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Intorno al segno della verità del nulla

Alcune domande a 

Sergio Givone

a cura di Bachisio Meloni

D.: Prof. Givone, intenderei soffermarmi su un preciso segnale che attesta un profondo ed interessante “mutamento di paradigma”, se non, come Lei tende a precisare, d’una “rotazione dell’asse filosofico” testimoniato dalla seguente formula: “Ciò che non si può dimostrare, deve essere raccontato”. Ho l’impressione che siano fondamentalmente due le ragioni che hanno spinto Lei, come altri pensatori, in quest’ultimo decennio a dare spazio ad altre forme di linguaggio, alla “bella scrittura”, all’idea di romanzo nella meditazione filosofica. Per ciò che concerne l’ambito più strettamente poetico, rispetto alla rassicurante linearità della prosa, alla nitida struttura della forma saggistica, subentra il riferimento alla predilezione del discorso poetico per – Parmenide e Wittgenstein permettendo – l’“indicibile”. Non solo, riguardo a tale “nuova categoria” o nuovo modo di “conoscenza”, che tanto peso ebbe nella  fondamentale “svolta” del pensiero heideggeriano (senza per questo voler tralasciare gran parte del pensiero anti o post-hegeliano: penso alla linea Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Freud, o all’opera di Leopardi e di Michelstaedter), solo un’attenta analisi a partire da uno sguardo poetico (o “ultra-filosofico”) è in grado di scandagliare l’abisso e l’evento impenetrabile, fascinoso ed orrendo, neutro diremmo meglio, dell’esistenza generale e di ognuno. Nel Suo caso specifico la riflessione ricade invece più propriamente sulla realtà del romanzo e su quella verità che pure in esso si cela o si tenta di portare alla luce (mi riferisco a quanto Lei sostiene in Il bibliotecario di Leibniz. Filosofia e Romanzo (Einaudi, Torino 2005). Vorrebbe dirci qualcosa a riguardo di questo Suo ulteriore orientamento?

 

Sì, il punto è precisamente quello: Parmenide e Wittgenstein “permettendo”, come Lei dice. Sarà pure azzardato e discutibile l’accostamento, ma bisogna partire da lì. E cioè dalla trasparenza dell’essere al pensiero, diciamo pure: dall’idenità di essere e pensiero. Certo in Parmenide l’identità ha valore metafisico e ontologico, mentre in Wittgenstein essa si dispiega interamente sul piano logico-formale e anzi linguistico. Ma se per Parmenide il logos è l’essere, è la struttura razionale della realtà, è pensiero che pensa il mondo com’è veramente – e non altro (tu non penserai il nulla, ammoniva Parmenide), in Wittgenstein invece l’essere è il logos, è ciò che si lascia esprimere linguisticamente – e non altro (dell’indicibile bisogna tacere, scriveva Wittgenstein), ed è per l’appunto questa esclusione del nulla o dell’indicibile dall’ambito di ogni discorso di verità ad autorizzare un progetto filosofico di “purificazione” o di formalizzazione del linguaggio che risolve l’ontologia nella logica e mette a tacere tutto il resto, concedendogli tutt’al più una certa dignità estetica ma negandogli qualsiasi accesso al vero. Del nulla non è più nulla. Sull’ “evento impenetrabile…neutro” cade un interdetto definitivo e pesantissimo. Quali le conseguenze? Ne ha parlato Putnam, quando ha fatto notare che quella operazione, pur necessaria, comportava il rischio di un vero e proprio suicidio filosofico. Una filosofia incapace di prestare ascolto a quel resto si nega in quanto filosofia. Diventa matematica, diventa tutt’uno con questo o quel sapere scientifico, ma non più filosofia. Si dirà: e noi facciamo a meno della filosofia. Già, ma siamo disposti a lasciare mute, non problematizzate, tutte quelle forme d’esperienza per interrogare le quali abbiamo bisogno di partire proprio da quell’”altro” che si vorrebbe cancellare? In ogni caso, non è solo questione di stile o del piacere per la scrittura, ma di una diversa concezione della filosofia, un mutamento paradigmatico, dove la filosofia non si lascia assimilare a modelli scientifici di conoscenza, ma non per questo cade nell’affabulazione, perché resta conoscenza, anche se di tipo particolare. E cioè: conoscenza interpretativa, conoscenza ermeneutica. Un teorema matematico vuole essere dimostrato. Una storia chiede invece di essere interpretata. Ecco, la filosofia come interpretazione di storie (storie che possono riguardare tanto gli uomini quanto Dio) alla luce di una verità possibile, è la concezione della filosofia che si affaccia qui. Una concezione diversa, che può sembrare nuova, ma che nuova non è: Vico, Hobbes, Rousseau non prendono forse a tema un episodio fondante della storia del genere umano, e cioè il patto che permette l’uscita dallo stato di natura, svelandone l’ipotetica verità nascosta? Il prospettivismo di Kierkegaard, il suo affidarsi a eteronimi, non sono strategie narrative? E Nietzsche: niente in lui è dimostrazione, tutto è racconto, tutto è evento, a cominciare dall’evento della morte di Dio. Da questo punto di vista la tesi che ho sostenuto nel mio ultimo libro va intesa sia nel senso del riconoscimento che la filosofia ha un’essenza romanzesca sia nel senso dell’affermazione che il romanzo ha un’anima filosofica.                   

 

D.: Fondo oscuro dell’esistenza e dell’essere in generale che ha coinciso, fin dall’opera di dissoluzione del reale suscitata dal linguaggio evocativo di Mallarmé in particolare, con una fondamentale spinta all’“ateismo” e alla “disumanizzazione”; disumanizzazione che, per intenderci, è da pensare più nei termini di una costitutiva separazione fra esistenza impersonale ed esistente, ossia nei modi tipici di una fondamentale risalita alla “verità dell’essere”. Il fatto di non vedere nella filosofia “l’ultima possibilità”, l’arte come mirabile strumento della dissoluzione del mondo in immagine, della “separazione” e della “differenza ontologica”, come del resto lamenta Levinas, in assenza di critica, può tradursi – nel peraltro auspicato superamento della metafisica tradizionale –, in “una esaltazione di una obbedienza e di una fedeltà che sono obbedienza e fedeltà per nessuno” (come esempio di questo ipotetico riferimento o preghiera, Salmo, mi viene in mente la Niemandsrose di Celan da Lei citata in chiusura a Storia del nulla, Laterza, Roma 1995). Lei in quell’occasione, riprendo un concetto su cui poter ancora riflettere, ha teso a privilegiare una prospettiva fondamentalmente meontologica: “davvero”, cito, “non c’è cosa […] che non sia custodita e fatta essere quale veramente è da ciò che l’espone al suo stesso annientamento” (p. 222). Il nulla di cui Lei parla – e in specie sulla base dello sguardo poetico del/dal nulla leopardiano –, come ha inteso precisare, non ha niente a che vedere con l’escatologia rovesciata della prospettiva nichilista; mi chiedo tuttavia se l’indeterminatezza dell’Aperto sia in grado di suscitare al contempo una prospettiva autenticamente laica ed umanamente etica.

 

Quando si parla di “fondo oscuro dell’esistenza e dell’essere in generale”, come accade per esempio nella mistica speculativa, in Böhme e in Schelling, ci si pone fuori eo ipso rispetto alla filosofia dell’identità (da Parmenide a Wittgenstein), ma anche del razionalismo metafisico (Hegel, principalmente). La filosofia dell’identità si basa non solo sull’identità dell’essere e del pensiero, ma prima ancora sull’identità dell’essere con se stesso. L’essere è. Il non essere non è – non è al punto che neppure si può dire che non è. L’essere è l’essere: questo è tutto quel che si può dire! Se, come lo stesso Wittgenstein sarà costretto ad ammettere, l’indicibile resiste a questa presunta indicibilità, e fa valere le sue ragioni, e chiede la parola, imponendo alla filosofia di volgersi al “mondo della vita” per cogliere negli interstizi del linguaggio naturale le voci che il linguaggio logico-formale condanna al silenzio, proprio come un medico che si dispone ad “auscultare” le cavità polmonari cercando i segni della patologia latente, la filosofia dell’identità è già oltrepassata. Lo stesso era accaduto a Schelling: addirittura sarà l’essere in quanto tale ad apparirgli altro da sé, e quindi a resistere alla identificazione di sé con sé, dal momento che l’essere reca in sé la possibilità del non essere e del nulla, e questa possibilità, che è poi la libertà, non può essere annientata, pena lo scadimento dell’essere a mero doppio o supporto o ripetizione dell’esistente. Invece il razionalismo metafisico, come accade esemplarmente con Hegel, resta fedele alla filosofia dell’identità, anche se l’identità è bensì posta all’inizio (come identità astratta e negativa di essere e nulla), ma ritrovata alla fine (come identità concreta e positiva, dove l’essere si è fatto spirito e il nulla è vinto per sempre). Qui il “fondo oscuro dell’esistenza e dell’essere in generale” è attraversato dalla luce, che ne trionfa, superando qualsiasi dualismo e consumando il residuo irriducibile del non essere nell’essere. La tragedia, dyssos logos, è cosa del passato. Attuale è lo spirito trionfante sulle potenze del negativo e soprattutto del nulla. La filosofia non si degna più di loro. Le disconosce. Non si può neppure dire che le neghi, perché semmai le lascia cadere, lascia il nulla al nulla, secondo l’antico insegnamento parmenideo. Non stupisce dunque che sia l’arte a farsi carico di qualcosa che è anche più significativo dell’oblio dell’essere: l’oblio del nulla. L’arte si pone espressamente come memoria del nulla. Infatti lo ricorda in due modi: uno più appariscente e impressionante, l’altro più profondo e per così dire più filosofico. Nel primo caso ricorda che il nulla è il nulla, ricorda cioè che la verità del nulla non si piega alla verità dell’essere, ma è quella che è, e per quella che è vuol farsi sentire: dura, amara, tragica, perché è in forza del nulla, questa potenza indomabile, che il male si rivela più potente e più inquietante del  bene negato e la tenebra si rivela più tenebrosa della luce assente. Nel secondo caso ricorda che il nulla non soltanto ha una sua verità, che è fin troppo facile accomodare, ma addirittura viene prima della verità, in quanto fa da presupposto e da condizione di ogni autentica rivelazione di senso. In entrambi i casi il contributo di Leopardi è stato fondamentale. È Leopardi a vedere nel nulla “l’abisso orrido, immenso”, ma è lo stesso Leopardi a concepire il nulla come il principio (“il principio di tutte le cose… è il nulla”) che permette di gettare sul mondo uno sguardo in grado di coglierne l’intimo segreto: la misteriosa, struggente levità. Lo stesso si deve dire di Celan. Quanto ai filosofi, certamente si deve fare il nome di Heidegger (anche se Heidegger si è attribuito dei meriti che ha solo in parte, perché a mettere il nulla in rapporto col senso e con la verità dell’essere era già stato Schelling, e non solo Schelling). Ma se si vuole trovare una nozione di “apertura” che sia alla radice di un nuovo umanesimo civile, allora il primo nome da fare è indubbiamente quello di Giambattista Vico.   

 

D.: Tornando al rapporto filosofia e romanzo, Lei ritiene possibile accostarsi all’idea di quest’ultimo, più che come l’espressione del mondo, o di un mondo particolare, allo svelamento e alla realizzazione di un ordine fittizio in sé del tutto autonomo (e del suo tempo di là da ogni storia); o ancora una volta, come alla libertà di un poter fare eco all’essere che dall’opera stessa scaturisce. Opera che, come Lei riconosce nel Suo Il bibliotecario di Leibniz, non rientra nei ranghi della tradizionale filosofia della Storia, ma che al pari di ogni altra si fa pur essa storia. Su questo punto, a partire cioè dalle indefinibili tracce adombrate o raccolte dalla dimensione estetica (o “inestetica”, per dirla con Badiou, ma penso in particolare ad un più agguerrito maestro quale Blanchot, o allo stesso Derrida), mi sembra che gran parte del pensiero contemporaneo abbia inteso estendere il proprio tentativo di “dominio” disegnando ulteriori mappe di là dal mondo comune e quotidiano. Sottolineo la parola “tentativo”, poiché l’arte, quale “produttrice di verità” autonome ed assolute, come Lei insegna, sembra di fatto voler sfuggire all’idea di prestarsi ad oggetto d’analisi o di colonizzazione filosofica. Dove risiede allora, se mai esiste, la possibilità di un legame autentico e proficuo fra spazio letterario ed ermeneutica filosofica?

 

Il problema è quello del valore conoscitivo della letteratura e in particolare del romanzo. Chiediamoci: chi conosce che cosa? Prendiamo un romanzo. Non si può certo dire di un romanzo che il suo compito sia di fornirci conoscenze sul mondo. Anche se ce ne dà, non è questo l’essenziale. Per quante informazioni sulla Russia al tempo dell’invasione napoleonica si possano trovare in Guerra e pace, non sapremmo che farcene, se non ci fosse dell’altro altro. Ma che cosa? Qualcosa che non sta là fuori, fuori del romanzo, cioè nel mondo reale, mondo comunque dotato di una sua autonomia e di cui il romanzo dà una rappresentazione, ma non sta neanche lì dentro, dentro il romanzo, perché è il romanzo, e il romanzo a sua volta non è se non il dispiegarsi di quest’essere.  Di nuovo: che cos’è questo? Qui non c’è dubbio. È una finzione. Né più né meno che una finzione. Dunque, alcunché di fittizio. Ma bisogna intendersi. Il fatto che si tratti di una finzione non esclude, anzi include, la verità di ciò che è puramente simulato e finto, come direbbe Vico. Non la verità oggettiva del mondo, e neppure la verità soggettiva dell’autore, ma quella che si fa mondo attraverso l’autore e prima ancora attraverso l’opera: benché il romanzo non dica nulla che già non si sapesse o non si potesse sapere per altre vie, grazie alla finzione romanzesca quello che potremmo chiamare orizzonte d’intelligibilità si dilata e tutto ciò che vi cade dentro, questo o quel mondo, appare sotto una nuova luce: quanto meno più problematico, più ricco di significati, più capace di domande. Lo sa bene ogni lettore di romanzi: chiuso il libro, non è che il mondo sia cambiato, al contrario, il mondo è esattamente quello di prima (tanto che si prova un po’ di delusione a ritrovarcisi), e tuttavia il nostro sguardo sul mondo è mutato, magari impercettibilmente, ma come se finalmente scorgessimo quel che era sotto i nostri occhi ma non riuscivamo a notare, o magari vitrosamente, come quando di colpo ci ritroviamo o osservare il lato in ombra della realta, la Nachtseite. Perciò Novalis poteva ben dire che la lettura di un romanzo deve lasciare come una musica nelle orecchie, ed è questo che importa (non la trama, non i personaggi, non l’ambiente, ecc., tutte cose che si possono dimenticare). Una musica che è conoscenza, perché ci mette in sintonia col ritmo sempre antico e sempre antico del tempo. Nessuno meglio di Vico, per l’appunto, ha saputo far luce su questo fenomeno. “Fabula”, diceva Vico, significa “favella vera”. La ragione di ciò è che raccontandosi favole, raccontandosi storie, gli uomini escono dallo stato di abbrutimento e di accecamento in cui versano ab origine e diventano quel che sono destinati a diventare: uomini e non bruti. Naturalmente le favole sono favole, le storie sono storie: invenzioni che non hanno a che fare con la verità, se non in modo criptico e stravolto. E tuttavia raccogliendosi nel lucus e cioè nello squarcio che si è aperto nel fitto della selva antica gli uomini, interrogando i segni enigmatici che li interpellano, dando risposte che corrispondono sia pure in modo puramente fittizio all’originario movimento dell’essere, si riapproprino di se stessi e del loro destino. Domandiamoci dunque, con Vico: dov’è la verità dell’uomo? Nello stato di natura o nella civiltà? E se la civiltà è fatta di storie, o se si preferisce di favole, dov’è la verità? La risposta è superflua. Vico la racchiude nella formula: favola, favella vera.                         

 

D.: Lei ha più volte fatto cenno al carattere irriducibilmente antinomico e contraddittorio della realtà (percepibile quale somma tragedia degli opposti), e in antitesi alla metafisica dell’Uno di ascendenza platonica, ha preferito indagare (peraltro quasi a voler proseguire idealmente sulla scia del Suo maestro Pareyson), ciò che per il pensiero novecentesco risulta avvertibile quasi come una nuova luce (“luce nera” dal fondo, in realtà), come punto di rottura e nuovo inizio segnato, oltre che dall’esperienza filosofica nietzscheana, dall’opera letteraria di uno scrittore quale Dostoevskij (penso al Suo Dostoevskij e la filosofia, Laterza, Roma 1984). Presupposto è il fondamento, o in una prospettiva kantiana, il postulato della libertà, che come Lei sottolinea non è valore, ma presupposto originario per ogni altra determinazione di senso e di valore – quasi essa pure eco infinita della inesprimibile casualità di ciò che è. Si avverte a partire dalla dimensione letteraria un “fuori dal mondo” (o un quasi nulla, il nulla peraltro da cui proviene il fondamento stesso della libertà di ogni agire) che in sé non dispiega né criteri di oggettività ma neppure spazi per la coscienza, dove la poesia con il suo formidabile carico simbolico non dischiude – violandolo – l’indicibile ma rispetta, conserva il senso della sua alterità; tuttavia ciò che sembra rivelarsi è come uno sfondo atmosferico del tutto impersonale che in sé non indica alcuna prospettiva di umanità e di salvezza: Le chiedo, la verità alla quale Lei fa riferimento è più prossima all’essere indeterminato nella sua sovrabbondanza quale libera emersione dal nulla, o all’idea di scrittura invece in grado di sprigionare, come Lei stesso afferma sulla scorta di Benjamin, di far precipitare l’apocalisse nell’istante, “tanto che ogni istante può essere quello in cui si decide del senso o del non senso dell’essere” (Il bibliotecario di Leibniz, cit., p. 127)?

 

Vediamo di chiarire, sia pure accennandovi soltanto, due punti che giudico molto importanti. Qui non si vuol negare validità al principio di non contraddizione. Il quale principio resta valido nel suo campo, cioè nel campo della logica. Semmai ancora una volta è la distinzione di logica e ontologia che va tenuta ferma. Che la realtà sia contraddittoria può benissimo esser vero (com’è vero). Mentre è falso che la realtà sia al tempo stesso contraddittoria e non contraddittoria. Dunque, il principio di non contraddizione non risolve-dissolve il carattere antinomico della realtà, ma lo conferma. Quanto alla metafisica dell’Uno di ascendenza platonica (ma anche plotiniana), certamente il dualismo è da escludere; eppure è stato Plotino a riscattare il nulla dalla condanna che gli aveva comminato la filosofia dell’identità e a mostrare come il nulla sia il fondamento dell’essere, così come bisogna pur sempre appellarsi al principio di non contradizione per affermare il carattere radicalmente conflittuale della realtà. Perché dico questo? Perché solo così la meontologia pareysoniana cui io continuo a guardare può essere sottratta a eventuali derive irrazionalistiche e portata a fondo, ricordando che essa è sì un’ontologia della libertà, ma lo è (non potrebbe esserlo altrimenti) in quanto ontologia del nulla. Una volta posto il nesso inscindibile nulla-libertà, e compreso che la libertà e il nulla simul stabunt simul cadunt, poiché la libertà senza il nulla è semplicemente impensabile, e il nulla senza la libertà è del tutto insignificante, allora ci si può, anzi ci si deve, mettere alla scuola sia di Plotino sia di Dostoevskij. Nessuna contrapposizione, nessun aut-aut. Al contrario, perfetta reciprocità di rimandi, come dovrebbe suggerire il fatto che Dostoevskij si pone al culmine di una tradizione di pensiero (la mistica della tradizione orientale) alla cui radice c’è Plotino. Vero è che in Plotino il nulla per così dire sprigiona la libertà e ne accentua il carattere sorgivo e produttivo, per cui il cosmo tutt’intero ne risplende, immagine luminosa dell’atto originario che lo ha tratto fuori dell’abisso senza dare ragione di sé ma proprio perciò infinitamente capace di tutte le possibili ragioni. Così com’è vero che in Dostoevskij la libertà appare originariamente affacciata sul nulla e dal nulla minacciata, al punto da apparire costantemente seguita come da un’ombra autodistruttiva, e comunque si configura come un peso insostenibile, come un tormento, come una tragedia, e infatti “il peso della libertà”, “il tormento della libertà”, “la tragedia della libertà” sono le espressioni che meglio la connotano. Ma di nuovo: nessuna contrapposizione. Se ne ha la riprova considerando che le due posizioni tendono a rovesciarsi l’una nell’altra. Ci sono pagine plotiniane in cui l’idea del nulla come fondamento della libertà viene sviluppata nel senso dell’autodistruzione e fatta servire a una descrizione dell’inferno come assoluta volontà d’asservimento. E ci sono pagine dostoevkiane in cui l’idea della libertà come vittoria sul nulla rende possibile un gioioso sì all’essere che ha accenti di puro paradiso.    

 

D.: Mi permetta di insistere ancora di più sul tema dell’indispensabile attenzione alla sfera letteraria. Secondo il Suo parere, essa non è altresì il riferimento ad un fenomeno in cui la dimensione della libertà è destinata a fissarsi (direi quasi una volta per tutte) nella cristallina bellezza di una concrezione? Seguendo una delle più recenti e interessanti prospettive riguardanti la riflessione sull’arte, quale quella suggerita da Levinas (e in netto contrasto con la visione heideggeriana del lasciare che l’essere sia, dove libertà e verità dell’essere coincidono), l’arte nella sua costitutiva plasticità di fondo, non attesta forse l’identità di immagine di un mondo che afferma continuamente se stesso, dove altresì paradigmatica direi è l’idea che gli stessi protagonisti, privi della propria autentica libertà, o in preda a una libertà che si tramuta in o è già destino, non possano far altro che testimoniare all’infinito la loro vicenda in sé conclusa; stando all’evento di un attimo che dura in eterno (un tempo che imita la successione della durata, ossia senza nessun legame con l’istante che viene e che salva), l’arte non risulta più prossima a tale sensazione del medesimo? A ben vedere, Lei è dell’avviso che l’invito nietzscheano a trasformare il “così fu” in “così volli che fosse” sia accadimento tutto interno alle dinamiche dell’interpretazione critica e filosofica dell’opera d’arte, tutto interno alla dimensione della responsabilità personale e allo statuto individuale del problema della libertà?

 

È l’ineludibile problema della bellezza. Ci siamo arrivati. Non poteva essere altrimenti. Certo oggi dobbiamo fare i conti col fatto che questo problema è vistosamente disconosciuto. O semplicemente rimosso. L’arte contemporanea non sa più che farsene dell’idea di bellezza e anzi programmaticamente la rifiuta. Da quali lontananze ci parla Dostoevskij? “La bellezza è il campo di battaglia in cui Dio e Satana si disputano il cuore dell’uomo”. È ancora cosa nostra la bellezza che “decide” di noi, della nostra salvezza, del senso della nostra vita? Sembrerebbe di no. Eppure… Baudelaire nello Spleen di Parigi si chiede se la bellezza provenisse da un cielo anteriore o dal profondo. Rilke nella seconda delle Elegie duinesidefinisce la bellezza come l’inizio del terribile. E queste non sono voci arcaiche, ma voci in cui risuona un domandare che è l’essenza della modernità. Ma lasciamo stare. Consideriamo il punto che ci interessa. E cioè il tratto “decisivo” della bellezza, per cui la bellezza, che è la cosa più effimera e più sfuggente che ci sia, è anche quella in cui ci giochiamo tutto. Letteralmente, su tutti i piani: quello dell’estetica, dell’etica, della conoscenza. L’obiezione levinasiana è forte e consiste in una critica dell’apparenza estetica, che è apparenza in quanto l’arte simula di essere in rapporto con il bene e con il vero, in realtà per negare entrambi e comunque per sottrarsi ad essi, e cioè ponendosi per un verso al di là del bene e del male, o più precisamente al di qua, nel senso che bene e male possono essere presi a pretesto ma di fatto le sono del tutto indifferenti, e per l’altro ponendosi al di qua della verità, o più precisamente al di là, nel senso che qualsiasi strategia conoscitiva venga adottata ha luogo un oltrepassamento inevitabile e necessario verso l’affabulazione. Levinas concede che nell’opera d’arte si manifesti qualcosa come la heideggeriana verità dell’essere, ma la verità dell’essere non è né “mia” né tanto meno “tua”, e dunque è non-verità. È disposto altresì ad ammettere che l’opera incarni valori e metta in gioco principi morali, ma lo fa in funzione puramente rappresentativa e ludica, quindi al di fuori di ogni autentica serietà morale. Insomma, secondo Levinas la dimensione estetica soffre d’un vizio d’origine e questo vizio d’origine è l’estetismo. Peggio ancora: il panestetismo, à la Nietzsche, per cui l’arte diventa una dimensione totalizzante. E la vita non vale né ha senso se non come invenzione artistica (questo, in fondo è il grande stile). Senonché Nietzsche non è l’unico esito possibile della rivoluzione romantica e dell’idea che l’arte sia una sorta di punto critico dell’esperienza. Nietzsche con ineguagliabile radicalità innesta sul tronco del romanticismo il suo programma antiplatonico e scioglie i tre che sono uno (vero, bene, bello) nella bella apparenza. Ma c’è anche il romanticismo platonizzante e ben più che platonizzante, perché profondamente attraversato da sollecitazioni neoplatoniche. Ed è il romanticismo da cui provengono sia Baudelaire sia Dostoevskij. Quello che sviluppa un’ontologia della bellezza che non soccombe alla critica dell’apparenza estetica ma al contrario dalla stessa critica ricava una conferma all’ipotesi che la bellezza sia una cosa molto reale, molto enigmatica, molto ricca di significati tutti da interrogare. Sapevano o non sapevano quel che dicevano, Baudelaire e Dostoevskij (e Rilke e tanti altri)? Io credo di sì.                          

 

D.: Riflettendo sulle questioni suscitate dall’arte spesso ci si sofferma sull’idea dionisiaca dell’estasi e del sogno o dell’illusione febbrile; eppure, stando a una visione più disincantata, lo abbiamo visto, l’opera artistica, al pari di ogni gesto quotidiano in sé concluso, riferito al passato, come per le Moire dei greci, sembra suggerire la tragica irrecuperabilità e l’irreparabilità dell’azione, sia essa voluta o non voluta. A tale proposito mi chiedo se sia possibile rintracciare solo all’interno del monoteismo ebraico e cristiano quella precisa volontà di affermare per l’uomo moderno, al di là del suo possibile asservimento all’essere che si determina, al suo destino, l’opportunità del recupero, del nuovo inizio, della beatitudine, dell’apertura verso nuove prospettive di salvezza malgrado la sofferenza e l’ineluttabilità della morte. Nelle Sue riflessioni è del resto possibile riscontrare riferimenti precisi all’idea che lo scandalo del male possa essere piegato nel senso della volontà affermativa e della gioia.

 

Noi siamo abituati a pensare secondo un certo schematismo per cui classicità e cristianesimo offrirebbero due prospettive sul mondo fondamentalmente antitetiche, dalle quali conseguirebbero opposti corollari. Per i greci la finitezza umana e in particolare la morte rappresenterebbero dei dati assolutamente inoltrepassabili, e dunque irredimibili, mentre l’idea cristiana di rendenzione attingerebbe a profondità inaudite e aprirebbe scenari fino ad allora inconcepibili, come la felicità eterna, e la gioia, origine e fine di tutto. A essere portato come prova, il tragico: cosa greca, non nostra. Ma ne siamo così sicuri? Possiamo ignorare il fatto che il tragico ha conosciuto almeno due riviviscenze straordinarie nei tempi moderni, a cavallo fra i secoli XVI-XVII e XVIII-XIX? Non ci dice più niente Kierkegaard con le sue tesi sul tragico antico e sul tragico moderno? Si consideri il concetto di colpa, sia come amartia sia come peccato, dove l’antitesi fra le concezioni che ne discendono sembra netta e non mediabile. Nel primo caso si tratta (vedi il detto di Anassimandro) di un debito che l’individuo contrae nei confronti degli altri individui e della totalità degli esseri individuali, cioè dell’essere stesso, e che è tenuto a pagare restituendo all’essere la parte di essere che si è preso per vivere. Dunque, la colpa in quanto amartia appartiene all’ordine delle cose, non alla responsabilità del soggetto. Altro non è che una perturbazione limitata nel tempo, che il tempo riassorbe ed estingue, appunto come si estingue un debito. Non così nel secondo caso. Nel caso del peccato (quello che viene chiamato peccato originale) la responsabilità non solo è estesa ad abbracciare l’intera progenie di Adamo, ma viene attinta a un livello più profondo, al di là della imputazione di atti intenzionali: dove ciascun uomo è fatto responsabile del fatto di essere nato, quasi dovesse assumersene originariamente la pena, e fosse chiamato a rispondere di tutto a tutti e a prima ancora a Dio. Evidentemente è un paradosso, e per giunta un paradosso che ripugna la coscienza morale, ma che al tempo stesso fa luce su quell’autentico enigma che è l’assunzione di responsabilità – fin dove? Solo fin dove arriva il volere consapevole? E fin dove il volere consapevole? Il tragico greco altro non è che lo svolgimento di questo tema a partire dall’idea di colpa come perturbazione dell’ordine delle cose, ma facendo del colpevole (Edipo, ad esempio) colui che deve rispondere di fronte alla città di un delitto che nessun tribunale potrebbe imputargli. Questo spiega perché ci sia stato qualcuno, come Schopenhauer lettore di Calderón (no hay colpa mayor que haber nacido), che ha interpretato il concetto greco di amartia nel senso del concetto cristiano di peccato. E soprattutto spiega perché il tragico, che fiorisce in Grecia per pochi decenni e resta un fenomeno circoscritto, riemerga prepotentemente nel cuore di una modernità che solo con una certa distrazione può esere definita antitragica. In realtà il problema del tragico resta problema.         

 

D.: Seguire l’opera entro il proprio campo di forze significa, come Lei sostiene in Il bibliotecario di Leibniz, “assecondare il movimento della filosofia verso l’aperto, verso la libertà dell’interpretazione”, all’insegna di un vero e proprio senso di abbandono, che è ben altro del puro divertissement – secondo cui: solo perdendosi nell’oceano delle storie ci si salva dalla storia vera. Su questo richiamo all’errore si ha come l’impressione che l’uscita in direzione dell’“eterno scorrere del Fuori” – ma qui mi permetto di riprendere il dialogo ininterrotto tra due differenti ed emblematiche prospettive filosofiche, di Levinas e Blanchot – avvenga nel segno di una vera e propria spinta all’“evasione” dall’essere heideggeriano: «letteratura certo – scriveva in Noms Propres il filosofo lituano a proposito dell’opera di R. Laporte – ma talora poesia, quando appare un’uscita, anche se questa uscita di sicurezza è una porta finta o una finestra finta». Tuttavia, al pari di questo procedimento all’insegna del nomadismo, mi sentirei di lamentare che oggi neanche una prospettiva etica, pur mantenendo in sé presupposti di giustizia e di trascendenza a partire dall’Altro quale verità perseguitata, sia sempre del tutto in grado di condizionare per davvero la cosiddetta verità dell’essere.

 

Abbandono, nomadismo, erranza: sono termini di un clima filosofico-letterario in cui il pensiero sembra sposare le ragioni della narrazione e farsi pensiero narrativo, che pone il proprio telos nella ricerca e nel movimento verso la verità piuttosto che nella verità stessa. Ciò è avvenuto in concomitanza della crisi del razionalismo metafisico, e anzi ne ha rappresenato il punto di svolta, nella direzione di un superamento dell’identità (identità parmenidea di essere e pensiero ma soprattutto identità hegeliana di realtà e autocoscienza). Vogliamo definire questo détourconcettuale, ma non solo concettuale, facendo ricorso a Heidegger? D’accordo. Esprimeremo una certa insoddisfazione, data l’incompiutezza del tentativo se non la sua evasività? Anche su questo possiamo trovarci d’accordo (e prestare attenzione a Levinas e a Blanchot) . È un fatto che quei termini (abbandono, nomadismo, erranza) hanno prodotto una retorica che ha oscurato la questione di fondo: appunto, la crisi del razionalismo metafisico. L’aperto, cioè la verità che non si lascia catturare dentro il cerchio magico del principio e della fine dimentica di essere quel che è, luogo d’un effettivo sconfinamento, dove perdersi significa perdersi, e dove l’esodo può trovare compimento nel ritorno, ma può anche non trovarlo – e trovare invece il nulla. Perché quello è il problema, ancora una volta: il nulla, il nulla come possibilità reale. Senza il nulla, senza la reale possibilità dell’annientamento non si dà alcuna esplorazione dell’altra faccia della luna (dell’Altro, voglio dire), né alcuna sperimentazione del negativo (e qui per negativo intendo non solo la più innocua delle figure, ma tutte quelle che con questa formano una costellazione, in primis il male e magari “la verità perseguitata”). In proposito il romanzo ha da dire alla filosofia più di quanto la filosofia non abbia da dire al romanzo. Il romanzo è essenzialmente peripezia. Perciò, com’e stato detto giustamente, non c’è romanzo che non sia racconto d’un viaggio, fosse pure soltanto un viaggio intorno alla propria camera o nella propria testa, quindi exodos e nostos. Ma in quanto peripezia, il romanzo “sa” (vero e proprio sapere, questo) che in ogni momento ci si può smarrire, e perdere, quando addirittura l’impossibiltà del ritorno non sia inscritta nella partenza e nell’erranza. Consapevoli che ci sono regioni d’una negatività irriducibile, come la morte o la follia, i romantici vollero andare a vedere come stessero le cose da quelle parti. Non che l’idea fosse originale. Altri prima di loro ci avevano provato. Avendo però in mano (come Enea) il ramoscello d’oro, a garanzia del ritorno. Invece i romantici rinunciano al ramoscello d’oro. Vogliono dar voce all’angoscia di chi dispera del ritorno. Può forse, chi muore, tornare a raccontare com’è andata? O chi sprofonda nella follia, farne oggetto di esperienza? I romantici scelgono lo strumento della letteratura invece che la filosofia. Sanno che la filosofia, cercando la verità dell’essere, nella molteplicità delle storie in fondo non fa che inseguire la sola storia vera – come in fondo continuerà a fare Heidegger. Ma non è la verità dell’essere, che interessa loro. Semmai è la verità del nulla.

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