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Franz Rosenzweig: in esodo dalla filosofia

Intervista a

Adriano Fabris

a cura di Bachisio Meloni

In margine al convegno dal titolo Il futuro del “nuovo pensiero”. In dialogo con Franz Rosenzweig (1886-1929) tenutosi a Chieti il 26-27 aprile 2007 e alla relativa pubblicazione degli Atti dall’omonimo titolo, in Teoria, XXVIII/2008/1 (Terza serie III/1), Ed. ETS, Pisa 2008.

 

Il Convegno di Chieti dedicato a Rosenzweig ha inteso soffermarsi sulla fondamentale svolta nel cuore del pensiero del filosofo ebreo-tedesco segnata dall’opera capitale Der Stern der Erlösung (La Stella della Redenzione, 1921). Una svolta decisiva, reinterpretata o vissuta attraverso il breve ma intenso saggio dal titolo “Das neue Denken…” (1925), tesa a suscitare con forza il sorgere di un “nuovo pensiero” in grado di scomporre l’intera struttura dell’universo, anzi, dell’“uni-verso” pensabile e conoscibile. Prof. Fabris, che cosa ritiene sia maggiormente emerso, preciso: non solo in merito al Convegno, ma anche al dibattito che ne è scaturito? Qual è secondo Lei lo spirito di fondo presente nei saggi di intervento e nei contributi ora raccolti insieme nel nuovo numero di Teoria?

 

Credo che il punto chiave che è emerso dal convegno, e che ben è testimoniato dai vari contributi apparsi nella rivista, consiste nel fatto che il “nuovo pensiero” rosenzweighiano si caratterizza per la volontà di mettere radicalmente in questione le pretese autofondative e totalizzanti che contrassegnano alcuni filoni della tradizione filosofica occidentale. Come viene ben rilevato anche nella Premessa del fascicolo di “Teoria”, Rosenzweig intende articolare, in positivo, un filosofare spiccatamente responsoriale, aperto costitutivamente a un’alterità che, se può certamente essere definita in varie forme, mette comunque in crisi un modello di soggettività autosufficiente e chiuso. A questo scopo Rosenzweig fa interagire il pensiero filosofico con la riflessione religiosa, concepita sia nel senso dell’ispirazione ebraica che in quello della prospettiva cristiana. Ne risulta la proposta di un pensiero davvero innovativo, che ritengo sia bene riproporre nel contesto del dibattito filosofico attuale, il quale risulta contrassegnato, come forse mai nel passato, da fortissime cadenze interreligiose e interculturali. 

 

L’uscita dalla “totalità”, l’incrinazione della stessa, nella considerazione dell’unicità irriducibile del soggetto e della sua esistenza quale fondamentale presupposto nel “nuovo pensiero” di Rosenzweig può essere intesa, a Suo avviso – neanche tanto implicitamente poi – nel senso di un radicale tentativo di rottura con l’idea del dogma, di una vera e propria, direi quasi, “de-istituzionalizzazione” della fede religiosa, ossia, nei termini di un’uscita in direzione di un versante più marcatamente e segnatamente etico e filosofico? Tale uscita, anzi piuttosto, questo vero e proprio “esodo” dalla totalità potremmo dire che riguardi l’ambito della sola filosofia dell’essenza; oppure la tentazione totalitaria, in assenza di un autentico “Sprachdenken”, riguarda il problema stesso della filosofia in quanto tale?

 

Credo che l’istanza di uscita dalla totalità possa essere intesa, nel caso di Rosenzweig, anzitutto nel senso più ampio di un’uscita dal modello oggettivante d’indagine filosofica, quale si era espressa, linguisticamente, nel discorso apofantico e, da un punto di vista semantico, nella concezione corrispondentista della verità. Rispetto a questo modello, primariamente teorizzato da Aristotele, Hegel aveva proposto una radicale alternativa. Ripresa dialettica contro rapporto di oggettivazione; proposizione speculativa di fronte al logos apophantikos; totalizzazione del vero al di là della mera corrispondenza. Ma Hegel, nella prospettiva di Rosenzweig, compie tutto questo presupponendo una ben precisa concezione dell’identità: movendo cioè da quell’idea di identità come identificazione che si attua attraverso il riflettersi di se stesso nell’altro e nel recuperare il sé – un sé, certamente, divenuto più “esperto” – proprio mediante una tale riflessione. La totalità diviene funzionale, dunque, all’affermazione di un uno che assorbe in sé i molti. Proprio rispetto a ciò Rosenzweig propone la sua filosofia della differenza – dove l’altro è certamente salvaguardato nella sua alterità, ma non come un oggetto – e offre gli strumenti per approfondire ed esprimere questo suo “punto di vista”: anzitutto la concezione dello Sprachdenken. Tutto ciò, credo, sia importante comprendere con chiarezza, se si vuole far interagire produttivamente il pensiero di Rosenzweig con la situazione filosofica contemporanea.

 

Dalla filosofia della “totalità” a quella dei “totalitarismi” – così almeno ci sembra di poter convenire con gran parte del pensiero filosofico e sociale novecentesco o del “millenovecento-pensiero”, quale quello appartenente a personalità del calibro di Horkheimer, della Arendt de Le origini del totalitarismo, del Levinas di Totalité et infini – il passo è breve. Quando ci si riferiva ad una finis philosophiae si intendeva naturalmente porre l’accento sulla fine della “filosofia dell’esperienza” (dell’Erfahrung), quella destinata alla mera scoperta tautologica nella comprensione dell’essere (in grado di rivelare nel mondo il mondano, nell’uomo l’umano, in Dio il divino), un destino già di per sé definito, segnato una volta per tutte ed in sé concluso; ciò che Rosenzweig ricerca è al contrario, come lui stesso suggerisce, una filosofia “esperiente” dedita al mantenimento della pluralità, del “pluriverso”. Oltre all’esperienza entro le singole manifestazioni degli elementi si avverte su tutto l’urgenza di un’esperienza in grado di cogliere il senso proveniente dagli esiti del collegamento dei singoli fenomeni tra loro. Può dirci qualcosa riguardo alla posta in gioco e agli sviluppi di tale “filosofia esperiente”?

 

Qui assistiamo a un gesto che contraddistingue qualunque pensatore davvero originale: il gesto della risemantizzazione. Il significato di una categoria filosofica viene ripensato e sviluppato sulla scia della tradizione, ma in modi diversi da essa. È ciò che accade in Rosenzweig con il concetto di ‘esperienza’. In Aristotele ‘esperienza’ è una tappa del percorso di conoscenza sulla via del raggiungimento di quella scienza che verte sulle realtà eterne (come si vede proprio in Metaph A, 1). In Kant alla concezione aristotelica dell’esperienza, quella che uno fa e che, una volta fatta, possiede come bagaglio personale suo proprio (la concezione che Kant mostra essere di pertinenza dell’antropologia pragmatica), si affianca l’idea di un vero e proprio farsi dell’esperienza stessa, grazie all’attività delle strutture proprie della soggettività trascendentale (la concezione elaborata nella Critica della ragion pura). In Hegel l’esperienza è il processo attraverso il quale lo Spirito diviene consapevole di essere principio costitutivo della realtà, e giunge a conoscersi come tale. In Rosenzweig, appunto, l’esperienza è modalità di relazione che tiene insieme fenomeni originari fra loro differenti: Dio, mondo e uomo. Non si tratta tanto di un Erlebnis, di un’esperienza vissuta (anche se questo è il termine predominante nella Stella della redenzione), perché essa non riguarda in primo luogo un soggetto che la prova. L’esperienza è invece esperienza della relazione e nella relazione: per questo va al di là del soggetto e lo coinvolge; per questo, soprattutto, non solo presuppone la differenza dei termini coinvolti, ma la realizza e la mette in opera, la salvaguarda e la promuove. E tutto questo avviene in un processo il cui esito non è l’unificazione, ma la relazione tra diversi: Erfahrung, appunto. Ma, si badi bene, i differenti sono tali perché risultano pur sempre in relazione. Non sono opposti fra loro in forme conflittuali: non sono concepiti in modo da distruggere, attraverso quest’opposizione, ogni possibilità di reale collegamento. 

 

Del resto, così mi è parso, le tre dimensioni della creazione, della rivelazione, della redenzione nell’impianto architettonico del pensiero rosenzweighiano indicano su tutto una “fiducia”, un’apertura all’insegna di una vera e propria “filosofia della fede” (Glaubensphilosophie) a partire dalla coappartenenza – non confondibile – e dalla relazione fra i tre elementi sopra citati. I tre momenti risultano ineludibili ed inseparabili; aprono una prospettiva redentiva che trova il suo vertice più autentico – come sottolinea nel suo intervento W. Schimied-Kowarzik – nell’inveramento del nostro essere quotidiano, comunitario, storico universale, ossia nell’amore per altri. Da qui, come sottolinea nel suo scritto E. Baccarini citando un’acuta interlocutrice assai cara a Rosenzweig, M. Susman, si squaderna un abissale risvolto: “l’essere umano vivente e agente, la cui azione in altre circostanze sempre frantumava o minacciava di frantumare la creazione divina, qui adatta liberamente se stesso dentro l’opera della creazione e della rivelazione come il perfezionatore e l’esecutore della redenzione” (p. 63). Vorrebbe soffermarsi su questo così importante e affascinante tema di fondo elaborato dal nostro Autore? 

 

La relazione, di cui finora abbiamo parlato, si configura effettivamente, in Rosenzweig, come una relazione che si compie insieme da una prospettiva filosofica e su di un piano religioso. La “nuova” filosofia salvaguarda la differenza fra i fenomeni fondamentali che il pensiero dell’identificazione, di cui parlavamo all’inizio, aveva eliminato. E, nel contempo, pone le condizioni affinché nuove relazioni possano essere sperimentate, soprattutto elaborando un’originale concezione del linguaggio: quella di un linguaggio capace di “gettare ponti” fra realtà separate; di un linguaggio sul quale lo Sprachdenken riflette e che è in grado di esprimere. L’esperienza religiosa, dal canto suo, non solo offre immagini emblematiche e modalità concrete di vivere questa relazione fra differenti, ma anche, e soprattutto, esibisce il senso che la anima nel profondo. Ecco, dunque, la funzione della fede: un’esperienza che non dev’essere intesa nell’ottica della tradizionale lotta per il predominio che, nella storia del pensiero ebraico-cristiano, la ha opposta al sapere. Ecco, soprattutto, il motivo per cui la filosofia di Rosenzweig richiede di andare al di là di sé e di aprirsi alla vita, come viene detto esplicitamente nell’ultima pagina della Stella: per realizzare nel quotidiano, nei gesti e negli atti che possiamo compiere, la nostra piccola opera di redenzione. Il che, fuor di metafora, significa la possibilità di vivere le relazioni facendo in modo che non solo io, ma anzitutto l’altro siamo messi in grado di esprimerci pienamente in esse.

 

La relazione – non partecipativa – che lega Dio all’uomo è tanto più forte ed autentica quanto più è forte la relazione che lega l’uomo ad altri. In tal senso, a patto dunque della non confondibilità degli ordini, la rivelazione è tale solo se in essa si dischiude il rapporto redentivo che lega l’uomo all’altro uomo, come dire: Dio non si rivela se manca questa relazione con altri. È corretto interpretare in tali termini il ruolo svolto dalla dinamica di questo rapporto triadico?

 

Sono tendenzialmente d’accordo con questa lettura, anche se non la irrigidirei dicendo che la redenzione è una condizione della rivelazione divina. Mi sembra piuttosto importante sottolineare il fatto che la creazione è apertura di possibilità (e come tale restringimento delle possibilità astratte proprie di Dio “prima” della creazione); che la rivelazione è anch’essa apertura – apertura ulteriore – di possibilità concrete, nell’impegno e nel vincolo che è richiesto dalla relazione tra Dio e uomo; e che la redenzione, dal canto suo, mette in opera tali possibilità nel contesto d’interazione fra essere umano e mondo, nel contempo aprendo ulteriori possibilità concrete, ma anche restringendo il campo del loro esercizio. 

 

Proprio su questo dialogo tra “ontologia della differenza” (Atene) e “ontologia della relazione” (Gerusalemme) degli ordini – su cui ha fatto ampio cenno F. P. Ciglia – dialogo che costituisce, come Lei ha spiegato in altra occasione [cfr. Senso e indifferenza, Ed. ETS, Pisa 2007], una prospettiva ideale in grado di garantire il dinamismo di una struttura dal carattere pluridimensionale costituita da un fitta serie di innumerevoli “relazioni in relazione”, si è da poco soffermato lo stesso Habermas in Tra scienza e fede [tr. it. Laterza, Roma-Bari 2006], dove si afferma quanto le tradizioni religiose posseggano una particolare efficacia di articolazione per le intuizioni morali, “sedimentandosi in reti concettuali normativamente cariche” (Ivi, p. 15), soprattutto per quanto riguarda le forme sensibili di una convivenza civilizzata. Ciò può avvenire oggi a partire dall’auspicio di un vero e proprio processo di riconsiderazione (che è pur sempre una messa in questione) della fede religiosa, ossia dal mai reso adeguatamente esplicito passaggio del ruolo del religioso dalla sfera pubblica a quella del privato. Mi riferisco all’idea di rimeditazione privata la quale, ben inteso, non corrisponde alla chiusura entro i vincoli dell’intimità o del proprio sentire religioso comune, ma all’apertura verso un orizzonte liberale e pluralista in cui diventa quanto meno inammissibile per chiunque rivendicare lo status di verità ufficiale esclusiva. Apertura del privato che diventa, pur nella sua finitudine, libera, spontanea e disinteressata disposizione morale, la quale già proprio in quanto in relazione può essere garanzia per un influsso in senso positivo non solo sull’ordine pubblico, ma anche determinante in funzione di quegli “innumerevoli, disparati, separati ‘vuoti’, uno per ciascun problema”, quel singolare “nulla” che per Rosenzweig “precede la nostra conoscenza”. Ci troviamo, insomma, di fronte ad una forma di pensiero in grado di ripensare l’etica, ma in una doppia accezione: col pensarla di nuovo e col procedere al di là di ciò che da essa e da questo stesso pensare di “nuovo” scaturisce.

 

In ambito religioso credo che il legame tra “pubblico” e “privato” sia difficilmente scindibile. Non solo per quanto riguarda il contesto cattolico, dove vale una prospettiva di salvezza che può essere conseguita anche in relazione alle opere che uno fa, ma pure nella dimensione ebraica, come proprio l’impegno pubblico di Rosenzweig ha adeguatamente mostrato. Certo, un tale legame deve venire correttamente pensato e adeguatamente vissuto. Ma – questa è la mia opinione – ciò non può accadere né riducendo una manifestazione religiosa pubblica alla semplice espressione esterna di un’intima convinzione personale, né trasformando l’esperienza religiosa in qualcosa di semplicemente esteriore, magari funzionale a un qualche disegno politico. Né la prospettiva del “dire Dio in segreto”, né quella degli “atei devoti” mi sembrano infatti modi di realizzare pienamente, in modi conformi alla complessità della sua storia, una relazione religiosa che è, anche etimologicamente, sia relazione tra uomo e Dio nell’istante della conversione, sia, insieme, relazione fra uomo e uomo nella storia. Forse allora, in questa prospettiva, ciò a cui lei accennava – il richiamo a una maniera etica di vivere la propria vocazione religiosa – può essere una via possibile per realizzare, in ambito religioso, un corretto equilibrio fra pubblico e privato.

 

Solo sulla base di un duplice movimento, dalla complementarità fra autonomia ed eteronomia, ossia in virtù dell’azione filtrante della soggettività riconosciuta pienamente autonoma nella propria responsabilità per altri – questo mi sembra il grande messaggio di Rosenzweig –, diventa possibile scongiurare al contempo individualismo egolatrico (filosofia dell’esistenza) e universalismo teologico inglobante. Se si è d’accordo su ciò, occorrerà insistere allora su questa fondamentale prospettiva tenendo conto delle aperture che si dispiegano in virtù di questo “nuovo pensiero”, contestualmente alla testimonianza di una fede illuminata, in grado di tradurre concettualmente, come è affermato nello stesso esempio di H. Cohen – a dir poco seminale per un discepolo quale Rosenzweig, così come per tutta una tradizione del pensiero filosofico novecentesco –, ciò che discende dalle stesse fonti letterarie dei profeti. Pensando ad un nostro più immediato “futuro” mi sembra sia opportuno cioè, ben al di là dalle rigide imposizioni emergenti nel “dialogo” (contesa?) tra laicismo e riflusso clericale, ridestare e salvaguardare nell’intimo ed incessante lavorio del pensiero e delle sue inesauribili “tessiture” la sensibilità verso un più profondo ordine di moralità e giustizia sempre di là da venire (e che tuttavia sembra non bastare). A proposito di tale singolare modalità di reciproca compenetrazione del pensare e dell’agire storico individuale entro l’ambito di una cultura sempre più da declinare nel senso della pluralità e del dialogo – se non ho interpretato male, questo mi pare sia in sostanza il senso di tale “nuovo pensiero” –, ritiene di poter condividere appieno questa prospettiva “teoretica” come inedita ed auspicabile via reticolare da percorrere in grado di rivelare ancora il senso e tutta la dignità dell’umanità dell’uomo cui fa riferimento Rosenzweig?

 

Credo che quello che Lei giustamente sottolinea sia l’aspetto utopico del pensiero di Rosenzweig. Si tratta però di un’utopia che è riletta attraverso il filtro dell’escatologia. E con ciò viene tagliata fuori ogni possibile declinazione ideologica di questo pensiero. Perché il valore aggiunto dell’uomo religioso di tradizione ebraico-cristiana, secondo Rosenzweig, è appunto quello di rapportarsi con fede a un Regno che verrà, anche se questa venuta, per essere “affrettata”, richiede la sua collaborazione. In un momento in cui, come quello odierno, siamo fin troppo ancorati al presente, credo che la prospettiva di Rosenzweig possa richiamarci alla necessità di guardare alle cose, potremmo dire, con uno sguardo lungo. 

 

Prof. Fabris, mi permetta quest’ultima mia domanda, forse un po’ insolita, perché frutto di una percezione che mi sovviene in base alle considerazioni che stiamo qui portando avanti, ma che riguarda comunque l’eredità e la presenza del pensiero rosenzweighiano nel cuore di chi gli è stato forse più intellettualmente, e non solo, vicino (penso a Levinas): Lei non ritiene forse che nel rapporto fondamentale che lega Levinas a Rosenzweig come a uno dei suoi più illustri modelli ispiratori (penso ovviamente al ruolo di costui in un’opera capitale quale Totalité et infini, ma anche in Difficile Liberté, come sommamente presente, a tal punto da non poter di volta in volta essere quasi affatto menzionato), non ritiene non vi sia da parte del filosofo francese una sorta di operazione tesa ad assorbire lo spirito di questo pensiero, facendolo proprio ovviamente, ma filtrandolo, specie nella relazione fra uomo-mondo-alterità-Dio, quasi a “de-teologizzare”, se così mi posso esprimere, la proposta speculativa e spirituale del proprio maestro?

 

Più che il verbo “de-teologizzare” userei l’espressione “eticizzare”. Levinas, rispetto a Rosenzweig, non solo pone la relazione con l’alterità al centro della sua riflessione, ma la reinterpreta, unilateralmente, in chiave etica. Il risultato è solo all’apparenza una laicizzazione del pensiero rosenzweighiano. Certo: in Levinas di Dio si parla poco, e quando se ne parla lo si fa per mostrare in che modo viene all’idea, rompendo la presunta autosufficienza della soggettività umana. Ma la laicizzazione compiuta da Levinas mi pare, ripeto, solo apparente. In Levinas, infatti, l’etica sta o cade sulla base dell’assunzione o meno di precisi presupposti teologici. Impliciti, certo, ma non per questo meno decisivi per lo sviluppo del suo pensiero. Almeno Rosenzweig gioca la sua partita filosofica, per dir così, a carte scoperte.

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