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Sinistra e grandi intese

di Mauro Visentin

 

 

La nascita del nuovo governo di cosiddette “larghe o grandi intese” è stata accompagnata, come era naturale e prevedibile, da commenti disparati e di opposto orientamento. Nel complesso, appare evidente che la sua costituzione susciti disagio e sconcerto soprattutto a sinistra. Anche questo è abbastanza comprensibile: le ragioni contingenti che hanno portato ad un simile esito sono troppo note per doverle ripercorrere, ma rappresentano, per unanime riconoscimento, le tappe successive di una “via dolorosa” che il Partito Democratico, dopo la deludente (tanto più deludente quanto più inattesa) prova elettorale, ha, con cieca e masochistica ostinazione, voluto imboccare, dando vita ad un processo di autodemolizione così imprevedibile e inconsueto per una forza politica del suo peso, da sgomentare molti dei suoi stessi oppositori. Un processo che è comunque servito a mettere in luce, con le mosse irragionevoli che lo hanno contraddistinto, come il trauma dell’ennesima sconfitta politica (in cui si era repentinamente convertita l’attesa di un’affermazione trionfale) avesse lasciato un segno profondo e avesse anche (si spera solo momentaneamente) interdetto alla sua dirigenza politica l’accesso ad ogni possibile, sia pure elementarissima, disposizione alla lucidità mentale.

Oggi, dopo le dichiarazioni di intenti davanti alle due Camere del nuovo Presidente del Consiglio (eccellentemente calibrate, a giudizio di chi scrive, nei contenuti e negli argomenti) e la fiducia accordatagli in entrambi i rami del Parlamento, le voci critiche si appuntano soprattutto su due temi: l’irrealizzabilità del programma, il mancato rispetto del patto con gli elettori. La prima questione appartiene all’ambito del conflitto fra ottimisti e pessimisti e resta una discussione puramente teorica fino al momento in cui non si porrà concretamente mano al percorso di realizzazione degli obiettivi enunciati. La seconda (che è “cavalcata” da coloro che dissentono per ragioni prevalentemente ideologiche – e una buona parte dei quali si appella anche alla prima, iscrivendosi d’ufficio nel partito dei pessimisti, con la speranza, non tanto velata, che il governo fallisca la missione che si è dato) mostra un difetto evidente di coerenza argomentativa nelle opinioni di quel settore della sinistra che non riesce a “vestire” di ragioni plausibili il suo rifiuto di qualsiasi tipo di incontro politico, dettato dalla necessità di una situazione emergenziale, con l’avversario di ieri. E’ infatti evidente che qualunque patto con i propri elettori (in questo caso quello consistente nel non fare accordi con il centrodestra) si fonda sul presupposto che esso sia rispettato da

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entrambe le parti, ossia, detto esplicitamente, che gli elettori conferiscano al partito che lo contrae – e che si impegna, in cambio del loro voto, a realizzare un determinato progetto – un consenso sufficientemente ampio da consentirgli di dare attuazione alle iniziative promesse e, metaforicamente, pattuite con loro. Venuto meno questo presupposto, il patto non ha più valore e non si può quindi denunciarne la violazione se il partito che non ha ottenuto i suffragi sperati prende atto della realtà e adatta ad essa il proprio programma (cosa che, naturalmente, vale per il centrosinistra, ma varrebbe ugualmente per il centrodestra, nel momento in cui volesse imporre al governo di coalizione – che non può non essere anche un governo di compromesso – la piena attuazione dei punti programmatici qualificanti della propria campagna elettorale). Precisamente la debolezza dell’argomento svela, tuttavia, l’autentica natura del problema, che è, ad un tempo, psicologica, morale, antropologica e ideologica. Non, però, politica. Questo stato di cose, o meglio la disposizione collettiva che lo fa emergere affonda le sue radici in un passato non troppo recente e a proposito del quale si sono intrecciate analisi e valutazioni molteplici, alcune assai persuasive, ma nessuna tale da risultare capace, al di là della diagnosi del male, di indicare una plausibile ed efficace terapia.

L’Italia è un Paese diviso, lacerato, che non è mai riuscito a diventare una Nazione. E’ cosa nota e già sottolineata all’indomani della costituzione dello Stato unitario. Ma tra coloro che hanno affrontato il problema con più determinazione si sono distinti quelli che lo hanno fatto nello spirito divisivo di studiare il modo in cui una parte (la migliore) potesse prendere il sopravvento sull’altra (la peggiore). Questa strategia mostra un’evidente insufficienza già solo per il fatto che le due parti vengono, nel suo quadro, considerate come irrimediabilmente contrapposte – perché contrapposte non in virtù di opinioni e ideologie diverse, ma di una diversa e incompatibile qualità antropologica – e quindi tali da non consentire, per definizione, un travaso di consensi dall’una all’altra. Per ovviare a questa difficoltà si è introdotta un’ulteriore distinzione: quella tra paese reale e paese legale, o tra società civile, come si dice oggi, e società politica. In altre parole, per rifarci ad una posizione attualmente molto diffusa a sinistra (ma, con le debite differenze, anche a destra), una cosa sono i partiti, la politica, il “palazzo” la “casta”, una cosa (diversa e antropologicamente migliore) il “popolo”, la “gente”, le “parti sociali”. E’ una distinzione di comodo, nella quale anche coloro che se ne servono credono solo in una certa misura e “a corrente alternata”. Intanto, perché in un paese di così debole cultura liberale come il nostro, il consenso si esprime per lo più affidandosi al criterio dell’identificazione piuttosto che a quello della scelta del “meno peggio” (eccetto che per l’insieme di coloro che sono disposti a prendere in considerazione entrambi gli schieramenti, ossia la pattuglia di elettori – di norma, in particolare da noi, una minoranza – che, normalmente, nei sistemi bipolari, fa, con i suoi spostamenti, la differenza, rendendo così possibile l’alternarsi dei governi). Certo, la tendenza del corpo politico a costituirsi in classe separata e privilegiata, tendenza ineliminabile a prescindere dal contesto istituzionale in cui si manifesta, può, soprattutto in momenti di crisi economica come quello che stiamo adesso vivendo, determinare una frattura anche profonda o un forte scollamento fra ceto politico e cittadini in condizione di esercitare l’elettorato attivo. Ma questo non implica affatto necessariamente che i secondi, nell’esprimere un rifiuto incondizionato nei confronti del primo, rappresentino o incarnino un interesse generale piuttosto che una somma di interessi di parte, incomponibili in tutto, salvo che nel contrapporsi ai privilegi di coloro che, a torto o a ragione, sono percepiti come gli esponenti di un ordine chiuso e autoprotettivo nei confronti dei suoi membri, indipendentemente dalle loro divisioni e dai diversi schieramenti ai quali aderiscono in Parlamento. Ne sia prova il fatto che, quando un simile orientamento di buona parte del corpo elettorale trova modo di tradursi in proposta politica (cosa accaduta a suo tempo con la Lega e oggi, in un contesto diverso, riproposta dal Movimento 5 stelle) scatta un nuovo meccanismo di identificazione, indice non trascurabile della possibilità che una tendenza come questa esprima piuttosto un desiderio di sostituzione che un’antropologia virtuosa e alternativa. Ma questa separazione tra società civile e società politica è poco plausibile anche perché quegli stessi che operano una tale distinzione non la estendono agli elettori del partito avverso, per i quali, invece, agli occhi dei loro omologhi di diverso orientamento politico, sembra valere il principio contrario, ovvero quello che essi siano esattamente, o, in qualche caso, addirittura peggio.

E’ un errore di supponenza? No, o perlomeno, non del tutto, se non altro, da parte del centrosinistra. La tesi delle due Italie, o delle due nazioni contrapposte non è, infatti, una semplice proiezione. Esiste, indubbiamente, un’Italia priva del senso dell’appartenenza ad una collettività, e, conseguentemente, del bene comune (o di un bene comune la cui idea si spinga al di là dei confini del più bieco e gretto localismo), che vede nello Stato un ostacolo alla realizzazione dei propri interessi personali e in questi l’unico obiettivo che sia doveroso perseguire nell’intraprendere qualsiasi iniziativa. Ma contrapporre un partito degli onesti al partito dei disonesti (che rappresenterebbe quest’Italia piccola, miope e meschina) non esprime o manifesta un conflitto politico dandogli corpo, né, tantomeno, è un progetto politico o un programma. È’ piuttosto il modo di dare vita ad un contrasto pre-politico, dal quale, finché si resta aderenti al suo schema, sollevarsi al piano della politica non può che risultare impossibile. L’ideologia è intransigente e si nutre di indignazione morale. Proprio per questo occorre che la politica (che non può farne a meno, per convogliare il consenso) se ne serva anziché porsi al suo servizio. E’ sconcertante, ma se si guarda alla situazione italiana da questo angolo prospettico, è il centrodestra, dei due poli in cui si divide (o si divideva fino a poco tempo fa) la vita politica della nazione, quello politicamente più attrezzato (e non a caso, forse, appunto in ragione della sua spregiudicatezza, quello vincente), non il centrosinistra. Nel senso che è il centrodestra a sfruttare l’ideologia senza farsene dominare, per fornire al proprio blocco sociale di riferimento (contraddistinto da chiusura, egoismo, grettezza, ostilità pre-ideologica allo Stato) un movente ideale in cui e con cui riconoscersi, senza che i suoi leader ne siano essi stessi profondamente e intimamente partecipi (il che non toglie che una politica debba anche alimentarsi di idee e valori non solo di tattiche, e su questo piano il centrodestra spesso mostra un respiro piuttosto corto). Accade il contrario nel centrosinistra, dove elettori fortemente motivati sotto il profilo ideologico, trascinano la leadership politica sul loro terreno. Passare dal piano dello scontro pre-politico (sul quale la politica è asservita all’ideologia, alla sua intransigenza, al suo bisogno di semplificazione manichea) al piano dello scontro politico (sul cui terreno è la politica che usa strumentalmente l’ideologia) richiede un’opera lenta e diffusa di sviluppo della

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cultura liberale che pervada le coscienze e condizioni l’atteggiamento degli elettori. Quest’opera, nei paesi politicamente e costituzionalmente più evoluti dell’Italia, è stata il risultato storico di un quadro istituzionale limpido e solido. Rendere tale il nostro – che con assoluta evidenza è tutto fuorché questo – è la scommessa dell’esecutivo presieduto da Enrico Letta. Che per essere vinta richiede, intanto, che l’accordo politico che lo sostiene regga (e questo dipenderà, tra l’altro, anche dal fatto che l’impegno del centrodestra si dimostri effettivo e non solo di facciata, cosa sulla quale, visti i precedenti, i dubbi sono leciti, senza che però lo sia ugualmente il rifiuto pregiudiziale di verificare in concreto la corrispondenza, in questo caso, tra le parole e le intenzioni reali). Ciò che può indurre ad un cauto ottimismo circa il fatto che la scommessa abbia qualche effettiva e non solo teorica possibilità di essere vinta è la distretta terribile in cui, dopo l’esito inconcludente delle recenti elezioni, la politica si è venuta a trovare. Come sempre, non è la buona volontà (o, peggio, la sua ripetuta, esplicita evocazione, per sincera o anche ipocrita che essa sia) a poter dare garanzie sui risultati: sono, piuttosto, il peso e la costrizione delle circostanze.

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