata in causa in vista di possibili soluzioni e azioni determinanti in ambito, ad esempio, più specificamente politico o economico, ossia in vista di possibili ottenimenti pratici, in attesa magari di nuove indicazioni di percorso nell’ambito della progettualità, dello stare al mondo. Vorrei ribaltare la questione, chiedendomi al contrario se il compito del filosofo non sia in realtà quello di procedere nell’ambito dell’estraneità, con un passo oltre ogni singolo evento ed esperienza pratica, quasi al di là dunque del possibile; se il compito dell’ermeneuta, ben al di là del pur indispensabile recinto disegnato dalla filosofia kantiana, e con buona pace per l’intento prometeico della proposta speculativa marxiana, non sia in realtà quello di procedere in ambiti e territori la cui indeterminatezza ai margini di ciò che un tempo era relegabile più che altro alla dimensione degli inferi, all’insondabile – da Nietzsche ad Heidegger – rende difficilmente ipotizzabile qualsiasi presupposto ideale, sia esso etico ancor prima che teoretico.

 

Il quesito è suggestivo e mette in causa tanto l’essenza del pensare filosofico quanto il rapporto del soggetto-filosofo con la realtà storico-politica ed esistenziale. Non ho mai pensato che quello che chiamiamo, solo per intenderci, “filosofo” abbia la funzione di mosca cocchiera della comunità. Anzi si tratta di abbandonare pretese élitarie e narcisimi intellettuali. L’oggetto del filosofo non è quello di dar senso, ordine, efficacia alla situazione, bensì di radicarsi nel nonsenso che ognuno di noi avverte dentro di sé. È un nonsenso che ci costituisce, di cui dobbiamo tener conto, che dobbiamo accogliere ed accettare. “La più alta ragione confina con la déraison” (Merleau-Ponty): il che non vuol dire che noi abbiamo di che crogiolarci e rassegnarci alla nonragione, ma prenderne atto e finalizzarla nell’esistenza individuale e collettiva. Le fedi, le emozioni, le passioni (ciò che veramente è universale nel soggetto, come affermava Soren Kierkegaard) vanno conservate, curate, tutelate, così come Francesco d’Assisi che nel suo orto lasciava crescere le erbe selvatiche, senza estirparle, accanto agli ortaggi e ai fiori che erano stati seminati. Ha scritto Alain: «Chi non vede che il migliore dei nostri pensieri è in alcune passioni salvate?» Non so se quello di cui stiamo discutendo siano gli inferi, so bene che stiamo parlando di noi stessi, dell’uomo e dei suoi chiaroscuri. Non si tratta di semplice rassegnazione, né di resa, ma occorre capire che la realtà  non è solo la ragione e dobbiamo adoperarci per costruire percorsi comunque produttivi per noi e per gli altri.  

 

D.: In questo senso, riferendomi ai Suoi percorsi di studio (penso in particolare a Narrare fatti e concetti, Milella, Lecce 1999) mi sembra di capire come la ricerca speculativa, per quanto distante in virtù dei suoi tratti specifici – e per quanto debole la propensione ad una revisione dei meccanismi di scrittura filosofica –, sia rivolta pur essa forse in modo ancora più esplicito, e ben al di là degli schematismi tradizionali, verso ciò che suscita l’interrogazione poetica e letteraria; anzi, come interrogazione filosofica ed interpellanza poetica viaggino da sempre in virtù di un formidabile legame di reciprocità sulle basi di un singolare tentativo di commercio con l’oscurità: al pari dell’io frantumato del poeta, anche l’avventura del più umile fra i pedoni della filosofia è toccata – così almeno fin dalle sue più lontane origini, come in ambito tardo novecentesco – dal materiale incandescente, lavico del thaumàzein, ossia da quella stessa meraviglia e da quello stesso orrore suscitato dall’ordine o disordine universale.

 

Sono d’accordo. Oggi è ormai legittimo considerare la messa in discussione della filosofia intesa come sistema concettuale, e ricondurla ad essere un fenomeno storico-esistenziale effettivo. C’è chi riporta questa svolta a Nietzsche, c’è chi la retrodata… Comunque sia, la crisi della filosofia come pensiero sistematico e onnivoro apre lo spazio anche alla filosofia come atteggiamento e come comprensione. E questo percorso di comprensione può essere anche un percorso di narrazione. Quasi sempre la filosofia ha dimenticato la propria essenza di racconto e adopera il genere del sistema e del trattato, ritenendo che il suo essere esoterica sia compagno di verità e di profondità. Maria Zambrano, da parte sua, ha invitato la filosofia alla consapevolezza, perché, quando essa fa la propria storia, spesso dimentica “sdegnosamente” ciò che gli uomini devono ad altri saperi “la cui origine è più in là o più in qua di essa. Ciò che si deve, per esempio, alla poesia e al romanzo”.

Allora la questione è se gli altri generi narrativi, che pure sono stati sempre presenti nella filosofia, stiano semplicemente ad indicare una pluralità di possibilità espressive della filosofia o se oggi, con la caduta del primato se non della esclusività  di alcuni modelli, non ne possano costituire una delle vie privilegiate. La forma, in filosofia, è sostanza: si tratta di strumentare modelli e stili (per quanto si sia consapevoli che questo non sia sufficiente in assoluto) contro le false coscienze universalizzanti

 

D.: Le origini più remote del pensare coincidono con lo stupore e con lo scoramento (il thaumàzein) per il nostro essere in persistenza circondati e interpellati dal mistero, e la filosofia non è da meno in questo lasciarsi rapire dagli enigmi. Mi viene in mente, accanto alla più antica tradizione greca, l’esperienza ebraico-talmudica, in cui si predilige una modalità critica ispirata all’idea di interpretazione infinita dei testi e dedita al confronto con le innumerevoli stratificazioni del loro commento; non solo dunque passione e gusto retorico per gli enigmi, dinanzi ai quali ci si pone con l’animo e l’intento di chi non ha pretese di tradurre, quanto almeno di decifrare. Riflettendo su questa modalità del pensare e del conoscere – su questo metodo che impone non tanto la risoluzione degli enigmi, quanto il più severo e scrupoloso giudizio in grado però di mantenerli rispettosamente come tali, e fors’anche aggiungendone di nuovi – si richiede umiltà di parola, e parole che pur rimanendo in prossimità del Sacro, mantengono la loro provenienza e natura corporea e terrestre: questo mi sembra uno dei compiti e compimenti fondamentali (irrinunciabili) della meditazione filosofica, la quale fornisce elementi indispensabili perché l’idea di enigma non si produca come sovrastante dominio (soltanto) nel senso fascinoso e tremendo del mistero di fede o del poetico.

 

Certamente l’ermeneutica oggi privilegia un rapporto diretto, quasi un corpo a corpo con il testo, con l’enigma, come Lei afferma. L’enigma è come una di quelle “figure ambigue”, di cui si parla in psicologia, che il soggetto deve interpretare: nessuna interpretazione è totalmente giusta, nessuna è totalmente sbagliata. E l’enigma rimane enigma. Ma, a proposito di testi, ricorderei qui una importante frase di Gregorio Magno: “Divina eloquia cum legente crescunt”, cioè: le parole divine crescono con chi le legge. La parola “sacra” non è una pietra, è un lievito che cresce entro di noi e fa rampollare altre parole, altri sensi e, perché no, altri enigmi. Tutto ciò fa ritornare ad una domanda (viziosa?) su cosa sia filosofia. Spesso è trascurato un passaggio del 1820 contenuto nello Zibaldone. Leopardi afferma, ad un certo momento della sua vita, di essere filosofo. È noto che parla di una “mutazione totale”, un passaggio “dallo stato antico al moderno”, avvenuto nell’arco di un anno, il 1819, che coincide con la perdita della vista e, quindi, con l’impossibilità di dedicarsi alla lettura: “cominciai a sentire la mia infelicità in modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose [...], a divenir filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale”. La cosa, apparentemente paradossale, è che, divenuto “filosofo”, egli “sente” l’infelicità del mondo, mentre da “poeta” egli “conosceva” quell’infelicità, per quanto egli aggiungesse in un altro frammento che un grande filosofo è anche un grande poeta e viceversa. Traducendo tutto in un lessico a noi usuale, potremmo dire che la filosofia ci fa anche sentire quel nonsenso, quella déraison e quella “patìa” che possiamo esprimere nel narrare, scrivere, parlare. Sono echi, evocazioni, suggestioni che spesso non possiamo tradurre in rigidi concetti. Da ciò il nesso inevitabile tra filosofia e narrazione, nelle sue varie forme di cui partecipa la stessa filosofia. Pur non disconoscendo il valore della concettualizzazione – la filosofia esiste per questo – dobbiamo dire che i concetti possono essere rigidi e anchilosati, quindi non veri, se la verità fa corpo ed è relativa al contesto cui si riferisce.

 

D.: Come dire, tener desto il senso della domanda, del dubbio: su ciò ogni buona filosofia dovrebbe più adeguatamente insistire, vivendo il nucleo di ogni meditazione speculativa nella sua fondamentale duplicità, che è peraltro aporia e contraddittorietà dell’essente, della sua finitezza nel porre la questione del limite, o del confine. È questione specificamente filosofica e ciò, ma non solo, a dispetto di arte e fede, ambiti con cui il pensiero contemporaneo trova maggiori affinità; è “umiltà di potenza” dell’individualità precaria, di un’umanità filosofica che intraprende percorsi speculativi e tuttavia in grado di trascendere la fenomenologia dell’umano; è azione che riporta la questione più che al “dar ragione”, alle origini stesse, quelle più oscure e impenetrabili, del suo fondamento; e più che riportare-ricondurre all’“uno”, è spinta verso l’aporia, dialogo e ambivalenza del “due” del pensiero tragico. Filosofia dunque a stretto contatto con i tormenti della fede o con lo smodato e inaudito suscitare di immagini poetiche in grado di creare “condizioni” per un pensiero inavvicinabile, ad alta tensione emotiva e significativa, o pensabilità estrema delle idee o di idee difficilmente contenibili – “sconfinato teatro” di rilkeiana memoria. Ma che cosa dire quando si è nella convinzione di persistere in un sapere illusorio, tra protrarsi e ritrarsi del linguaggio, che è del resto pulsione assai prossima alla stessa ineffabilità e attività del nulla (di “un nulla che non sta fermo”, ma che “nullifica” al pari di un ribollio manifestantesi in parole che scadono vieppiù nel fondo indistinto dell’indeterminato), attività del pensare stesso come traccia indefinita, la cui genealogia sembra specchiarsi sullo stesso sfondo o baratro di questo “quasi nulla”.

 

Sicuramente questa, più che una questione, è una tesi condivisibile purché si sia d’accordo che la fede è sempre domanda e interrogazione e non messa tra parentesi dei pungoli critici che ci interpellano continuamente. Io non credo che la fede sia un “dono” che comporta l’attesa e la passività del ricevere. Agostino ha narrato la propria ricerca di fede, il suo primo girovagare tra certezze poi risultate vuote e devianti. La fede è attesa, come ha scritto Simone Weil: attesa di un incontro che può anche non avverarsi. Il rapporto mistico può pure comportare l’annichilimento del soggetto, come tutti sappiamo. L’arte, rispetto alla fede, ha qualcosa di più decisivo che proietta l’indicibile in suoni, colori, parole, immagini... Ancora una volta potremmo tornare al nulla che, nel momento in cui viene reificato nell’arte, è uno specchio con cui l’animo si confronta e in cui si può riconoscere. Lo stadio dello specchio, di cui parlava Lacan, è lo stadio della costruzione dell’identità; è anche lo specchio nel quale il soggetto può cogliere il proprio modo di essere, le modalità con le quali si presenta all’altro autocostruendosi. L’arte è gravidanza, saturazione, espulsione, frammenti di essere coagulati nella materia.        

 

D.: Un’ultima domanda, che mi sembra d’obbligo, tentando un’importante quanto indispensabile riapertura di una tematica, così presente in ambito francese e novecentesco – e del resto sempre così drammaticamente inattuale –, quella riguardante l’indagine sulla crisi del soggetto, sull’idea di svuotamento dell’io che proprio in quanto pensa si separa da sé, dal suo essere proprio, ma che al di fuori di sé non scorge se non la crisi o il fallimento e la minaccia del relativismo nichilista. In tale visione persino la malattia, al pari di ogni altra condizione di precarietà emotiva (la vergogna, la noia, la nausea ecc.), dice in fondo un distacco da sé ma in qualità di mancanza e come desiderio d’essere, un mal-essere, un punto di vista che suggerisce ancora una volta ostinazione su di sé; idea di soggetto che altresì implode e collassa paradossalmente in quelle stesse filosofie che determinano l’io quale dominus dell’universo. Intrattenendoci su tale riflessione, in che termini, Le chiedo, pensa sia possibile porre ancora di fatto margini per una strategia in grado di suggerire per il tema cruciale della soggettività, sospinta al di fuori di ogni orizzonte apocalittico tipico di molto anti-umanesimo contemporaneo o destino a sfondo nichilista, una prospettiva non disperante? Le saremmo grati se volesse dirci qualcosa in proposito.

 

Se avessi una soluzione per quello che Lei propone avrei trovato la lampada di Aladino. Oramai la contingenza dell’esistente e del reale è un dato acquisito, anche se non sempre consapevole a livello di coscienza. Questo non vuol assolutamente dire che viviamo in una realtà luttuosa o soltanto precaria. Proprio la precarietà e la contingenza riaffidano all’uomo le redini della storia e la responsabilità del soggetto e della comunità. Debbo, non casualmente, citare nuovamente Merleau-Ponty che, dopo la seconda guerra mondiale, scriveva che i santi del cristianesimo e gli eroi delle rivoluzioni passate non hanno mai fatto altro che pensare ad un futuro già determinato: “Semplicemente tentavano di credere che la loro battaglia fosse già vinta nel cielo o nella Storia. Gli uomini di oggi non hanno questa risorsa. L’eroe dei contemporanei non è né Lucifero, non è neanche Prometeo, è l’uomo”. Sempre nell’ambito di quel clima teoretico che è passato sotto la cifra del pessimismo esistenziale, il rifiuto di Sartre dell’affermazione di Dostoevskij secondo la quale se Dio non è, tutto è possibile. Il francese ribatteva che, proprio se Dio non è, non tutto è possibile: tocca supplire alle tavole della legge, darsi delle regole di convivenza, costruirsi dei valori positivi. Ogni rivoluzione o è morale o non è rivoluzione, aveva scritto Charles Péguy nel primo decennio del Novecento. Le filosofie dell’esistenza, basate sulla contingenza, si autoriconoscono come “umanismo” e non solo perché qualcuno riprende come epigrafe dei suoi saggi l’affermazione marxiana secondo la quale essere radicale significa considerare le cose in base alla radice, “ora per l’uomo la radice è l’uomo medesimo”. Il destino dell’uomo è, comunque, quello di costruirsi la comunità: essere animale politico vuol dire che si sopravvive nella comunità regolamentata dalle leggi che noi ci diamo. L’arte, le fedi, la filosofia sono tanti tratti di un percorso che le generazioni si passano come un testimone. Noi siamo responsabili: noi rispondiamo di tutto il bene e di tutto il male. Luisa Muraro, pensatrice della differenza, parla anche della contingenza di Dio. Dio c’è e non era necessario che ci fosse. E contingenza non è libertà, è casualità su cui noi interveniamo con la nostra libertà, costruendo una convivenza umana su valori umani: cioè relativi.          

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