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Quelli che abbattono gli alberi

Una riflessione filosofica 

a partire da Avatar

di Andrea Tagliapietra

È senza dubbio la più tremenda scena del colossal Avatar (2009), che si avvia ad essere, forse per lungo tempo, forse per una breve stagione – dipenderà dalle strategie dell’industria culturale -, il film e, quindi, il prodotto di finzione più visto e globalmente conosciuto dei nostri giorni. Si tratta dell’abbattimento del gigantesco albero-villaggio della tribù dei Na’vi, quando gli umani, colonizzatori e sfruttatori senza scrupoli del pianeta Pandora, scatenano contro la maestosa pianta, alta e vasta come una montagna, tutta la potenza delle loro armi distruttive. Razzi, cariche esplosive e bombe incendiarie attaccano l’enorme vegetale in una progressione di proiettili, deflagrazioni e fiamme, mentre gli spettatori fanno proprio il crescendo di angoscia e di disperazione dei giganteschi nativi azzurri alla vista della distruzione repentina della loro verde dimora.

È una scena che la fantascienza – per altro sempre meno utopica e sempre più simile al presente - proietta nel futuro, ma che ritroviamo nelle antiche parole all’origine della cultura occidentale, là dove la voce di Omero e poi quella di Virgilio raccontano lo sconcerto dei troiani davanti al fuoco e alla caduta della loro città. E infinite volte, negli assedi e nei saccheggi della storia, la scena si è ripetuta, mentre una certa sensibilità ha cominciato ad agire nella mente degli spettatori e dei lettori, sì che quelli che solo una generazione fa parteggiavano ancora per il generale Custer e per le gloriose giubbe blu, ora si immedesimano nei nativi americani e in tutti gli altri oppressi di cui si cerca di conservare memoria attraverso i documenti oppure proprio mediante i racconti di finzione. Ma, con condivisibile estensione del criterio di prossimità e di immedesimazione, anche gli animali, o almeno gli animali superiori, come i mammiferi e gli uccelli, vengono adottati dal sentimento collettivo, e la tigre non è più la belva da uccidere, nei meandri della giungla salgariana, ma colei per cui facciamo il tifo, visto che ne sono rimaste meno di 4 mila in libertà, mentre gli umani sono più di 6 miliardi. Tuttavia parteggiamo anche per il toro contro il torero, nelle sordide arene di Spagna, e da tempo i lupi non ci fanno più paura e, all’apertura della stagione della caccia, ci auguriamo che le doppiette, alla fine, si sparino tra loro (come, del resto, sempre più spesso avviene).

Ma se l’espansione emotiva dell’immedesimazione morale e dei confini del nostro stesso senso di ingiustizia ha sviluppato, in buona parte dell’Occidente, una sensibilità collettiva in grado di assumere e far proprie le ragioni e il punto di vista delle vittime della storia e persino dei nostri fratelli animali, la pianta rimane ancora al limite dell’indifferenza. Per questo quando l’albero-villaggio di Pandora, alla fine, cade rovinosamente in una nuvola di foglie, di schegge e di cenere, come capita ai molti alberi terrestri che, ad ogni istante, vengono abbattuti, nell’incuria e nel cinismo con cui, a cominciare dal nostro paese di palazzinari corruttori, cementificatori selvaggi e immobiliaristi furbetti, noi trattiamo la vita delle piante, mi sono augurato che almeno parte del pubblico sterminato della pellicola avesse colto, al di là di un generico e spesso ininfluente ambientalismo hollywoodiano, il significato particolare che il film attribuisce alla natura vegetale della vita.

È facile appassionarsi e prendere partito per la vita animale. Sebbene quel Cartesio che riteneva gli animali automi incapaci di provare piacere e dolore non sia poi così lontano da noi e, anzi, talvolta faccia ancora capolino negli asettici laboratori della vivisezione scientifica, l’uomo riconosce la propria comune animalità negli esseri viventi che saltano, corrono, si muovono, nuotano, strisciano, volano, ma soprattutto manifestano intenzioni e bisogni che assomigliano ai nostri, anche se tenuti a bada, si crede, dallo specchio dell’istinto e non dalla presunta funzione d’indirizzo della ragione chiara e distinta. All’animale è facile attribuire sentimenti ed emozioni, per cui possiamo dolerci della sua sofferenza. La pianta, invece, resta muta, silenziosa, segreta. Eppure, facendo nostro l’interrogativo che Gustav Theodor Fechner pronunciava in Nanna o L’anima delle piante (1848), è lecito domandarsi «perché non ci dovrebbero essere, oltre le anime che camminano, gridano, mangiano, anche anime che silenziosamente fioriscono e spandono odori?» Anzi, seguendo il filo del discorso di Fechner, si potrebbe persino ribaltare quell’abituale gerarchia linneiana dei regni naturali, per cui il vegetale sarebbe secondo al regno animale, che a sua volta si vedrebbe subordinato soltanto rispetto a quel regnum hominis in cui splende la luce dell’intelletto e della ragione.

Infatti, cosa c’è di più spirituale e raccolto del maestoso silenzio con cui l’ampia quercia o il saettante cipresso accolgono quegli esseri che incontrano la loro ombra? Quando lo splendore esterno della vita, quel frenetico agitarsi che muove l’intenzione sensoriale ma anche il progetto fabbrile della ragione, si placa, non c’è solamente il sonno o l’oblio. Anzi, con la conquista della maturità l’uomo, ma anche l’animale adulto, diventa più riflessivo, silenzioso, misurato. Al chiasso della gioventù subentra la tranquillità dell’età matura. Ciò che sfuma e svanisce dall’esteriorità vivente si dovrebbe ritrovare nell’acquisto di volume dell’interiorità, ossia nello sviluppo di quello che una volta si chiamava spirito. Allora, suggerisce coraggiosamente Fechner, «un simile mutamento possiamo riconoscere che avvenga anche nelle piante».

È una diversa immagine dell’anima che la vita delle piante ci propone e che induce a rivedere alcune antiche e cristallizzate abitudini culturali. Perché il fare sarebbe meglio del non fare? Perché l’agire è da preferirsi allo stare? L’albero, la pianta ci mostrano una stilizzazione della vita orientata all’impiego dello stretto indispensabile. La vita vegetale procede silenziosa nei secoli e nei millenni: nodosi pini, abeti nordici e arcigni ulivi sono forse gli esseri più vecchi che vivano sulla terra e, di volta in volta, i giornali ne annunciano stupiti il primato, paragonando l’età di questi magnifici esseri viventi agli eventi della storia umana trascorsi, che all’improvviso ci appaiono così piccoli, relativi e insignificanti.

Di recente, in Svezia, è stato individuato l’albero più carico d’anni, un abete rosso, vecchio di otto millenni, sopravvissuto, a differenza di altri senatori del regno vegetale, semplicemente perché arroccato su un dirupo e, quindi, sottratto alle orde dei deforestatori pronti a trasformarlo in pannelli per i mobili Ikea. Eppure si può ben immaginare che sotto le fronde di quest’enigmatico gigante verde si sia svolta tutta la storia dell’uomo. Così i suoi rami si sono agitati al vento del nord quando gli egizi ancora non avevano eretto le piramidi, né i sumeri inventato la scrittura. La sue pigne e i suoi aghi sono caduti assieme all’impero romano, alle mura di Bisanzio, alla testa ghigliottinata del sedicesimo Luigi di Francia. La vita dell’albero, senza l’intervento pernicioso della razza umana e della sua furia distruttiva, è un supremo esempio di equilibrio e di pazienza, di semplice e magnifica durata.

È difficile che qualcosa induca maggiormente alla riflessione sull’enigma del tempo della vista di un grande albero, come una quercia o un noce frondoso. Quando vedo un grande albero, anche un pino o un pioppo di trenta o quarant’anni, mi è ormai inevitabile formulare il pensiero che se fosse tagliato e poi ne venisse piantato un altro di identico, la durata della mia vita non mi consentirebbe di rivederne la chioma svettare così alta e ampia nel cielo. Nella statale 10 che da Alessandria conduce a Marengo sorge il platano detto di Napoleone, alto più di 35 metri e largo 30, che la tradizione vuole piantato dall’imperatore in memoria della sanguinosa battaglia, ma che forse è molto più antico e va annoverato assieme ai numerosi alberi alla cui ombra i grandi della storia hanno riposato e poi sono passati, mentre essi, silenziosi compagni di un meriggio assolato, continuano a restare. Viene in mente il platano altissimo di cui parla Platone nel Fedro (229a-b), alla cui ombra Socrate invita a sedersi o persino a stare distesi, per godersi la frescura e discutere di filosofia.

Una delle pagine più eloquenti della grande letteratura, che viene in soccorso a ciò che cerco di dire in queste righe, la troviamo ne I dolori del giovane Werther (1774), là dove il protagonista del celeberrimo romanzo di Goethe racconta l’abbattimento di un piccolo boschetto di noci sotto cui era solito andare a conversare con Carlotta. L’episodio fa quasi da cesura fra la prima parte dell’opera, giocata sul registro estetico della serenità classica e del bello, rispetto alla seconda, in cui emerge prepotentemente l’elemento dell’inquietudine romantica e dell’estetica del sublime: «Quei magnifici noci! Che, Dio lo sa, mi colmavano sempre di grandissimo piacere l’anima. Quale intimità davano al presbiterio! Quale frescura! E com’erano stupendi i rami!». Ma a Werther giunge la tremenda notizia che sono stati abbattuti: «Abbattuti! Verrebbe da impazzire, da ammazzare quel cane che ha dato il primo colpo». Gli alberi, infatti, sono stati tagliati per volontà della moglie del pastore del villaggio, di cui Goethe, per bocca di Werther, ci fa il seguente ritratto: «è stata lei, la moglie del nuovo pastore (il nostro buon vecchio era morto anche lui): un essere squallido, malaticcio, che ha mille ragioni di non interessarsi a niente, perché nessuno s’interessa a lei. Una stravagante che vuol passare per dotta, s’impiccia della questione dei testi canonici, anzi addirittura lavora con assiduità alla riforma critico-morale del Cristianesimo […] Ci voleva proprio un essere di questo genere per far segare i miei noci. Tu vedi che non me ne so dar pace. Figurati che le foglie morte le facevano sudicio e umidità nel cortile, che gli alberi le toglievano luce, e che, quando le noci erano mature, i ragazzi le pigliavano a sassate. Ciò le dava sui nervi, la disturbava nelle sue profonde meditazioni». Ma Werther vuole sapere anche perché nessuno si è opposto: «vedendo che i borghigiani, specie i vecchi, erano così malcontenti, provai a dire: “Perché l’avete tollerato?” “Quando vuole il borgomastro, qui in provincia”, mi risposero, “che si può fare?”». Infatti, il borgomastro con il pastore, che voleva trarre profitto dai capricci della moglie, contavano di spartirsi la legna.

La scena del Werther è, per certi versi, emblematica. Anche la sottolineatura del fervore cristiano appare sintomatica, dal momento che, spesso, è l’eredità culturale del cristianesimo, fatta salva, forse, solo la sua serena versione francescana, ad alimentare l’arroganza e la prepotenza umana nei confronti della natura. L’insensibilità della moglie del pastore verso i maestosi noci si accompagna ai futili motivi per cui essi vengono tagliati. Quante volte, nei condomini cittadini, si abbattono alberi per ragioni del tutto simili? Le foglie, le infiorescenze o i semi danno fastidio quando cadono e intasano gli scarichi delle acque reflue, le radici sollevano le pavimentazioni dei marciapiedi, le chiome, sotto cui, d’estate, ci si rifugia all’ombra irriconoscenti, ci tolgono il sole o la vista. Poi, si sa, esistono le ragioni dell’idolo del nostro tempo, come lo chiamava Schiller, ovvero quelle dell’utile: il legname, la carta, soprattutto lo spazio. Anche se da noi si abbattono gli alberi per la legna da ardere ormai solo nelle località montane, dove sopravvivono ridicoli diritti consuetudinari e cataste di legna circondano case riscaldate a gas o cherosene, si tagliano gli alberi per un parcheggio, per far meglio la manovra per entrare nel garage, perché altrimenti il camion urta contro i rami, perché i bambini o gli anziani inciampano nelle radici, perché ospitano troppi uccelli che sporcano e fanno chiasso all’alba, perché la resina ci rovina la carrozzeria della macchina.

Le amministrazioni comunali, che si dicono vicine al territorio e alla sua custodia, sono le prime ad autorizzare abbattimenti del verde pubblico per ragioni assurde. Ecco un viale alberato di ippocastani, dal profilo quasi signorile dalla primavera all’autunno, diventare, dall’oggi al domani, una striscia d’asfalto con, ai lati, anonimi casermoni costruiti senza alcuna considerazione estetica. Ecco un lungomare di pini marittimi piegati dal vento in forme sublimi, l’una diversa dall’altra, sparire per lasciar posto ai posteggi e ai parchimetri, che tesaurizzano le soste dei gitanti della domenica e della bella stagione. Le cosiddette stragi del sabato sera, con frotte di ubriachi e impasticcati che corrono a folle velocità, hanno indotto molti cittadini e politici ad accusare i platani piuttosto che la stupidità di coloro che vi si schiantano contro. Anche l'ecologismo presunto, quello di mercato, consente di abbattere gli alberi, come accade in quelle amministrazioni verdi che tagliano forse più delle altre, con la scusa delle piste ciclabili o della messa a dimora di piante più adatte – quasi sembre costose essenze “alla moda” che avvizziscono o crescono stentatamente, mentre dei rustici pini che c’erano svanisce il ricordo. Ma il vivaista di fiducia del comune ci ha pur fatto il suo guadagno! Per non parlare degli abbattimenti del verde privato, quando i comuni, in forza di vecchi piani regolatori stilati con il concorso degli stessi palazzinari di allora, autorizzano demolizioni di case singole e villette per costruire i condomini di oggi. Ecco, neanche a dirlo, che le prime vittime dell’aumento delle volumetrie sono gli alberi che rendevano un quartiere residenziale e grazioso (anche per il costruttore che intraprende la speculazione) e che spariscono sotto alle ruspe per far spazio a garage e ad appartamenti, con stanze anguste che sembrano abitabili solo se vuote (e per la qual ragione rimangono disabitate a lungo). E così la cittadina nel verde o il paesino in cui ci si era rifugiati per sottrarsi allo smog della città diventano, nel giro di pochi anni, una periferia urbana semideserta e senza servizi.

Un’ampia parentesi si potrebbe aprire, poi, per quegli interventi che precedono l’abbattimento e che vengono scambiati per cura del verde pubblico. Da tempo le amministrazioni appaltano la tutela del verde pubblico a società esterne e nulla è più facile che improvvisarsi giardiniere. Non ci vuole certo la laurea, infatti, per tagliare a casaccio i rami di un albero o per dire, con finta competenza, che quell’albero è malato, soprattutto se un abbattimento ci viene pagato più di una potatura. D’altra parte, anche le maldestre potature, che indeboliscono gli alberi e li espongono a malattie, gettano i presupposti per gli abbattimenti di domani e sono, quindi, un altro lucroso affare.

Mi sono spesso chiesto come sia possibile che le stesse amministrazioni che ci obbligano a circolare a targhe alterne o fermano il traffico la domenica consentano poi il continuo saccheggio del verde e la desertificazione del nostro panorama urbano, nonché la rapida cannibalizzazione della campagna, costellata da capannoni sempre più spesso vuoti e da nuove lottizzazioni residenziali bloccate al grezzo dalla crisi. Lo stesso soggetto, pubblico o privato, che viene giustamente responsabilizzato sull’uso dell’auto o del riscaldamento a causa delle emissioni inquinanti viene poi trattato con indulgenza se abbatte quel verde che riduce l’inquinamento e lo assorbe. È come se punissimo chi versa il latte fuori dai bicchieri e non anche chi i bicchieri li rompe, facendo uscire il latte versato.

Sempre più spesso, quando avviene il maltrattamento di un animale, chi assiste interviene e si mobilita. Anche in Cina o in Giappone, dove, come si suol dire, si mangia tutto ciò che si muove, l’occidentalizzazione ha sviluppato, soprattutto nelle città, una nuova sensibilità nei confronti degli animali domestici, così che, a quanto pare, persino la Repubblica Popolare Cinese si accinge a promulgare una legge che proibisce la macellazione dei cani e dei gatti, nonché il consumo delle loro carni. Il sentire collettivo contemporaneo, che pur tollera, perché, come sostiene Peter Singer, non ne è a diretta conoscenza e quindi le rimuove, le terribili crudeltà dell’allevamento industriale di polli, mucche e maiali, non sopporta più che si facciano soffrire per futili motivi gli esseri senzienti. Quando ciò accade, come purtroppo avviene, in Italia, soprattutto al sud, questo viene ritenuto un indice del degrado sociale e culturale di quelle zone, un sintomo del tasso di inciviltà raggiunto. Del resto, non è necessario rinviare alla saggistica colta, come quella di Robert Darnton sul grande massacro dei gatti che precedette la rivoluzione francese, per sapere che fra le violenze sugli animali e le violenze sugli umani (soprattutto sugli umani appartenenti ai gruppi vittimari per eccellenza, come bambini, donne, ma anche folli, diversi, stranieri, ecc., ossia coloro che, dapprima solo negli usi linguistici, vengono accostati o paragonati agli animali) c’è un’assoluta continuità.

Purtroppo non possiamo dire lo stesso per quanto concerne la violenza verso gli esseri vegetali che, anzi, quasi sempre non viene avvertita come tale. Infatti, uno dei criteri sensibili con cui noi interpretiamo un atto violento nei confronti di qualche cosa è la reazione del dolore. Come scriveva Wittgenstein, « prova un po' a mettere in dubbio - in un caso reale - l'angoscia, il dolore di un’altra persona!»(Ricerche filosofiche I, § 303). Il dolore dei bambini, che non hanno ancora imparato a simulare, e quello degli animali, che secondo il pregiudizio specista wittgensteiniano non sanno mai simulare, è spinale, diretto, implicitamente sincero. Ma anche di un essere umano adulto è difficile mettere in dubbio il dolore se a questo si accompagnano quei segnali inequivocabili della sofferenza che la nostra empatia non può ignorare. Invece, quando si abbatte un albero o si sradica una pianta sembra non esserci alcuna reazione. Quindi, concludiamo che non ci sia violenza, dal momento che non ci giunge alcun segnale riconoscibile da parte dei nostri filtri culturali e sensibili. Se pure ce ne addoloriamo, come accade comunque a molte persone e come sto testimoniando con queste righe, ciò avviene per l’idea proiettiva di una sofferenza che ci limitiamo a immaginare, oppure perché ci dispiace delle conseguenze estetiche o anche ambientali e paesistiche che l’abbattimento di un albero provoca. È, per fare un esempio, un sentimento simile a quello che si è provato quando i talebani afghani hanno distrutto i famosi Buddha di Bamiyan. Ciò che ci affliggeva era infatti un dispiacere per l’immagine e la storia che si proiettavano sulla pietra, per la loro unicità e irripetibilità, non certo per la pietra ritenuta inerte che si sgretolava sotto le cariche esplosive.

Eppure, quando un albero viene abbattuto è un essere vivente che viene soppresso. La silente vita vegetativa, che è quella vita in quanto tale, quella nuda vita che accomuna animali e vegetali, sembra non darci molta cura. Anzi, il dibattito bioetico sui malati terminali sembra condividere a maggioranza l’idea che là dove il paziente si limita a vegetare, come Eluana Englaro, sia lecito “staccare la spina”, ovvero “togliere le radici” con cui quella vita vegetale si nutre, perché la morte di quella vita può essere trattata con indifferenza, perché quella vita vegetativa è, in qualche modo, già morte. È implicita, nel giudizio collettivo che si cristallizza nei codici e nelle leggi, una concezione gerarchica della vita, già presente sin dal De anima di Aristotele, che dispone per gradi prima la vita sedicente razionale, poi quella animale, e infine quella vegetale. La gerarchia scandisce progressivamente i gradi di tutela di cui possono farsi carico lo Stato e la comunità. Chi non parla né si muove, come il vegetale, sta in fondo alla gerarchia e solo l’utilità relativa a noi lo distingue dal regno minerale. Ma questo nostro atteggiamento dipende, come sempre, dalla griglia preventiva e pregiudiziale – i filosofi direbbero ermeneutica - con cui noi interpretiamo un certo tipo di silenzio.

La scienza, oggi, ci dice, con discrezione, che anche le piante emettono segnali, onde, recepiscono cura, provano qualcosa di simile al dolore. In un inquietante romanzo di fantascienza della metà del secolo scorso – Cristalli sognanti (1950) -, Theodore Sturgeon immaginava singolari minerali che, dalle profondità della terra, dove vivevano dalla notte immemoriale dei tempi, producevano «sogni fatti di carne e linfa, di legno, di ossa e di sangue». Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, diceva Shakespeare, e Sturgeon lega questa eterea ontologia, che il mio maestro Emanuele Severino definirebbe nichilistica e che pur anima tutto ciò che si muove o vegeta, affannandosi senza tregua sulla superficie del pianeta, alla paziente profondità e costanza di immobili pietre.

Una rete di relazioni che preesiste ad ogni fare e disfare intenzionato è anche l’ontologia pandoriana dei Na’vi, che non è poi così diversa dalle ontologie che appartenevano alle grandi madri mediterranee, custodi della magnifica tessitura del cosmo, come la Dea che parla nel poema parmenideo e che ritornerà, con la formula dell’en kaì pân, in tutte le filosofie sconfitte dal soggettivismo moderno e dal personalismo cristiano, ossia in Bruno come in Spinoza e oltre. Una rete che nel film di Cameron si rendeva visibile con candide radici che avvolgevano i corpi e pendevano, come esili filamenti nervosi, dall’albero delle anime, manifestando l’intreccio della simpatia universale e consentendo di comunicare con Eywa, la divinità del tutto. Il fatto che nel film questa dovesse essere resa visibile in modo così ingenuo ci dà una misura di quanto sia lontana, per noi e quindi per il pianeta, una possibile salvezza.

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