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Dalla veridicità alla verità
(o della genesi del senso)

 

Intervista a

Gianfranco Dalmasso

a cura di Bachisio Meloni

Tentiamo una breve quanto sommaria esposizione di ciò che il Professor Dalmasso sostiene in “Chi dice io. Razionalità e nichilismo” (Jaka Book, Milano 2005): uno dei problemi cruciali, se non il problema per eccellenza, che egli pone è la fondamentale questione del “rapporto di un soggetto pensante con l’origine del suo atto di pensare, con l’origine della sua parola, questione classicamente neo-platonica e agostiniana”, ma che di fatto diventa possibile ritrovarla in Hegel. Tale esigenza del “Generativo” – l’esser cioè in sintonia non con “la scienza di ciò che si dice” ma con “la scienza della genesi di ciò che si dice” – particolarmente sentita nella tradizione del pensiero ebraico e nella meditazione del pensiero contemporaneo, presente specie in autori da Dalmasso più volte citati (Levinas e Derrida su tutti), più che portare i filosofi a “muoversi a livello di una mera rappresentazione di ciò che dicono”, coincide, secondo la prospettiva metodologica dell’autore da noi interpellato, col tentativo di riposizionamento o di collocazione originaria del soggetto in ciò che egli definisce – sia in antitesi alla coscienza che tutto sa e dispone sia in antitesi alla percepita assenza nichilista di un senso remoto per ogni significato – “il punto sorgivo del pensiero”.

 

Professor Dalmasso, possiamo, con il suo aiuto, se mai fosse pienamente possibile nella brevità di questo nostro dialogo, addentrarci in tutta la radicalità di tale dirompente proposta filosofica qui appena riassunta? Tale punto sorgivo del pensiero – ritenuto fondamentale da Platone ad Aristotele, dagli stoici fino a Plotino – è origine che sembra scaturire da un’in-condizione radicale, da un prima non cronologico identificabile con la fondamentale nozione di “Alterità” (eterotes), cui peraltro si lega l’altro nome identificativo del Bene (l’agathon, inteso in senso extra-morale, cioè non volto a “negare” il male, quanto a sovrintendere ad ogni possibile disposizione al pensare e all’agire). Alterità che, come Lei tiene a ribadire, assurge a “luogo ospitale” – di questioni ritenute da più parti e a gran voce centrali – ma che di fatto più di tutte fra le nozioni è in grado di accogliere la domanda “sia dell’essere sia del nulla sia della stessa opposizione tra essi”. Unico “fondamento” che risiede nel “rapporto tra l’uno e i molti” in grado di scongiurare due possibili quanto talvolta inevitabili soluzioni negative: intellettualismo raziocinante e perdurante resa alla capitolazione del senso.

Insomma, già da Platone – e su ciò Lei mostra a più riprese di insistere – viene inaugurata la nozione costitutiva di alterità, la quale è concepibile all’interno del discorso, della struttura dialogica, ossia nell’ambito delle contraddizioni intra-mondane, come una negazione che più propriamente non annienta o non nullifica. Questa precisazione, in effetti, sembra scompaginare del tutto il rischio che la nozione di alterità possa fungere da termine eufemistico da porsi quasi a paravento del nulla o che del nulla tenti di suggerire il volto meno lugubre e terrificante. Una paradossale nozione di presenza/assenza, di un vuoto che, anziché nientificare, funge da sfondo entro e al di là del quale poter pensare l’origine stessa della significazione.

 

Sono d’accordo con ciò che Lei afferma a riguardo degli antichi pensatori greci. La risorsa, inesausta, da cui è nata la filosofia, mi sembra in grado di mettere a fuoco e di rilanciare la questione della razionalità anche nell’oggi dell’Occidente, anche nella prospettiva, giustificata ma anche fuorviante, di un “post ”.

 

Ancor prima di quanto poteva suggerire il neutro nella prospettiva di Blanchot (ma come paradossale assenza di prospettive) come “pas au delà” (dove il ‘pas’ tende ad equivocare sia l’idea del ‘non’ al pari di quella del ‘passo’ al di là di ciò che si sostiene in un determinato discorso, sia esso filosofico o letterario). Ciò che si determina cristallizzandosi in concetto o discorso filosofico subisce l’opera di un’implacabile legge dell’alterità (e molto vi sarebbe da dire su tale senso di “giustizia” nel discorso) che spinge inevitabilmente alla condizione (o in-condizione) della destrutturazione e dell’indeterminato. L’idea di ricondurre all’unificazione tra quanto si dischiude in questo sfondo abissale accennato poc’anzi della realtà e l’io che accenna un qualche remoto tentativo di determinazione appare come un procedimento infinito in continuo divenire. Insomma, come Lei suggerisce, il compito della filosofia dai Greci a noi – mi dica se sbaglio – sembra non aver perso il suo spirito di fondo. E questo anzitutto a riprova di quanto la questione del nichilismo, come Lei sostiene, più che come un formidabile sintomo di un malessere sociale e individuale del pensiero sia impassibilmente interpretato o vissuto come una tragica “visione” di ‘valori’: a testimonianza di quanto sia ancora difficile il tentativo di smarcarsi dalla contesa classica – ma ormai ridotta non più che alla caduta nel più spossante degli stereotipi nel destino del discorso – tra “essere” e “non-essere”, vi è (purtroppo non ultimo) il più recente richiamo di Ratzinger contro il supposto profetismo nichilista di Nietzsche.

 

Blanchot, io credo, mette in luce come l’alterità, che è in discussione – e qui mi ricollego con quanto mi suggeriva nella Sua prima questione –, non sia ospitabile, come tale, da un soggetto che, disposto “passivamente”, cioè senza presunzioni di dominio, potrebbe accoglierla.

Per Blanchot il soggetto non è luogo ospitale di un’alterità. In lui mi sembra intervenire una temporalità come struttura di sospensione, di interruzione. Ciò che in Hegel è Aufhebung, toglimento e conservazione, è in lui disastro, sorta di struttura messianica e apocalittica in cui il soggetto può costituirsi.

Nella tradizione neo-platonica tale interruzione, oblio, indecidibile, è comunque un legame, ma conoscibile in quella forma che è il bello (vedi qui i testi di Carmelo Meazza), indicibilmente donata, legame fra sé (l’anima) e ciò cui l’anima appartiene. Il soggetto tuttavia è “luogo” attraverso uno, per così dire, spossessamento e la forma di tale spossessamento rimanda il soggetto ad un tempo e ad un’etica, essi stessi imprendibili, ma originariamente sorgivi.

 

Proprio per scongiurare l’intellettualismo razionalistico, riguardo ad ogni possibile meditazione filosofica, si tratta di soffermarsi sul sapere, non tanto come certezza di punti di vista né come validità di dottrina, bensì nei termini del riconoscimento della genesi del significato. A tale proposito, citando Agostino, occorre, secondo Lei, puntare al cruciale rapporto dell’io con una più autentica disposizione al proprio sapere, ovvero alla condizione personale del sapersi. Per questo, nell’elaborazione del senso a partire dall’identificazione della sua origine, il ritorno è al problema centrale della costituzione topologica della soggettività. Giungendo ad Hegel, parliamo del generativo di realtà e verità più propriamente quali ‘prodotti’ di una coscienza e di una singolarità di coscienza. Più che una contesa tra razionalità ed assenza nichilistica di verità la conoscenza di sé da parte del soggetto è tale a patto che questo atto del conoscere sia avvertibile come movimento (di “varietà”, ma non per ciò di ambiguità) di continua trasformazione di sé e del sé. Se ci si appiattisce in una visione centralizzante ed egoica di sé, quasi in piena ostilità ad ogni prospettiva del diverso, il rischio è quello di una chiusura entro un mero punto di vista, chiusura entro i propri atti di coscienza, entro una totalità o sistema di idee. 

Ma, a parte questo mio rapido tentativo di sintesi di quanto Lei osserva, il Suo riferimento costante (mi riferisco anche al Suo saggio “La verità in effetti. La salvezza dell’esperienza nel neo-platonismo”, Jaka Book, Milano 1996) è quello relativo alla tradizione platonica e neo-platonica, quella nozione di alterità attiva, quell’al di là dell’essenza che ha caratterizzato tanta parte della filosofia francese di fine Novecento (pensiamo ancora, ovviamente, a Levinas e a Derrida in particolare). A tale proposito, per sottolineare l’origine e le dinamiche interne a questo pensiero, la Sua lettura di Hegel in senso neoplatonico, giunge in soccorso dimostrando precedenti tentativi tesi a scongiurare esiti intellettualistici: la metodologia filosofica messa in atto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche (1830), predisposta quanto più ad esplicitare un pensiero “senza oggetto” tiene conto di una fondamentale relazione in grado di stabilire presupposti di verità; “ai suoi occhi”, Lei scrive, in questo tentativo di “conoscenza”, di trasformazione e di ricostruzione della soggettività come il luogo di ogni possibile presupposto di verità, “il risultato del divenire è quindi il concetto del vero”; la verità “in effetti” può determinarsi – come Lei sottolinea a partire dalla proposta speculativa hegeliana – “solo a partire dalla continua riscoperta dell’unificazione dell’io con la realtà”, anche quella o specie quella più tragica e dolorosa, unificazione che è al contempo individuale e universale.

 

Non vi è dubbio su quanto Lei sostiene. Ma proprio a tale riguardo vorrei soffermarmi sull’importanza di Hegel, a proposito del quale ritengo effettivamente che il suo stile e il suo metodo di pensiero costituiscano una chance e una risorsa oggi attualissimi. In lui infatti il negativo e la negazione non funzionano come annichilimento, ma come un altro modo di affermare, di rapportarsi a un positivo.

Si tratta di una trasformazione del soggetto, della sua coscienza di sé che è soggetta a questa sorta di resurrezione che è il “lavoro del concetto”.

Lavoro del concetto per Hegel significa processi, atti, avvenimenti, storia piuttosto che astrazioni universalizzanti e false universalizzazioni che, esse sì, portano al nichilismo come morte in pura perdita.

Lavoro del concetto significa, come è noto, rapporto con la nozione di vita che, in Hegel come nei greci, è legata alla nozione di razionalità: vita come dislivello fra l’io e il suo sapersi, fra l’io e l’origine del suo desiderio.

 

La realtà e l’idea di Verità, ma come veritas redarguens, o per dirla in termini kierkegaardiani, di “verità perseguitata”, suggeriscono, più che la fissità di una rappresentazione, una continua messa in questione o messa in relazione fra elementi o condizioni diverse del sapere. Come suggerisce un altro pensatore francese, Alain Badiou, nel suo Manifesto per la filosofia (da poco ristampato in Italia da Cronopio), la configurazione filosofica è procedura che tiene conto di un insieme di procedure sulla base di un tentativo di relazione delle condizioni fondamentali dell’essere (il matema, la poesia, la politica, l’amore), la loro compossibilità. A partire da “L’essere e l’evento” (tr. it., Il Melangolo, Genova 1995), ogni condizione, presa ognuna per sé, e avente per fine il proprio ambito speculativo, per Badiou, è in grado di garantire solo elementi di veridicità (ossia, di non-verità), cosa assai diversa da un’autentica disposizione di articolazione con la verità vera e propria. Tale modalità teoretica indica come il ruolo del filosofo, oggi, possa assumere caratteristiche in grado di sottrarlo a quella che può essere l’accusa di fumosa astrattezza e di celeste marginalità (non parlo ovviamente di mera professionalità da ‘consulenza filosofica’, forse pure utile in determinati aspetti dell’attività pubblica e sociale). Ma perché non si decreti nuovamente da qualche parte lo scadimento, quando non addirittura il ricorso alla deliberazione della “fine” stessa della filosofia, e perché la filosofia sia ancora possibile, in che termini, oggi, secondo Lei, la realtà contemporanea, magari anche quella più apparentemente marginale (e su questo tipo di sollecitazione in fondo si tiene lo spirito di una rivista come InSchibboleth), può determinare, suggerendole, nuove articolazioni di verità?

 

Su quest’ultima domanda, ossia riguardo al compito della filosofia oggi, tenuto conto anche delle tesi di Badiou, io credo che la chance inesausta di quella forma di esperienza e di discorso che è la filosofia consista proprio nella sua resistenza, direi; o meglio, nel suo calcolato e strategico spiazzarsi da ogni forma di “visione del mondo”. Anche essa a ciò è continuamente sospinta da tutti coloro che si sentono a loro agio in una visione, in una rappresentazione del mondo e rifuggono e non ne vogliono sapere delle cause e delle origini di tali rappresentazioni.

La filosofia non può tuttavia essere rinchiusa in un “punto di vista.”

Agostino, nel dialogo De magistro, così si esprime: “Chi di noi è così stoltamente curioso da mandare il proprio figlio alla scuola per sapere cosa pensa il maestro?”. Agostino cioè non crede e non confida in un punto di vista, ma nel rigore del linguaggio, nel rigore di una disciplina (disciplina è un termine che in Agostino equivale a dialettica)

Del resto, in pieno Medio Evo, Guglielmo di Saint- Thierry (XII secolo) definiva la filosofia: “il corpo delle arti liberali”. Non quindi una visione del mondo, nemmeno una dottrina, ma i giunti, i legami, viventi (di corpo si parla) che tengono insieme le discipline (retorica, grammatica, astronomia, aritmetica ecc.).

Vicinanza dunque con Badiou. Del resto la chance, io credo, di un lavoro filosofico oggi consiste nel poter funzionare come lo strumento per introdurci nella realtà della tradizione. Riinterrogarsi sulla realtà della tradizione non significa ritorno al passato, ricupero di valori ecc., ma piuttosto comprendere come la trasmissione del sapere, al di fuori della quale c’è la barbarie, significa appunto tradere.

Tradere vuol dire consegnare. Ognuno di noi è portato da un linguaggio che riceve e, volente o no, trasmette e questo trasmettere lo cambia, lo trasforma nell’atto stesso in cui lo trasmette. Tradere vuol dire non solo trasmettere, consegnare, ma anche tradire. Nell’intreccio fra la consegna e il tradimento si costituisce il lavoro del filosofo come coscienza critica.

E in questione, anche qui forse accordo con Badiou, è in questione il valore irriducibile dell’atto, il valore irriducibile dell’individuo. In ogni altra prospettiva si può parlare solo fintamente di universalità. La razionalità e il rigore, come pensa Derrida, devono contenere e implicare la singolarità e la fine.

Una filosofia, a mio avviso, è, alla lettera, bene-detta, se contempla il rapporto con l’origine del suo discorso: il luogo, non dominabile, in cui l’esperienza dell’io si lega all’esperienza del discorso.

In questo modo la filosofia sembra riaprire, in modo originario e indomabile, l’esperienza della libertà, la più difficilmente leggibile nel nostro ordine culturale.

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