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Identità e testimonianza

ovvero: l’ideologia come idolatria

di Roberta De Monticelli

 

Già a partire da Pio XII, affacciarsi alla Modernità, per i Papi, ha voluto dire esporsi alle folle, alle piazze, e poi sempre più intensamente all’amplificazione e comunicazione mediatica e globale della loro voce. Ultimamente, poi, non si è esitato ad offrire alle folle una prospettiva che è insieme religiosa e politica – e i politici, endemicamente a corto di idee, non hanno esitato a raccoglierla. Lasciamo i politici al loro mestiere e veniamo alla prospettiva teo-politica, radicata in un’identità religiosa, che viene oggi offerta al Paese. Nel linguaggio liberale corrente, una prospettiva teo-politica è già di per se stessa un peccato di fondamentalismo.

Si legge spesso che le tendenze fondamentalistiche, anche in casa cristiana anzi cattolica, sono solo un eccesso, una specie di sfogo di crescita, della nuova vitalità che distingue oggi il fenomeno religioso. Ma non è vero che  il fondamentalismo sia un eccesso di vita per la religione, perché è anzi il suo esatto contrario, vale a dire la sua morte. Se crediamo almeno che l’essenza di ogni religione degna del nome, e squisitamente poi l’essenza della religione cristiana, sia l’atteggiamento che di fronte al male insegna a cercarne in primo luogo la radice in se stessi, e a imboccare quel doloroso cammino di trasformazione, che non finisce mai, e che ogni giorno fa i conti con l’uomo vecchio, con la sua angoscia e la sua volontà auto-affermativa. Questo cammino, che conosce certo anche i giorni di grazia e di gioia, tutto è però fuorché affermazione, proclamazione, difesa della propria identità, cioè del proprio io – anche nella veste potenziata e uniformata del proprio “noi”, affermato sulle piazze in opposizione ad altre piazze (“noialtri”). Questo pare il senso profondo della frase pronunciata dall’Arcivescovo di Milano al convegno di Verona, secondo la quale è meglio essere cristiani senza dirlo che dirlo senza esserlo. Una frase che ha radici molto antiche nel cristianesimo. «Il padre vostro che abita nel segreto» - così Gesù chiama il Padre, e invita a pregare nel segreto della propria stanza.

Ma, si dice, essere testimoni, essere martiri, è altrettanto importante che pregare in segreto. Sì, ma i martiri, chi li ha mai visti riempire, agitando bandiere, una piazza, o addirittura uno stadio?  Di “martiri”, cioè di veri testimoni, noi conosciamo e onoriamo quelli che la propria identità non l’hanno affatto affermata con la forza del “noi” sulle piazze, ma l’hanno offerta, in solitudine, alla piazza avversa, esattamente come ha fatto Cristo.

Ecco allora un primo senso in cui si può, un poco più in profondità, dire che l’ideologia è contraffazione della sapienza spirituale. In primo luogo blocca e impedisce, esattamente, quell’atteggiamento di guardare alla trave nei propri occhi prima che alla pagliuzza negli altrui, che sembra l’inizio di ogni rinnovamento interiore. Di ogni renovatio mentis, appunto – perché è così che anche si intende quella “metanoia”, quel “cambiamento di mente” che i Padri latini tradussero anche poenitentia:  questo modo della conversione religiosa, apparentato con la conversione filosofica eppure anche diverso. Dico apparentato, perché anche il filosofo platonico si “converte”, si rivolge con tutta la persona dalla terra al cielo, girandosi con fatica dal suo posto nella caverna della tribù umana, per volgere gli occhi  verso una fonte di luce che tutti gli altri prigionieri – legati alle catene delle loro quotidiane motivazioni, lo sguardo fisso allo schermo delle ombre – non riescono a vedere. Ma molto diversa, anche, la conversione religiosa,  perché il filosofo platonico dal fondo della caverna volge lo sguardo alla luce del sole che proietta le ombre sulla parete, e vede sì che le cose vere sono in questa luce e non nelle ombre proiettate: ma né quando si gira per salire al sole, né quando si gira nuovamente per ridiscendere fra gli uomini e portare loro notizia della luce, si guarda dentro, per così dire, né vede l’ombra accumulata in sé.

L’ombra: non necessariamente soltanto la tenebra del cuore, ma anche la confusione della mente – e del resto sono due ombre che si alimentano a vicenda. E una delle peggiori ma più diffuse forme di insincerità è il disagio dell’intelligenza in materia di cose dello spirito, quando ce lo si nasconde. Simone Weil  parla di un “disagio dell’intelligenza” che affligge il cristianesimo fin dai suoi inizi, ed è dovuto “alla maniera in cui la Chiesa ha concepito il suo potere di giurisdizione....”. E parla in questo contesto della necessità di “pensare da capo la nozione di fede”. Da capo, di nuovo. Ora, io credo che ogni volta che questo disagio si fa acuto, ci si trova a  non aver più nomi per il divino, a non aver più proposizioni per la fede.

Non è questa, in fondo, la situazione dei più fra noi? E non da ora, certamente. Siamo nati in un mondo in cui i nomi di Dio sembravano abusati, e le proposizioni a riguardo, prive di luce.

Ma se invece che dell’ancora più abusata “morte di Dio” parlassimo di una dissociazione fra l’essere e il sentire, fra la relazione che ognuno di noi instaura con il divino, comunque lo chiami,  e la coscienza che ne ha, descriveremmo, io credo, con più esattezza quello che accade. Che il divino non ha più nomi, e lo smarrito ma felice consentirvi non ha proposizioni in cui enunciarsi. Non perché il vento “che soffia dove vuole” abbia mai smesso di soffiare, e di incendiare alcune vite umane: ma perché troppi dei nomi e troppe delle proposizioni tramandate hanno alle nostre orecchie un suono falso. Non dunque perché venga meno l’amore di verità, ma proprio al contrario, perché questo amore si fa più intenso ed esigente man mano che si cresce – e se non ci fosse amore di verità,  nulla potrebbe suonare falso.

Ma allora questo dissociarsi dell’essere e del sentire possiamo vederlo come un vero e proprio, doloroso e forse a sé ancora ignoto, rinnovarsi del nostro essere in relazione al divino. Come uno spogliarsi, anzitutto, della vecchia pelle: della vecchia coscienza, come gli animali al tempo della muta.  E se la vediamo così, questa spoliazione, non possiamo non vederla anche come l’inizio di un rinnovamento.

E allora, guardandoci all’indietro, vediamo che così sempre è avvenuto. Ogni volta che il sentimento del divino si è rinnovato perché, in una nuova maturità umana, si è approfondito; ogni volta che la luce di un uomo divino ha fatto sì che improvvisamente, come all’individuo avviene per effetto d’amore, si allargasse e approfondisse la visuale di una comunità umana sul massimo valore – ogni volta che questo è successo, i vecchi nomi sono come caduti, e un dio ignoto, nascosto, segreto, è stato annunciato. Non lo ha fatto anche Paolo di Tarso, che proprio questo dio ignoto, al quale già il pantheon antico aveva fatto posto, disse di voler annunciare?

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