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Le difficili vie 

del progresso

nell’Italia 

odierna

di Mauro Visentin

In Italia sta per caso accadendo qualcosa di cui preoccuparci? Di fronte ad una serie abbastanza impressionante e considerevole di indizi, siamo forse già in molti a chiedercelo, anche se non tutti coloro che si pongono questo interrogativo hanno, al riguardo, le stesse apprensioni. Naturalmente, formulando una simile domanda, intendo alludere a qualcosa di particolare, di specifico, qualcosa che induca a riflettere e a pensare, qualcosa che denunci rischi e pericoli non generici e abituali (quelli cui ogni società va normalmente o periodicamente soggetta) ma inconsueti e soprattutto, fino a non molto tempo fa, imprevedibili. Per la vita civile, in primo luogo, ma anche per quella politica e culturale. Comunque, un mutamento che, anche senza ricorrere a definizioni rese inutili se non addirittura fastidiose dal loro abuso (“storico”, “epocale”, ecc.), possa essere intravisto come indizio di uno di quei “passaggi” che segnano un nuovo orientamento collettivo (nel quale, magari, non facciano che riemergere flussi profondi – “carsici”, come si usa dire – della vita civile, della cultura e della storia di un Paese). Proviamo a ragionarci sopra, mettendo in fila, intanto, alcuni episodi della cronaca recente, politica e sociale. 

 

     1. Il Partito democratico appare sempre più in balia di un “multiculturalismo” interno, senza regole e senza minimo comun denominatore. Un multiculturalismo che lo ha portato, di recente, a non avere una voce sola (sia pure contraddistinta da sfumature e tonalità diverse) nella crisi di Gaza. Che ha, ieri o l’altro ieri (rispetto al momento in cui scrivo), imposto un rinvio nella votazione di un documento unitario (viatico ad una posizione parlamentare univoca nella discussione sul relativo progetto di legge) riguardo al tema del “testamento biologico”. Che vede una parte consistente del partito rincorrere, al Nord, le sirene leghiste, agitando il vessillo di un federalismo sgangherato, di fronte al quale i vertici nazionali sembrano non avere altra politica oltre a quella di subirne l’onda senza convinzione, ma anche senza la forza di contrapporsi ad essa con idee chiare ed argomenti persuasivi (e ce ne sarebbero, a cominciare dal tema dei costi). E tutto questo, lasciando da parte il disastro delle amministrazioni locali di centrosinistra, investite, in molti e ragguardevoli casi, da inchieste che mettono una volta per tutte in discussione il vecchio stendardo dell’onestà e della correttezza delle giunte “rosse” (il loro “diverso modo di fare politica”), e molto, troppo timide in altri, non meno ragguardevoli casi (con le dovute e apprezzabili eccezioni di Piemonte, Liguria e, forse, non so bene, anche Emilia Romagna), di fronte all’illegalità di un  ministro che emana una circolare intimidatoria, per impedire che le strutture del servizio sanitario nazionale (comprese quelle convenzionate con le regioni), la cui competenza amministrativa è a carico dei poteri locali, si prestino a dare appoggio logistico all’esecuzione di una sentenza emessa in via definitiva dalla Corte di Cassazione.

     2. Dalle posizioni irrazionali ed emotive di gran parte dell’opinione pubblica italiana (non solo di sinistra) riguardo all’ennesima crisi isaelo-palestinese e dalle posizioni espresse dai vertici della Chiesa in proposito traspare un’inquietante sintonia, che fa riemergere fantasmi del passato, quando il popolo ebraico, considerato come popolo deicida dal cattolicesimo ufficiale, era fatto oggetto delle imputazioni più infami e fantasiose da una porzione cospicua del perbenismo borghese, oggi allargata a settori del proletariato e sottoproletariato urbano e suburbano di destra e sinistra (sia quelli armati di un’ideologia schematica e ottusa, che ha riscontri anche in alcuni esponenti di primo piano della sinistra ufficiale, sia quelli guidati dal semplice istinto della loro sete di rivalsa, che cerca solo un nemico da colpire, indipendentemente dal fatto che questo possa, volta per volta, essere individuato nell’ebreo, nell’omosessuale, nell’opposta tifoseria calcistica o nell’avversario politico). In questo “incontro” funesto non si può non vedere anche un  effetto dell’opera indefessa di demolizione del dialogo interreligioso, soprattutto ebraico-cristiano, portata avanti convintamente dall’attuale pontefice, pronto – è notizia di oggi – a revocare la scomunica ai vescovi della comunità cattolica ipertradizionalista creata quasi quarant’anni fa in Svizzera da monsignor Lefebvre, che annovera, tra i suoi prelati numerosi fautori del negazionismo storico (in altre parole, della tesi aberrante di alcuni storici, che la comunità scientifica ha da tempo ostracizzato, secondo la quale lo sterminio degli ebrei da parte della Germania hitleriana nel corso dell’ultimo conflitto non ci sarebbe, in realtà, mai veramente stato o non sarebbe stato delle dimensioni dichiarate, ma incommensurabilmente più esiguo). 

     3. Con i referendum storici (questi sì) sul divorzio prima e l’aborto dopo, sembrava ai laici italiani che la battaglia per il rinnovamento morale e culturale del Paese fosse stata vinta una volta per tutte. Sono bastati i tre anni dall’elezione dell’ultimo pontefice e il radicalizzarsi della svolta “clericale” del centrodestra per rimettere in discussione questo forse troppo ingenuo convincimento. Oggi appare come sempre più probabile una svolta legislativa che tenda ad imporre a tutti, credenti e non credenti, non certo (perlomeno non ancora) l’obbligo di credere, ma almeno quello di sottostare, anche in questioni che riguardano solo il singolo (e in una democrazia liberale ce ne sono, devono essercene e devono essere riconosciute come tali, pena la sua degradazione ad una forma di sistema politico-istituzionale di tipo olistico), alle disposizioni di una morale religiosa. Spicca tra tutte quella relativa al rifiuto di riconoscere la vita del soggetto individuale come un bene che sia (alla condizione che egli, com’è ovvio, si trovi in uno stato di capacità e autonomia psichica ragionevolmente incontestabili) nella sua disponibilità. Si intuiscono, dietro questa tendenza, le posizioni più diverse, che vanno dalla scelta opportunistica di condividere per pure ragioni di comodo od elettorali gli indirizzi della Chiesa, all’adesione ad un radicalismo tradizionalista di tipo ideologico, tutte però potenzialmente convergenti verso un esito in cui sono riconoscibili i tratti di uno Stato che intende educare (o rieducare) i propri cittadini, inculcando loro i valori della maggioranza (interpretati, in una visione più o meno consapevolmente organicistica della società, come valori che devono essere di tutti). 

     4. Accanto a questo e in apparente conflitto con questo, il dilagare di un localismo, di un egoismo territoriale e sociale, sempre più accentuati, protervi e rissosi. Perché parlo, in proposito, di “apparente conflitto”? Forse che su tante proposte leghiste degli ultimi mesi (da quella di tassare i permessi di soggiorno a quella di introdurre classi separate per i figli degli immigrati, da quella di imporre vincoli all’esercizio di certi culti religiosi a quella di introdurre il reato di immigrazione clandestina) la Chiesa non ha espresso le censure più severe? Senza dubbio. Ma, per ragioni sulle quali sarà ora il caso di soffermarsi in modo specifico, questo conflitto assomiglia molto ad un involontario (o inconsapevole) gioco delle parti (e proprio in questo senso, appare chiaro che esso sta svolgendo oggi una precisa funzione).

 

     L’universalismo della Chiesa cattolica e la piccola patria regionale (o, magari, addirittura comunale) sono davvero necessariamente antitetici? Su alcune singole scelte sì, è evidente. Ma vediamo di scendere un po’ più in profondità nella valutazione di questo confronto. E vediamo, innanzitutto, se c’è qualcosa che, al di là dell’antitesi (e più a monte di questa), non unifichi o avvicini le due prospettive. Un aspetto di questo genere c’è e non è neppure difficile individuarlo, se solo non ci si limita ad una considerazione superficiale e si solleva appena il velo dell’impressione più immediata ed epidermica: è quello rappresentato dall’ostilità nei confronti dell’istituzione statuale. Questa ostilità accomuna la Chiesa e il regionalismo o il localismo più spinto per ragioni diverse ma convergenti: nel caso della prima perché essa pretende di collocarsi al di sopra dello Stato e, in Italia, anche per l’ulteriore e specifica ragione che l’unità nazionale è sta ottenuta a prezzo dell’esautoramento del potere temporale dei papi; nel caso del secondo per motivi che non è necessario illustrare perché coincidono con la stessa ragion d’essere del localismo identitario. Ora, l’identità garantita da quest’ultimo è un’identità culturalmente forte (in senso antropologico), ma povera di valori (e tanto più povera assiologicamente, quanto più ristretto è l’ambito territoriale in cui essa esercita, nei riguardi dei singoli, il proprio ruolo di rassicurazione e conferma delle radici della loro esistenza). Di fronte a ciò, i valori della Chiesa si presentano come forti sul piano assiologico ma oggi sempre più deboli su quello della soddisfazione delle esigenze esistenziali, contrastati come sono, nella pratica delle condotte di vita, dal desiderio di benessere, dalla scarsa disponibilità al sacrificio, dall’edonismo dilagante e dalla fede nell’efficacia della tecnica (che ha surrogato quella nell’efficacia dei miracoli). Questi valori non appaiono, ad un esame attento, in contrasto con quelli espressi dal particolarismo territoriale, se non per ciò che riguarda la loro applicazione ad alcuni casi specifici, anche in riferimento ai quali, del resto, il contrasto può facilmente mutarsi in convergenza non appena si trascorra dall’apertura e dal soccorso caritativo nei confronti degli immigrati alla denuncia dei rischi insiti nel multiculturalismo religioso e nella crescente penetrazione musulmana conseguente all’intensificarsi dei flussi migratori provenienti dai paesi arabi e dal nord-africa. Considerazione che si applica con particolare aderenza alla presente realtà della Chiesa, i cui orientamenti, sulla spinta dell’impulso anticoncilare ad essa impresso dal pontificato ratzingeriano, sembrano volti più all’imposizione che al dialogo, più al proselitismo concorrenziale che all’evangelizzazione. Guardando allora alle cose sotto la particolare angolatura sotto la quale le abbiamo poste adesso, appare chiaro che, lungi dall’essere incompatibili, queste due realtà possono utilmente fornire l’una all’altra la necessaria integrazione degli aspetti riguardo ai quali ciascuna di esse risulta carente. A legarle è soprattutto il comune attaccamento alla tradizione, una visione culturalmente conservatrice della società e dei ruoli in essa rivestiti dai singoli, un atteggiamento critico e difensivo nei confronti degli aspetti eticamente progressivi (sul terreno della morale e del costume) della modernità, la diffidenza nei confronti delle istituzioni politiche e del potere centrale. Il fatto che queste forze risultino, ad una lettura più attenta, assai meno incompatibili di quanto le apparenze estrinseche non indurrebbero a supporre ed anzi decisamente integrabili, non significa però che la loro sintesi possa avvenire spontaneamente: essa è assicurata dalla compagine politica che rappresenta oggi, in Italia, il partito di maggioranza relativa, ruolo un tempo (e a lungo) assolto dalla Democrazia Cristiana.

 

     Al presente, l’elemento di più grossa inquietudine non è costituito dal fatto che abbia preso corpo da noi una destra elettoralmente forte (anche perché capace di parlare all’anima profonda, più antica ed oscura del Paese), connotata da un orientamento culturale decisamente antimoderno, al quale non si oppone il rapporto privilegiato con i ceti imprenditoriali (il cui tratto caratteristico, del resto, in Italia, è sempre stato quello di distinguersi per una prevalenza di imprenditoria piccola e media, con una capacità innovativa fortemente condizionata sia dai limiti di bilancio, che non consentono grandi investimenti in ricerca, sia dalla natura stessa del prodotto, raramente contraddistinto da alti contenuti tecnologici). L’inquietudine maggiore, per un moderno liberalismo laico e progressista è quella che ispira lo stato in cui versa il PD. E questo stato continuerà ad affliggere tale forza politica finché questa non avrà compreso la differenza che corre tra i programmi e l’identità: i primi non servono a definire la seconda. Al contrario, questa può, all’occorrenza, aiutare a definire quelli (che del resto devono essere redatti in primo luogo sulla base delle circostanza specifiche del momento in cui vengono elaborati e delle esigenze sociali e politiche che tali circostanze fanno emergere; cosa per cui, in determinate situazioni, può darsi benissimo – e si è di fatto dato – il caso che i programmi del centrodestra e quelli del centrosinistra presentino aspetti comuni o che, anche, aspetti qualificanti di un programma di centrodestra, divengano, mutando le situazioni, aspetti qualificanti di un programma di centrosinistra, e viceversa). Ma un programma esprime contenuti tecnici, che solo in parte possono registrare e tradurre istanze valoriali identitarie. Proprio nel momento in cui l’idea di “progresso” ha perso, filosoficamente, tutti i caratteri che ne facevano, nelle pretese dei pensatori illuminati e rivoluzionari che l’Europa ha prodotto tra Sette e Ottocento, la manifestazione di un corso oggettivo della storia del mondo, essa è diventata l’espressione di un valore, di un progetto etico-politico da attuare e rendere operativo con la tenacia, l’iniziativa e la volontà di una forza organizzata a tal fine. Ma, appunto per questo, il progresso non può essere più identificato con i destini storici della classe lavoratrice, i cui interessi devo essere tutelati, alla stregua di ogni altro, nella misura in cui contribuiscono all’avanzamento civile e sociale del Paese. Senza la presunzione di essere gli unici a svolgere questa funzione e nel convincimento che molto è stato realizzato sul terreno della conquista di diritti, tutele e garanzie per il lavoro dipendente. Come pure nella precisa consapevolezza che, per quanto resti ancora da fare, alcuni di quei diritti e di quelle tutele sono oggi a rischio proprio per il fatto che hanno finito, nel tempo, per la forma che hanno progressivamente assunto, con il convertirsi in freni alla loro diffusione e alla loro estensione ad una platea più ampia di soggetti, ossia esattamente a quell’avanzamento e progresso sociale e civile di cui abbiamo appena parlato. A meno di non ritenere ancora che attraverso il riscatto della classe operaia possa costruirsi una società nuova, di uomini antropologicamente diversi dagli attuali e tutti convintamente partecipi di un ideale di uguaglianza, il tema del lavoro non può più rappresentare un  motivo unificante e identitario capace di tenere insieme, sotto il vessillo del progresso sociale, valori etici, storici e politici. Ma l’identità di un partito è fatta di questo: è fatta di ideologia, di istanze morali, di posizioni stabili e consapevolmente assunte intorno ai grandi temi dell’esistenza individuale e collettiva. Si guardi, se si vuole averne una prova, al discorso di insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti e alle sue prime mosse di governo. Ebbene, è proprio rispetto a questi grandi temi (e in particolare ad alcuni di essi, oggi molto più significativi e importanti che in passato, non solo perché resi drammaticamente attuali da recenti vicende di cronaca, ma perché, nel crollo di molte convinzioni tradizionalmente indiscusse e nel mutare del costume e dei tempi, è accaduto che intorno ad essi l’individuo abbia iniziato ad interrogarsi con insistenza ed angoscia), è proprio in rapporto a questi problemi di fondo che il PD parla con voce balbuziente o si mostra addirittura afasico: le sue troppe anime non sono riuscite ad amalgamarsi, o hanno dato luogo ad una “fusione fredda” che, ameno per ora, si direbbe fallita. Una grossa responsabilità, in questo, spetta senza dubbio a quella parte più oltranzista della componente cattolica confluita in esso che sembra voler fare, del Partito Democratico, una “cinghia di trasmissione” dei diktat vaticani (ruolo, tra l’altro, già occupato da consistenti settori del centrodestra), mentre non è senza significato che tra questi cattolici radicali spicchi anche qualche “pasionaria” molto esposta sul fronte di un impegno sociale stile “vecchia sinistra”. Prima di tentare di dare corpo alle ambizioni con le quali è nato e per poterlo fare, il nuovo partito deve decidere che cosa è o vuole essere. Senza l’assurda pretesa di rivolgersi a tutti e di poterli attrarre: il bacino elettorale del PD è potenzialmente maggioritario (questa, almeno, deve essere la convinzione e la scommessa politica che sta a monte della decisione di dagli vita), ma non può comprendere chiunque. Può destare l’interesse e la curiosità solo di quelli che desiderano, magari in modo ancora confuso ed informe, un Paese diverso, più rispettoso dei diritti, più imparziale, più tollerante ma anche più inflessibile nella difesa dei principi in cui crede. Ma può farlo solo ad una condizione, che per ora, purtroppo, è assente: quella di essere esso stesso, in primo luogo, persuaso fino in fondo e concorde sulla direzione da imboccare e sulla via da percorrere. Altre strade non ce ne sono, quelle intraprese sin qui (a parte l’idea con la quale ha esordito di presentarsi responsabilmente da solo di fronte al corpo elettorale, idea che richiedeva, però, quell’armonia e unità di intenti che poi non c’è stata) non conducono, come ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, da nessuna parte.

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