L’ultima
occasione
di Aldo Masullo
1. La più potente espressione della libertà è la tecnica.
La tecnica a sua volta sembra la più promettente occasione della libertà.
Quanto alle sue determinazioni, la tecnica è senza dubbio un effetto della società e della sua cultura.
Tecnica è produzione di regolate procedure e prescrizioni operative, in sostituzione di disordinati tentativi e prove nel superamento di una difficoltà e nella soluzione di un problema. Essa elabora le pratiche manipolatrici, empiricamente efficaci nel trasformare la realtà e razionalmente analizzabili. Ne vengono elaborati non solo i trattamenti della materia, come la coltivazione e la costruzione ma anche i sistemi intellettuali, come i linguaggi, i calcoli, i metodi conoscitivi, le norme di convivenza e di governo. La tecnica insomma si estrinseca nell’abilità del regolarmente manipolare non solo le cose sensibili, ma anche le funzioni soggettive, non solo gli elementi materiali ma anche la vita mentale.
Se impossibile sarebbe immaginare un’abilità di tal genere in un uomo separatamente preso, al di fuori di ogni relazione attuale o almeno originaria con altri, al di fuori di uno stato in qualche modo sociale, e dunque non riconoscere che la tecnica è un effetto di società, altrettanto impossibile sarebbe immaginare una società che non fosse effetto di tecnica.
«La tecnica effetto di società» e insieme «la società effetto di tecnica»! Si è dinanzi a uno dei soliti circoli viziosi in cui s’impantanano le questioni astratte e, in un certo senso, «metafisiche»? O non piuttosto la «società» è un termine generico, che include almeno due specifici e ben diversi significati, e il cui uso perciò è ambiguo? In altre parole, la «società» che si dice «effetto della tecnica» è la medesima al cui proposito si dice che «la tecnica è un effetto della società», o è tutt’altra cosa?
La «società effetto della tecnica» è il sistema delle relazioni in forza di cui un insieme di umani costituisce un «gruppo» più o meno ampio, organizzato per funzioni specializzate sulla base di rapporti di forza e in vista di comuni obiettivi di espansione o almeno di conservazione. L’ordinato complesso di rapporti definisce ruoli, competenze, cognizioni, desideri, variamente formalizzati ma insieme costituenti il comune medium in cui si trova immersa l’esistenza di ogni individuo del gruppo. Questa «società» è condizionata dal suo ambiente interno, oltre che da quello esterno, dallo habitat con le sue disponibilità e le sue forze favorevoli o ostili. Essa in conclusione è una macchina che senza soste perfeziona gli strumenti adeguati ai suoi intrinseci obiettivi e funzionali alle strategie di adattamento alle modificazioni ambientali. Gl’individui che vi si raggruppano sono «soci» (latinamente «alleati»), per lo più l’un l’altro affettivamente indifferenti, legati per il comune interesse da un patto di convivenza.
Ben diversamente, la «società» come «ciò di cui è la tecnica un effetto», è l’originario prendere forma dell’umanità dell’uomo, il che avviene nel fervore della relazione di ogni nato con chi lo nutre e lo alleva e, sorridendogli e parlandogli, lo stimola a sorridere e a parlare, a entrare nello spazio della comunicatività emotivamente calda, dove – come Vico intuì – l’irriflesso del senso e dell’emozione attraverso la potenza fantasticante del sentimento si schiude infine alla riflessione logica.
Nessuno direbbe che tra bambino e madre v’è una «società». Si direbbe piuttosto che bambino e madre sono una «comunità». La loro relazione è «naturale»: è una «nascita», lo spontaneo sviluppo, l’avvio non deciso ma vissuto di un occasionale incontro, non chiuso nel suo essere avvenuto, ma avventurosamente aperto nella sua libera creatività.
In conclusione, non sarebbe inutile, per evitare confusioni concettuali, designare come «società» quel sistema chiuso di relazioni, che s’ipotizza interamente ridotto nel nostro tempo a «effetto di tecnica», e invece con il termine «comunità» intendere ogni processo aperto di relazioni originarie tra individui umani coinvolti nell’affettività della reciproca cura.
Il circolo vizioso si scioglie. «Società» e «comunità» reciprocamente si condizionano, ma a titolo diverso: la «comunità» condiziona la «società» originariamente, è la sua radice e la sua permanente energia; la «società» condiziona la «comunità» storicamente, è il processo in cui se ne plasmano e incessantemente se ne riplasmano le forme.
2. Molte e varie sono le complesse elaborazioni e le sottili distinzioni nell’analisi del rapporto tra la tecnica e la società. Il tentativo più organico di renderne conto si deve a Jacques Ellul, il quale nella sua opera, assai importante pur se non priva di ambiguità, con molta enfasi pone una ragionata distinzione tra la «società tecnica» e il «sistema tecnico»: finora questo risulta instaurarsi in quella senza identificarvisi, sicché «tra i due esiste tensione» (1).
Nel discorso sulla tecnica e sul suo rapporto con la società non va mai dimenticato che non si parla indeterminatamente della tecnica come non si parla indeterminatamente della società. «Società» in questo contesto non vuol dire una qualsiasi «libera» relazione tra persone, ma l’ordine di relazioni complesse e così strettamente regolate da legare tra loro anche persone reciprocamente sconosciuteo comunque indifferenti. Si tratta del modello con cui Marx identifica la moderna società borghese: «La mutua e generale dipendenza degl’individui reciprocamente indifferenti costituisce il loro nesso sociale» (2).
Quando si parla in sede teorica di società, come appunto intende fare Ellul, se ne parla inevitabilmente immersi nel vivo dei problemi dell’attualità sociale, e non può perciò non intendersi lo storicamente determinato «sistema sociale» borghese modemo.
Non diversamente, quando si parla seriamente della tecnica, e del suo rapporto con la società, ossia con un sistema sociale, non si può lasciare il nome di «tecnica» nella sua vaghezza: abilità manuale o intellettuale, protocollo procedurale del fare o pur dell’agire, strumento materiale o pur ideale, macchina fisica o intellettuale, come già s’è detto. Ciò che seriamente interessa è comprendere quale rapporto con una determinata società, con un «sistema sociale», abbia il contemporaneo complesso delle tecniche nella loro sempre più stretta interdipendenza e coesione funzionale, insomma il «sistema tecnico». Ellul accuratamente precisa: «Utilizzando il termine sistema non voglio dire che la tecnica sia estranea all’ambiente politico, economico, ecc. Non è un sistema chiuso, ma è sistema dal momento che ogni fattore tecnico (una data macchina, per esempio), è prima di tutto collegato, relativo a, dipendente dall’insieme degli altri fattori tecnici, prima di essere in rapporto con elementi non tecnici». D’altra parte esso «non può manifestarsi, svilupparsi, esistere se non inserendosi in un corpo sociale esistente» (3).
Si può per semplicità parlare di rapporto tra «tecnica» e «società», ben sapendo però che s’intende il rapporto tra il «sistema tecnico» e il «sistema sociale».
Ora, nell’attuale situazione culturale si tende più o meno esplicitamente a ritenere che alla fine, divenuta tutta tecnica la società, la tecnica si presenti come il sistema inclusivo della società nella sua interezza. Al limite la tecnica inghiottirebbe la società, diventerebbe essa medesima la società.
Se ciò fosse vero (e non è detto che non lo sia o non possa diventarlo: è solamente un’ipotesi, ma molto seria), vale a dire se nell’umano tra la vita (la vita, essenzialmente sociale) e la tecnica non restasse una sia pur minima eccedenza della prima sulla seconda, ii problema del nesso tra la libertà e le sue occasioni svanirebbe, non avrebbe più senso. Non vi sarebbero più occasioni, ma solo cause e casi. Né più vi sarebbe libertà, ma solo, a voler dire la cosa nel «fisicissimo» linguaggio della meccanica, il maggiore o minore «grado d’indipendenza da vincoli» di un corpo in movimento; ovvero, nel linguaggio della psicologia economica, la possibilità di semplici «scelte». A proposito di queste va detto che, come Ellul nota, «non c’è una categoria teorica della “scelta” che esprima la libertà» (4).
Ma prima, e indipendentemente dalla forse impossibile prova se si stia consumando la totale riduzione della società alla tecnica, non possiamo non tentar di comprendere il senso della libertà, e ciò in non altro modo che analizzando i contenuti emergenti della nostra espenenza in corso, e in essi cogliendo il prospettarsi di prossime occasioni.
Tanto per cominciare, trascrivo il passaggio più audace della lettera inviatami qualche giorno fa da un amico, intelligente e irrequieto psichiatra.
«Personalmente credo che la morte non sia un “destino”, ma una necessità strategica della specie. Solo attraverso il ciclo vita-procreazione-morte-vita infatti sono state rese possibili la trasmissione e l’evoluzione darwiniana del codice genetico e la sopravvivenza della specie. Ma in questo momento della sua storia forse l’umanità non ha più bisogno della morte per sopravvivere. Abbiamo davanti la mappatura quasi completa del genoma umano. Su alcune malattie genetiche già oggi possiamo intervenire correggendo il codice. Domani possiamo immaginare di intervenire perfino sull’invecchiamento e sulla morte. Un panorama nuovo ci si pone davanti con implicazioni etiche, politiche, economiche, che non possiamo eludere, ma di cui non dobbiamo avere paura...».
L’amico a questo punto chiede quale sia la mia opinione in proposito.
Non mi sembra importante, qui e ora, dire un’opinione sull’ipotesi biotecnologica che gioca ai limiti del sapere attuale. Mi sembra piuttosto conveniente prendere atto della straordinaria novità, che la nota osservazione di Karl Jaspers riassume: «Mai nella storia la scienza ha determinato in modo così decisivo, come oggi e nei due ultimi secoli, gli avvenimenti del mondo e il comportamento delle singole persone [...] La sua perfezione, la sua portata e la sua influenza, mai prima d’ora raggiunte, hanno fatto di essa il punto d’orientamento dell’uomo, il suo Umgreifende [orizzonte mentale]» (5).
Straordinaria è la novità per la prospettiva d’inedite occasioni che con essa si apre e per la smisurata misura della libertà chiamata in causa. Come possono criticamente connettersi questa libertà e quelle occasioni?
A parte l’incessante tensione ateistica che avverto urgere nelle domande del mio amico psichiatra, la sua fede nel potere liberatorio della scienza mi suggerisce, per fronteggiarne la veemenza polemica, di porre a mia volta una questione, preliminare alla sua.
Ricordo il finale della prefazione di Jean-Luc Porquet alla riedizione del libro di Ellul. Vi si legge: «La Tecnica non cessa di accrescere il proprio impero, ma fino a quando? Questa espansione rallenterà o si stabilizzerà?». Ellul si era chiesto: «A qual fine verrà utilizzata questa attesa stasi? Per mettere ordine nella società perturbata, per permettere un’organizzazione efficiente, per assimilare l’immensità di progressi realizzati, per permettere all’uomo di radicarvisi e adattarvisi?». Commenta Porquet: «È una questione scottante, con le emergenti nozioni dello “sviluppo sostenibile” e del “principio di precauzione”: il sistema si autocorreggerà? O invece starà all’uomo autocorreggersi per meglio sottomettervisi? Se Ellul sembra propendere per la seconda soluzione, non è per il pallino sadico del pessimista felice di precludere ogni soluzione. Piuttosto è per meglio provocare, incitare alla speranza, stimolare nel lettore una presa di coscienza. Come Marx, Ellul ha sempre affermato che il primo passo verso la libertà consiste nel prendere coscienza delle proprie catene, delle proprie alienazioni». La prefazione di Porquet si chiude con le parole di un «illuminante manuale d’insubordinazione» quale, secondo lui, può esser considerato il libro À temps et à contretemps di Madeleine Garrigou-Lagrange (6). «L’importante è restituire all’uomo il massimo delle sue capacità di indipendenza, d’invenzione, d’immaginazione. Provo con la mia opera a fornirgli le carte perché egli possa poi fare il suo gioco. Non il mio. Soltanto la riscoperta dell’iniziativa individuale è fondamentale di questi tempi».
Ancor qui si presenta l’incessante contrasto in cui dibattendosi vive la cultura, tra la forza autoconservatrice del sistema, l’ordine e, ogni volta, l’impulso di adattarsi alle nuove situazioni, in gran parte prodotte dal sistema stesso, insomma di rispondere alle occasioni.
Se l’ordine è, in quanto tale, autoconservativo, fermo, destinato a resistere fino a crollare, ogni novità si spreca, è un’occasione mancata.
Perché la libertà non sia negata nel momento stesso in cui la si pensa, non si possono non pensare le sue occasioni. Il nesso tra il ruolo provocatorio delle occasioni e la decisione di risposta è, per così dire, la «misura» della libertà.
Il paradosso della cultura tecnologica matura sta nel fatto che essa è al tempo stesso il sistema (l’ordine), le novità (le occasioni) e le decisioni (la libertà).
Il dilemma di Ellul («il sistema si autocorreggerà? o starà all’uomo autocorreggersi per meglio sottomettervisi?») non avrebbe senso se non si supponesse che «la dittatura tecnica astratta e beneficente sarà molto più totalitaria delle precedenti».
Il dilemma è apparente. Al verificarsi di una delle sue alternative non necessariamente corrisponde il mancato verificarsi dell’altra. È impossibile che si verifichino nello stesso tempo ambedue. Ma può ben accadere che nessuna delle due si verifichi: cioè che né il sistema si autocorregga né si autocorregga l’uomo. Qui il terzo non è escluso: è la finale catastrofe dell’umano.
Giulio Giorello ammonisce: «Tecnica e scienza sembrano essere andate ben oltre le pure esigenze di sopravvivenza e di adattamento... Ribattendo a osservazioni del genere, l’evoluzionista Geoffrey Miller ammette che è proprio vero: scienza e tecnica “sembrano lussi evoluzionistici”, magari utili in dosi modeste: solo che gli esseri umani “non sono modesti, sono eccessivi”. Questo eccesso non è che un altro nome per la volontà di conoscere e di cambiare: “quasi un dovere, se riteniamo che il vero peccato capitale sia l’ignoranza. Quel che si può sapere va saputo. L’ignoranza e la paura sono i più duri ostacoli al progresso scientifico e all’assunzione di responsabilità”» (7).
Si pone però una domanda decisiva. È pensabile un sapere «puro», non integrato in una cultura, dunque nel sistema di una società e di esso funzione? Avrebbe ragione Husserl contro Dilthey: l’assolutezza della «scienza rigorosa [strenge Wissenschaf]» contro la relatività della «visione del mondo [Weltanschauung]»?
Per quel che per il momento qui interessa, alla domanda non ha alcun senso pretendere di dare risposta in termini puramente teoretici. Si sta parlando non di scienza e di società in astratto, ma della scienza e della società oggi, nell’attuale stato del mondo, in sostanza del senso del nostro presente esistere nella sua vivente prospetticità.
Dato l’attuale sviluppo della scienza come tecnologia e della tecnologia come sistema che tende a coincidere con il sistema sociale, si vuole conoscere quali stiano per darsi, se si daranno, le occasioni della libertà.
Tra le occasioni da conoscere ci sono innanzitutto le occasioni della libertà del conoscere stesso. Qui sta il primo intoppo nell’interrogazione sulle attuali occasioni della libertà.
Se il nostro tempo è riduzione completa della società al sistema tecnico, può mai con il pensiero comprendersi ciò che dal pensiero si è estraniato? Il pensiero che, fin quando noi siamo noi, non finisce di assillarci e interrogarsi, lo si chiami poi «filosofia» o come altrimenti si voglia, non si riduce a calcolo. Il calcolo, logico o matematico, è macchina, macchina calcolatrice che non crea il nuovo, ma esplicita ciò che nel già dato è implicito, giocando in infinite combinazioni sempre le medesime carte. Così il calcolo, per quanto praticamente utile, è estraniazione dalla vita, la quale invece riflettendo su di sé pensa e vive, «incalcolabile» creatività. Il calcolo, assolutizzandosi, si disimpegna dalla vita: non è né pago né fantasia: non soffre né immagina. Perciò non offre spazio alla «grazia», sola rottura possibile della comunque mascherata ripetizione (8).
Dinanzi alla radicale difficoltà non si può fare altro che procedere nell’interrogazione. Se qualche risposta si riuscirà a dare a noi stessi – risposta problematica, ossia viva e mai chiusa, come vivo e mai chiuso è il pensiero –, proprio ciò e solo ciò potrà voler dire che, nonostante tutto, il sistema tecnico non è ancora divenuto assoluto.
Ellul, mostrando di non condividere affatto le tesi, secondo cui «attraverso il Video si accede alla libertà, alla scelta, all’autonomia», pessimisticamente conclude che esse però già «attestano come l’uomo sia interamente “da questa parte” del sistema e non ci sia più alcun “al di là” del sistema, a partire dal quale esso possa esser “guardato” e criticato [...]. Il processo di crescita tecnica comporta la distruzione dell’universo estraneo o la sua assimilazione» (9).
Alla domanda «cosa l’uomo divenga nel sistema tecnico, e se si possa conservare la speranza tanto spesso idealisticamente formulata che l’uomo “prenda in mano”, diriga, organizzi, scelga e orienti la Tecnica», la risposta tronca dubbio e «speranza»: «l’uomo al quale si attribuisce il potere di scelta, di decisione, di iniziativa, di orientamento» è «un uomo ormai totalmente immerso nella sfera tecnica» (10). Si tratta di un uomo strettamente «conformato»: la cultura, lo svago, il desiderio, le scelte, tutto è «tecnicizzato» (11).
Ora l’aperto spaziare della mente, il suo «oltrepassarsi» verso un punto di vista da cui guardare a se stessa (la «riflessione» e la «critica»), il suo confrontare le cose tra di esse e con se stessa (il «giudizio» e la «valutazione»), l’innalzarsi il più possibile sulla vita per saltarvi dentro con la massima forza di penetrazione e scendere sempre più a fondo, insomma la «trascendenza», essi soli garantiscono il pensiero vivente contro il suo ridursi all’«indifferenza» della macchina calcolatrice per quanto efficientissima.
Centrale nella cultura del secolo scorso è il riconoscimento della «trascendenza» come il più proprio segno dell’umanità della mente.
L’uomo sta nel mondo non come un contenuto in un contenitore. Non sta inerte in un luogo, tanto meno in una propria oggettiva identità; bensì, pur restandovi, ne fuoriesce: la rompe, si sporge fuori, si apre a ciò in mezzo a cui si trova, e in relazione a sé gli dà significato. Egli non solo, come tutti gli altri esseri animati, re-agisce«patendo» agli stimoli esterni e a quelli del suo stesso corpo ma «immagina», inventa risposte inedite, in senso forte «agisce», diviene cultura, trama di istituzioni: insomma si fa storia, tessitura di passioni e di azioni.
Nel secolo scorso l’esistenzialismo fenomenologico mise criticamente a fuoco la nuova consapevolezza di ciò. «L’esserci dell’uomo – si legge in un testo di Martin Heidegger – può rapportarsi a “se” stesso, in quanto tale, solamente se oltrepassa sé nell’in-vista-di» (12). Ciò vuol dire che «qualsiasi comportamento è radicato nella trascendenza». In ciò sta la libertà originaria.
La «trascendenza» così non contraddice anzi esprime la rigorosa fedeltà all’empiria e insieme alla ragione che la riconosce e l’interpreta. Il «fenomeno», l’umano manifestarsi stesso, è «trascendenza», libertà.
Peraltro, nel riconoscersi trascendente, aperto all’oltre, l’uomo non può più chiamarsi fuori dalla sua relatione con gli altri, non può più eccepirsi come «non coinvolto». La sua libertà non può dirsi esente dal «rispondere», non può dichiararsi irresponsabile.
Dalla «trascendenza» discende il principio eticamente, e politicamente, decisivo. Ciò che rende possibile la relazione con gli altri, dove ognuno assume la sua responsabilità, è la fiducia. L’onestà del religioso si fonda nella sua fede in Dio. L’onestà del non credente si regge sulla sua fiducia nell’altro uomo.
Con la tecnicizzazione la «trascendenza» risulta soppressa. Ellul amaramente conclude che «l’uomo della nostra società non possiede alcun punto di riferimento intellettuale, morale, spirituale, a partire dal quale possa giudicare e criticare la tecnica» (13).
La tecnicizzazione, sopprimendo la «trascendenza», bandisce la fiducia e la sostituisce con il controllo. Come rileva un acuto osservatore, «la “sicurezza” dell’Occidente non è più garantita dal diritto internazionale, dalle Nazioni Unite, dal pacifismo, dai diritti dell’uomo», cioè dalla fiduciosa possibilità della libertà contrattuale, ma «dall’“impossibile, eppure reale” del controllo capillare e totale del pianeta, assicurato dalle nuove tecnologie informatiche» (14).
La totalizzazione tecnica fa della società il sistema dello «stretto» controllo. Si realizza compiutamente il modello della società «stretta».
3. L’idealtypus della società «stretta», opposto a quello della società «larga», fu delineato poco meno di due secoli fa da Giacomo Leopardi. La società umana nella sua origine naturale – egli scriveva in un appunto del 1821 – non può essere se non simile a quella delle altre specie, «una società accidentale, e nata e formata dalla passeggera identità d’interessi, e sciolta col mancare di questa; ovvero durevole, ma lassa, o vogliamo dire larga e poco ristretta, cioè di tal natura che giovando agl’interessi di ciascuno individuo in quello che hanno tutti di comune, non pregiudichi agl’interessi o inclinazioni particolari in quel che si oppongono ai generali». Dunque, una volta «ridotto l’uomo dallo stato solitario a quello di società, le prime società furono larghissime. Poco ristrette fra gl’individui di ciascuna società, e scarse nella rispettiva estensione e numero; niente o pochissimo ristrette fra le diverse società». Ma «di mano in mano che veniamo giù discendendo dai tempi naturali», «le società si sono ristrette, e ristrette per due capi: 1. tra gl’individui di una stessa società; 2. tra le diverse società. Oggi questa ristrettezza è al colmo in tutti e due questi capi». Le società si sono «sempre più ristrette e legate in proporzione dell’incivilimento». Basta osservare «i nostri tempi. Non solo non c’è più amor patrio, ma neanche patria. Anzi neppur famiglia. L’uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla solitudine primitiva. L’individuo solo, forma tutta la sua società. Perché, trovandosi in gravissimo conflitto gl’interessi e le passioni, a causa della strettezza e vicinanza, svanisce l’utile della società in massima parte, resta il danno, cioè il detto conflitto, nel quale l’uno individuo, e gl’interessi suoi, nocciono a quelli dell’altro». Insomma, «si è perduto in gran parte e si va sempre perdendo lo scopo della società, ch’è il bene comune». A questo punto, in un rilievo del 1821, Leopardi sembra polemizzare con la tesi, sostenuta poco prima, nel 1819, da Beniamin Constant. Questi aveva esaltato «la libertà dei moderni», ch’è la libertà di ogni individuo, contro «la libertà degli antichi» che invece è la libertà del corpo sociale, vissuta come propria da ciascun cittadino. La libertà degli antichi «consisteva nell’esercitare collettivamente, ma direttamente, varie parti della sovranità tutta intera, nel deliberare, sulla piazza pubblica, della pace e della guerra, nel concludere trattati di alleanza con gli stranieri, nel votare le leggi […]», ma trionfava «con tale libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme» (15). Leopardi, a prima vista paradossalmente, considera funzione di società «stretta» la libertà non degli antichi ma dei moderni. Nel «dilatare» le sue considerazioni e nell’«applicarle ai fatti, ed alla storia dell’uomo», egli «paragona principalmente gli antichi coi moderni, cioè la società poco stretta e legata, e poco grande, cioè di pochi, con la società strettissima, e grandissima, cioè di moltissimi» (16).
Nell’antropologia leopardiana, al contrario dell’idea di Rousseau, la natura dell’uomo è antagonistica: «L’amor proprio dell’uomo, e di qualunque individuo di qualunque specie, è un amore di preferenza. Cioè l’individuo amandosi naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli in quanto può, dunque effettivamente l’individuo odia l’altro individuo» (17). Ma nelle società antiche «l’amor proprio fu ridotto ad amor di quella società dove l’individuo si trovava, ch’è quanto dire amor di corpo o di patria», mentre «l’odio verso gli altri individui non già spariva ma si trasformava in odio verso le altre società o nazioni». Perciò «dovunque si è trovato amor vero di patria, si è trovato odio dello straniero» (18).
A questo primo transfert, dall’odio per il prossimo all’odio per lo straniero, più tardi, «sparito affatto l’amor di patria, e sottentrato il sogno dell’amore universale (ch’è la teoria del non far bene a nessuno)», subentra per così dire un controtransfert, dall’odio per lo straniero all’odio per ogni altro individuo e all’esclusivo amore di sé. Allora «l’uomo non amò veruno fuorché se stesso, ed odiò meno le nazioni straniere, per odiar molto più i vicini e compagni, in confronto dei quali lo straniero gli doveva naturalmente essere (com’è oggi) meno odioso, perché si oppone meno a’ suoi interessi e perch’egli non ha interesse di soverchiare, invidiare ec. i lontani, quanto i vicini» (19).
Non molto tempo dopo, in un appunto del 1823, Leopardi esplicitamente ammette che «l’uomo è per natura il più antisociale di tutti i viventi che per natura hanno qualche società tra loro». Qualora «per società perfetta» non s’intendesse altro che «una forma di società, in cui gl’individui che la compongono, per cagione della stessa società non nocciano gli uni agli altri» se non per caso, questo si riscontra solo «fra le formiche, fra i castori, fra le gru e simili», le cui società sono puramente naturali. Insomma «una società, dico, perfetta fra gli uomini, anzi pure una società vera», in cui tutti cospirino al bene di tutti, «è impossibile». In effetti, una società reale tanto più è lontana dall’idea di società, e perciò in contraddizione con la sua stessa idea, quanto più è «stretta». Dal momento che «leggi, premi, costumi, opinioni, religioni, dogmi, insegnamenti, coltura, esortazioni, minacce, promesse, speranze e timori di un’altra vita, niente ha potuto far mai [...] che l’individuo di qualsivoglia società umana, conformata come si voglia, non dico giovi altrui, ma si astenga dall’abusarsi, o vogliamo dire di servirsi di qualunque vantaggio egli abbia sugli altri, per far bene a sé col male altrui [...]» (20). È evidente che quanto più le istituzioni e i disciplinamenti si moltiplicano, e una società se ne riempie, e più stretto diventa lo spazio d’ognuno e più compressa la sua libertà, tanto maggiormente sui più deboli cresce il potere dei più forti, i quali sempre riescono dei suddetti mezzi a impossessarsi e servirsi. Se «è cosa certissima che tutto il mondo è patrimonio della forza (sia fisica, cioè vigore, sia morale, cioè ingegno, arte, ec. ch’è tutt’uno), e ch’egli è fatto per li più forti, ne segue che in una società stretta, inevitabilmente [...], i più deboli individui denno essere, furono, sono e saranno la preda, la vittima, il retaggio de’ più forti» (21).
La società moderna è sempre più stretta: dunque, contro gl’ideali professati, è illiberale. L’incivilimento è andato oltre il segno. Esso, «spegnendo le commozioni e le turbolenze civili, in luogo di frenarle com’era scopo degli antichi, [...] non ha assicurato l’ordine» («che risulta dall’armonia, e non dalla quiete e immobilità delle parti»), «ma la perpetua tranquillità e immutabilità del disordine, e la nullità della vita umana» (22).
In breve, l’individuo è stato stretto, ingabbiato. La società è divenuta una «gabbia», o più precisamente un «sistema» di sempre più numerose e stringenti gabbie: il suo dispositivo non è un ordine di forme, ma un labirintico montaggio di recinti.
4. Secondo i demografi, nel 2012 la nostra piccola Terra sarà abitata da sette miliardi di esseri umani. È l’opposto delle prime società, definite «larghissime» da Leopardi: «poco ristrette fra gl’individui di ciascuna società, e scarse nella rispettiva estensione e numero; niente o pochissimo ristrette fra le diverse società».
Evidentemente la prima condizione oggettiva, a cui gli uomini nel loro determinarsi sociale devono rispondere è la densità demografica, il rapporto tra il numero d’individui e di gruppi coesistenti e l’estensione del territorio che occupano, o di cui potrebbero disporre. Il parametro metrico dell’estensione territoriale è significativo, soltanto se è integrato dalla quantità di risorse attuali o potenziali in essa contenute, cioè dall’ampiezza non solo metrica del Lebensraum, dello «spazio vitale». La più elementare qualificazione di una società sta nel suo essere, letteralmente, «larga» o «stretta», e costituisce la condizione decisiva delle occasioni, da cui è provocata la risposta della libertà nel dare forma ai rapporti tra le persone e tra le persone e le istituzioni. I percorsi stessi del dare forma risultano condizionati dalla «larghezza» o dalla «strettezza». Nelle situazioni di «larghezza» le sfide consistono nelle condizioni «naturali», com’è il caso delle «strutture della parentela» nel formarsi delle società «primitive». Nelle situazioni di «strettezza» s’impongono invece le sfide «artificiali», storiche, com’è il caso della scienza sperimentale nello sviluppo della forma industriale della società borghese.
A questo punto emerge il nesso tra le occasioni naturali e le artificiali.
Che altro è una qualsiasi occasione artificiale se non una tecnica? L’essenza della tecnica è la strumentalità, la capacità di mediare tra un bisogno e la sua soddisfazione. Non è possibile pensare una tecnica senza pensarne il fine, l’obiettivo da conseguire, il bisogno da soddisfare. Chi immaginerebbe un paio di scarpe ortopediche se non per equilibrare il passo di un piede difettoso? Una tecnica peraltro non necessariamente è uno strumento materiale. Può ben essere immateriale, puro strumento mentale. Prima dell’invenzione della scrittura la memoria veniva intensamente esercitata, per tenere ad ogni occorrenza presenti eventi passati della vita privata e soprattutto pubblica, come le vicende di un regno, che oggi verrebbero registrate negli archivi, o per segnalare in tempo a noi stessi le programmate azioni, il che oggi faremmo con le agende cartacee o informatiche. Non meno per un preciso fine pratico, per poter ricostruire con precisione misure e posizioni delle proprietà terriere dopo le periodiche inondazioni del Nilo, si coltivò nell’antico Egitto la geometria.
La cosa tecnica per eccellenza è la macchina, materiale o mentale. Nella sua struttura essa realizza con due proprietà l’essenza della tecnica. 1) La macchina è un procedimento regolarizzato, illimitatamente ripetibile. Se, per esempio, tecnica per l’efficienza del corpo vivente è la ginnastica, macchina è ogni prescritto esercizio; se tecnica della mente per il calcolo elementare è la tavola pitagorica o per il discorso persuasivo la retorica, macchine sono la disposizione dei fattori sul quadrato nel primo caso e, nel secondo, la metonimia o la sineddoche. 2) La macchina, programmata per un fine, è sì costitutivamente «strumento»; tuttavia nel suo esistere attuale è indipendente dal fine originario, al punto di poter venire usata per altri fini o, fuori da ogni uso pratico, assunta a oggetto di pura conoscenza.
La tecnica è lo strumento. Di essa non manca di costituirsi una scienza. La tecnologia è appunto il discorso sullo strumento (23). Pratica è la tecnica, teorica la tecnologia.
È la tecnica, con il suo crescente organizzarsi, la potenza che sembra destinata ad assimilare e assorbire la società. (In una società ridotta a tecnica la scienza non solo ma l’intera cultura non possono consistere che nella tecnologia. Né il suo ordine politico può essere altro che la tecnocrazia).
Il pericolo più temuto, quando s’immagina il ridursi della società alla tecnica, non è in genere l’idolatria umana degli strumenti, il loro invertirsi da strumenti in fini, l’egemonia tecnologica e il totalitarismo tecnocratico. In questi casi si tratterebbe sempre di modi sia pure regressivi dell’umana soggettività.
L’incubo fantascientifico, favoleggiato nel motivo dell’«apprendista stregone», è che a un certo punto le macchine materiali non restino soltanto nel loro esistere indipendenti ma lo divengano nel loro operare e, riempite come sempre più saranno di «intelligenza» artificiale, sempre più brave così nella «memoria rievocativa» o nel «calcolo matematico», sfuggano al controllo prestabilito: metaforicamente si «ribellino» o «impazziscano», o addirittura letteralmente «decidano da sé». Per qualche esperto di robotica si tratta ormai più che di un incubo fantascientifico. «La scelta del Pentagono di riorganizzare l’esercito in modo che entro il 2015 abbia un’ampia quota di combattenti non umani comporta rischi etici enormi. Dare la licenza di uccidere ai robot, che possono “impazzire” davanti a situazioni impreviste oppure essere hackerati dal nemico, è folle» (24).
A questo punto, il kantiano «regno dei fini» sarebbe soverchiato dal «regno dei mezzi», l’etica delle persone dall’efficienza delle macchine. La realtà non sarebbe più il mondo della soggettività, che è il nostro mondo, quello dal cui interno noi parliamo, né perciò sarebbe mediabile dalle nostre categorie mentali: in breve non vi sarebbe più «mondo». La realtà non si conterrebbe più nella forma della patica ragionevolezza, della potenza del «trascendere», ma in altro modo d’essere, non pensabile, ma semplicemente calcolabile. In esso, se «scelte» potessero ancora concepirsi, lo sarebbero sempre in un quadro di determinismo, sia pure probabilistico. Nel «regno dei mezzi» l’idea di «dovere» non avrebbe alcun senso.
In ogni caso, allo stato attuale, mentre la società si avvia ad essere il sistema tecnico, ma ancora non lo è, e i due si mantengono in tensione, la società è sempre più «stretta». Nel momento, in cui la tecnica si annettesse totalmente la società, veramente nessun sistema di rapporti tra le parti e il tutto e delle parti tra di esse potrebbe più darsi in forma di società.
Una volta annullata ogni distanza, ogni sia pur minima «larghezza» in cui tra fatto e idea trovasse spazio la tensione, cioè la polarità di «oggetto» e «intenzione», la «strettezza» diverrebbe assoluta. Il potere di simbolizzare, così intrinsecamente specifico del modo umano di essere da indurre Ernst Cassirer a definire l’uomo come «animal simbolicum», si estinguerebbe. Infatti, come lo stesso Ellul osserva, «la simbolizzazione è un processo di distanziamento, mentre il processo tecnico è al contrario un meccanismo d’integrazione dell’uomo» (25).
La «trascendenza» resterebbe soppressa. Cesserebbero la paticità della mente, il piacere e il dolore interrogati oltre che patiti, la relazione non empatica o banalmente verbosa ma dialogica, insomma l’intero campo della soggettività.
È evidente che un collettivo di macchine non sarebbe mai una società.
5. Ogni figlio di uomo, fattosi umano nella naturale relazione «comunitaria» della prima infanzia, non vive da uomo se non dentro un sistema di relazioni storicamente costruito, dunque artificiale, «societario».
Nella relazione naturale la mente si origina come «trascendenza», movimento entro un ideale «spazio» ove al sé si oppone altro dal sé. Ne è condizione l’azione provocatoria, quasi una scossa, di almeno un’altra mente, adulta (per lo più la mente materna), la quale secondo la bella metafora di Fichte «invita» la mente nascente, cioè la sfida a rispondere, le offre la prima occasione di libertà.
La «comunità» originaria non è una cosa (una collettività reale, un insieme numerabile d’individui), come molti hanno inteso per criticarne la supposta sostanzialità, bensì è una funzione (il fervore comunicativo che fa degl’individui persone); né peraltro s’identifica con l’istituzione «società», regolata convivenza di «soci», di cui invece è il «fondamento» (26).
La domanda sulla libertà si può porre soltanto in concreto. Quali, in un dato momento storico, sono le occasioni con cui una società, una definita rete di rapporti istituzionali, di ideologie e di abiti pratici di massa, sfida l’uomo? In quale modo aiuta la sua mente a «spaziare» (oppure la soffoca)?
A parte le sfide selvagge della natura, la società è un campo proprio delle occasioni della libertà, ma certamente né una società troppo «larga» né una troppo «stretta» aiutano la mente a «spaziare». Nella prima le sfide sono rare e deboli, nella seconda restano solo coazioni: in ambedue i casi si effettuano scelte, ma non vive la libertà.
Il nostro «trascendere» è l’apparire del mondo, il luogo del nostro esserci.
Soppressa la «trascendenza», il mondo non apparirebbe più: funzionerebbe soltanto. Noi stessi allora non saremmo che parti del funzionamento del mondo, macchine. Ma se le macchine fossimo noi stessi, chi le «vedrebbe»? Se il nostro mondo fosse di macchine, come lo «abiteremmo»
L’estrema minaccia della società tecnicizzata è la fine della «trascendenza», la s-parizione del mondo. Dissolti i significati, atrofizzato il senso, sarebbe soppresso lo spazio della «trascendenza», la coscienza come movimento di me oltre di me. Si badi: non perché uno spazio mentale, l’«interiorità», mi sia dato, io posso trascendermi; bensì soltanto nel mio trascendermi lo spazio mentale (l’«interiorità») si apre. Certo, se lo spazio mentale si chiudesse, tacerebbe «dentro di me la legge morale», e «il cielo stellato sopra di me» si dissolverebbe in un’irreversibile entropia estetica.
Una volta totalmente tecnicizzata la società, ridotto il sistema sociale al sistema tecnico, reso dunque impossibile il «trascendere», è evidente che nessuna sfida più si darebbe, cioè nessuna occasione piùsi offrirebbe alla libertà.
Ciò che seriamente ci minaccia non è un fantascientifico regno di macchine, il dominio degli automi! Il meno letterario ma ben piùconcreto pericolo è che gl’individui umani cessino d’essere «persone». Con la fine delle menti patiche, ossia sofferenti e immaginose, si compirebbe la s-parizione del mondo. Ogni mente vuota di «spazio» sarebbe risucchiata dall’immediata fisicità della vita: il piacere e il dolore certo ancor vibrerebbero nelle fibre del vivente, ma senza echi che aprono spazi, senza formarsi d’inedite immagini, insomma non più sarebbero, attraverso la mediazione fantasticodialogica, «trascesi» in pensieri. Il mentale sarebbe ridotto all’impassibile e insensata efficienza del calcolo.
A questo punto non si è ancora giunti. Ma la tendenza appare a molti irresistibile. Il sistema sociale sembra sempre più «stretto», perché sempre più tributario del «sistema tecnico». Potrebbe però anche darsi che semplicemente il sistema sociale per suoi intemi motivi, sociali e non tecnici, approfitti della tecnica per farsi più «stretto».
Certamente nel nostro tempo la penetrazione della tecnica nella società fa grandi passi e sempre più veloci. Però non ancora la società può considerarsi compiutamente ridotta al «sistema tecnico».
Soltanto se un giorno questa riduzione si compisse, la molteplicità dei fatti sociali, tutti allora determinati dal potere della tecnica, potremmo immaginarla pensabile, in forma di vero e proprio pensiero, essenziale e perciò necessario, come puro «sistema tecnico».
In effetti, se tale riduzione si verificasse, il pensiero non potrebbe affatto pensarla perché in questo caso la possibilità stessa del pensiero sarebbe esaurita: funzionerebbe allora soltanto il calcolo.
La riflessione critica non lascia scampo. Una società assimilata dal «sistema tecnico» è «impensabile». Prima che si realizzi, essa non è pensabile, perché non sarebbe organica forma, essenza, autentico oggetto di pensiero; né, realizzata, può esser pensata, perché a questo punto il pensiero si sarebbe estinto nell’automatismo del calcolo.
Ci si rende ora conto di come l’idea di un sistema sociale ridotto a «sistema tecnico» non sia che un insensato incubo. Essa invece può ben avere un senso, se gli uomini non si perdono nell’assurda pretesa di pensare la sua impensabilità, ma ne intendono l’incubo come sfida. All’umanità si presenta l’eccezionale occasione per conseguire la piena maturità, per entrare finalmente nell’età della ragione, nella kantiana «maggiore età».
Solo se noi ci decideremo per la difesa del pensiero vivente, che soffre e immagina e desidera il nuovo, quel che mai è stato pensato; se ci riconosceremo responsabili non verso il passato – comandi, leggi, abitudini, tradizioni, tutto già irrigidito, non capace se non di ripetersi – ma verso il futuro, verso il mondo che ancor non c’è, neppure implicito nella strapotenza della più complessa e versatile macchina calcolatrice; se, spezzando le catene dell’«eterno ritorno» del passato, ci disporremo a ricevere l’autentico nuovo, il «possibile» aperto alla grazia, allora avremo colto l’occasione del salto evolutivo, della svolta della storia, in breve la più straordinaria occasione della libertà (27).
Se alla fine le morali, essenzialmente elaborate a difesa della positività di qualche ordine, saranno esaurite, potrà vigoreggiare l’etica, l’invenzione continua della libertà.
La vulgata ideologica grida l’allarme contro due nemici contemporaneamente: da una parte i limiti sempre più stretti e i vincoli sempre più soffocanti della società colonizzata dal «sistema tecnico»; dall’altra parte la nichilistica distruzione di tutti i limiti e i vincoli morali. L’umanità sembra così minacciata dalla sinergia dei due opposti mali: la tecnica, totalitario ordine senza libertà; ilnichilismo, sfrenata libertà senza ordine!
Il diffuso timore di questa minacciosa tenaglia, e la corrispondente idea della sfida a cui oggi l’uomo sembra chiamato a rispondere, sono esemplarmente rappresentati dal tono di una allarmata pagina di Carl Schmitt, del 1958. «Colui il quale riuscirà a imprigionare la tecnica scatenata, a domarla e immetterla in un ordinamento concreto, avrà dato risposta all’appello del presente più di colui che cerchi con i mezzi di una tecnica scatenata di atterrare sulla luna o su marte. Il soggiogamento della tecnica scatenata, questo sarebbe ad esempio l’atto di un nuovo Ercole. Da questa direzione sento il nuovo appello, il challenge [la sfida] del presente» (28).
L’enfasi di Schmitt riflette gli anni in cui lo stupore di massa era suscitato dalla tecnica dei viaggi interplanetari, a ridosso e quasi a rincalzo dello sgomento seguito all’ingresso dell’arma atomica nella storia. Oggi, a mezzo secolo di distanza, siamo nel cuore di una tappa nuovissima, in cui la tecnica non si limita più, lavorando sulla materia inerte, a modificare il nostro rapporto con lo spazio e con il tempo, ma penetra nell’intimo della materia vivente, del nostro stesso corpo, e si esercita a un sempre più decisivo governo dei processi biologici, avviata a determinare fin dalle radici le condizioni della stessa vita umana. Di essa s’intaccano i limiti, la nascita e la morte, e già si perseguono deliranti prospettive di fecondazione con ovuli e spermatozoi da laboratorio, né ci si nasconde di aspirare semiseriamente all’immortalità, proprio come argomenta il mio amico psichiatra, pensando che «in questo momento della sua storia l’umanità non ha più bisogno della morte per sopravvivere».
Il delirio tecnologico comporta la promessa di sopprimere il dolore. Qualcuno sostiene che in tal modo il baricentro dei problemi umani si sposta dal dolore, che la tecnica ritiene di poter contenere, al senso(29). Ma, a prescindere dal fatto che la perdita di senso, lungi dall’esser compensata dalla tecnica, da questa appunto viene in modo decisivo favorita, è impossibile che, sia pure soppresso il dolore fisico, si elimini anche il dolore morale. Questo all’uomo deriva da lui stesso, dalla sua mente: dall’angoscia della morte incombente, dalla solitudine dell’abbandono e del tradimento, soprattutto dall’idea dell’invincibilità della propria ignoranza.
Vico osservò che la mente, quando contempla nelle divine idee il multiforme mondo della storia, prova «un divin piacere, in questo corpo mortale», mentre il falso provoca in essa «un forte dolore, dato che essa si adira e s’indigna di fronte alle sfacciate menzogne» (30). La mente insomma reagisce alla situazione che le è intollerabile, e cade preda di «grave dolore» quando viene aggredita, per così dire, dal suo stesso interno, quando ciò che in diritto le è proprio, il vero, viene inquinato e negato nel fatto dalla menzogna e dalla illogicità. In tal caso infatti essa è costretta, contro se stessa, a pensare il non pensiero, cioè a pensare non pensando.
Qui risalta con piena evidenza come nel corpo non solo nasca il dolore che con la mente si avverte, ma s’incarni il dolore che nasce nella mente. Questa è in se medesima patica, gioiosa espansione del comprendere stimolato dalla penosità del non capire.
Dunque, se per il potere della tecnica fosse soppresso il dolore fisico non soltanto ma anche, per impossibile ipotesi, il dolore morale, sarebbe con ciò tolta la mente stessa che solo nella «cultura», nella cura di sé, vive.
Nel paradiso terrestre non sarebbe mai nata cultura, non tanto perché non vi sarebbe stata «conoscenza del bene e del male», quanto perché sarebbe mancato il dolore.
L’«appello o la sfida a imprigionare la tecnica scatenata» sembrerebbero a questo punto dover essere dettati non dallo scompiglio da essa prodotta nei modi dell’umano abitare la Terra, bensì dallo sconvolgimento del fin qui creduto intangibile ordine della vita, e dal timore che ne resti scardinato l’ordine fondamentale della forma società, polverizzato ogni suo originario principio.
Tuttavia, ben più che della consistenza biologica dell’uomo, è della sua consistenza sociale che la tecnica sempre più aggressivamente minaccia di appropriarsi, invadendone l’identità con la propria, fagocitandola.
La rapidissima espansione delle tecniche informatiche sta spostando i centri effettivi del potere e del modellaggio sociale. Ai vecchi luoghi, visibili o facilmente individuabili e contestabili, se ne sostituiscono altri, dove nuovi poteri, troppo spesso anonimi e occulti, irraggiungibili, paradossalmente coltivano totalitarie trasparenze di massa. Con ciò si tende a sopprimere l’intimità privata, senza in compenso promuoverne una pubblica (l’«agorà» radicalmente democratica!). Di fatto tutti gl’individui, anche se inegualmente, vengono esposti al labirintico circuito dei controlli e dei ricatti, nel cui torbido i poteri, quanto più forti sono, tanto più pescano le carte del loro gioco.
Certo le multiformi ideologie, metafisiche o religiose o politiche, in cui di volta in volta le società si esprimono, hanno sempre condizionato le menti, il che è necessario alla libertà come, nell’immagine kantiana, la resistenza dell’aria al volo della colomba. Senza condizionamenti non v’è umana determinazione. In effetti tutte le formazioni culturali, le ideologie appunto, hanno sempre condizionato le menti, però più o meno largamente, mai cioè riuscendo a toglier loro ogni spazio di attiva adesione o di convinto rifiuto (pagato magari con la vita). Anche le ideologie sono state insomma occasioni della libertà. Per esse le menti si mostrano sicure figlie della società storica, non suoi meccanici prodotti.
Per un Roberto Bellarmino c’è sempre un Giordano Bruno: non il male e il bene, ma l’integrato e l’apocalittico, la ripetizione e la differenza! Ognuno ha colto a suo modo l’occasione offerta dal proprio tempo.
Adesso è proprio la dialettica società-menti che la tecnica informatica minaccia di rompere. Essa tende a non lasciare alle menti spazi di opposizione. La sua logica è il semplice comunicare, indifferente al contenuto. Suo è il principio che «il mezzo è il messaggio»: il mezzo è tutto, e non altro è la comunicazione. Si ribadisce per questa via la minacciosa prospettiva dell’instaurarsi del «regno dei mezzi».
Le menti si avviano ad essere sempre più strettamente condizionate ovvero, al limite, costrette dalla pubblicità (messaggio senza pensiero) e dallo spionaggio (pensiero senza intimità).
Un messaggio senza pensiero e un pensiero senza intimità negano la possibilità della trascendenza.
Alla fine, la cultura – che è l’umano, emancipatosi dal determinismo della natura –, se si inaridisce in pura tecnica della comunicazione, s’irrigidisce in un nuovo, ben più rigoroso e perciò stringente determinismo, «barbarie risorta», nuova selvatichezza.
Estromessa la trascendenza del pensiero, non resta padrona assoluta che l’immanenza del calcolo. Allora la realtà umana non si determina più nella mediazione idealizzatrice del pensiero, insomma nella libertà, ma esclusivamente nell’immediatezza fattuale delle meccaniche cause. La nostra umanità in fieri si riduce a funzionare come quando, per dirla con Lucrezio, impulsi procedimus ictu /viribus alterius magnis magnoque coactu (31).
Jürgen Habermas nel 1968, visto che tra le le prime 50 voci d’invenzioni tecniche date per probabili nei successivi 33 anni erano annoverate «un grosso numero di tecniche di controllo e di modificazione della personalità», avvertiva che, oltre le già allora praticabili «manipolazioni psicotecniche del comportamento», un «controllo del comportamento in futuro sarebbe potuto iniziare ancor più alla base e specialmente con interventi sulla trasmissione genetica di informazioni ereditarie». Alla fine «l’autoggettivazione dell’uomo si sarebbe compiuta e sarebbe culminata in un’alienazione pianificata: gli uomini farebbero la loro storia con volontà, ma non con coscienza» (32).
Ora, se il seme della libertà è nel pensiero, le semplici forze «naturali» e il loro gioco non sono «pensabili», ma soltanto «calcolabili» in base all’automatica commisurazione delle utilità.
La sentenza di Vico, posta all’inizio di questo libro, ora si rovescia in un’altra. Questa la si potrebbe così simmetricamente formulare: non occasio est mater societatis, sed utilitas.
Nella nostra presente prospettiva, l’occasione non è – si badi bene – una sfida a compiere gesti tecnoclastici. Il furore tecnofobico sarebbe soltanto uno stolto rinnegare noi stessi, ossia negare l’intraprendenza conoscitiva e pratica con cui abbiamo costruito la nostra stessa umanità e introdotto nel mondo inaudite differenze.
La nostra occasione non è se non l’appassionante sfida a padroneggiare noi stessi, poiché noi stessi siamo la «tecnica», la nostra terza natura (dopo la prima, genetico-fisiologica, e la seconda, storico-culturale).
A volerci esprimere suggestivamente con il mito platonico dell’anima come carro alato, oggi a noi – la ragione – è indispensabile tenere saldamente le briglie del terzo cavallo – il noi più capace di essere contro di noi – che Platone ancora non vide. Se esso è sempre noi, come lo sono i sensi, le passioni, l’intelligenza stessa, immaginare di sopprimerlo è sogno puerile. Il compito serio, da adulti, è dominarlo.
Il nostro nemico non è la tecnica, noi stessi, ma la «tecnocrazia», il potere totalitario di una parte secessionista di noi, della tecnica fattasi prevaricazione di un corpo separato e incontrollabile, di un astratto parziale, sull’intero concreto. È il limite questo, a partire dal quale la tecnica si annette la società nella sua più stretta forma organizzata, qual è lo Stato. La capitolazione della statualità alla tecnica è alla base della riflessione di Emanuele Severino. «È la Tecnica, su cui si basa la loro forza politica, economica e militare, a servirsi sempre più degli Stati per accrescere la propria potenza, non la loro. In questo processo, l’apparato scientifico-tecnologico si costituisce come il Superstato che va lasciandosi alle spalle la politica e lo Stato e i loro conflitti» (33).
Questo oggi, al di là delle piccole e meno piccole beghe degli affari di potere, miserabili apparenze, è tutto il problema «politico», grande quanto il mondo degli uomini. Per capirlo e affrontarlo occorre il pensiero, un pensiero fortissimo.
Nella società stretta del modello «tecnocratico», la sfida che lo stato del mondo impone all’uomo non è tanto, contro il nichilismo, come spesso si sbandiera, la restaurazione di limiti e misure, quanto l’opposto: la rottura di limiti e misure soffocanti, lo sfondamento dell’assedio sempre più stretto, l’apertura completa dello spazio in cui la mente consiste.
Qui sta ora l’occasione della libertà.
Siamo tutti sfidati a rompere i confini non dell’universo rappresentato, come toccò a Bruno, ma dell’interiorità forzosamente contratta.
La sfida oggi è far vivere la libertà: impedire che per nostra pigrizia o viltà la facilità del calcolo estrometta, una volta per sempre, la difficoltà del pensiero, e così la sempre più strettamente congegnata serialità dei nessi sociali soffochi la «trascendenza» della mente.
Nell’età della tecnica galoppante, ci troviamo dinanzi a una sfida estrema.
Nel vertiginoso giro dei tempi, se questa volta, prima che a determinare le nostre scelte e i nostri cambiamenti restino solo le costrizioni della tecnica, noi – con sapienza, pietà e coraggio curandone il desiderio – ci decidiamo ad esser liberi, potremo ancora avere occasioni di esserlo, salvarci. Altrimenti, dopo, mai più potremo essere altro che «ingranaggi».
NOTE
(1) Le Système technicien [1977], Paris 2004, Le cherche midi éditeur, tr. it. di G. Carbonelli, Milano 2009, Jaca Book, p. 35.
(2) Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica [1857-8], trad. it. di E. Grillo, Firenze 1968, La Nuova Italia, vol. 1, p. 97.
(3) Op. cit., p. 107.
(4) Op. cit., p. 391.
(5) La natura e il valore della scienza [1938], tr.it. in La mia filosofia, Torino 1946, Einaudi, p. 109.
(6) Paris 1981, Le Centurion, p. 174.
(7) “Corriere della sera”, 30 agosto 2009, p. 24.
(8) Ho discusso questo tema nel libro Il tempo e la grazia, Roma 1995, Donzelli.
(9) Op. cit., p. 388.
(10) Ibid., p. 378.
(11) Ibid., p. 384.
(12) Wesen des Grundes, in Wegmarken, Frankfurt a. Main 1967 (2 ed.), Klostermann, p. 160; tr. it. di F.Volpi, in Segnavia, Milano 1987, Adelphi, p. 119.
(13) Op. cit., p. 387.
(14) Mario Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Torino 2009, Einaudi, p. 127.
(15) La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, tr. it. a cura di G.Paoletti, Torino 2005, Einaudi, pp. 6-7.
(16) Zibaldone di pensieri, 873-877.
(17) Ibid., 872.
(18) Ibid.., 880.
(19) Ibid., 885.
(20) Ibid., 3775.
(21) Ibid., 3781.
(22) Ibid., 163.
(23) Ellul, op. cit., p. 52.
(24) Riccardo Staglianò, Robot... “La Repubblica”, 5 settembre 2009, p. 43.
(25) Op. cit., p. 214.
(26) Il mio pensiero sul nesso comunità-fondamento è documentato soprattutto in La comunità come fondamento, Napoli 1965, LSE; e in Il senso del fondamento [1967J, 2° ed. Napoli 2009, Editoriale Scientifica.
(27) Il tempo e la grazia, cit., capp. XV e XVII.
(28) Dialogo sul nuovo spazio, in: Terra e mare, trad. a cura di A. Bolaffi, Milano 1986, Giuffré, p. 108.
(29) Umberto Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla filosofia pratica, Milano 2006, Feltrinelli, passim.
(31) De rerum natura, II, 272-3.
(32) Teoria e prassi nella società tecnologica, tr. it. di C. Donolo, Bari 1969, Laterza, pp. 229-230.
(33) La Tecnica, un Superstato..., “Il Corriere della sera”, 1 novembre 2009, p. 31.
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