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La politica dell’illimitato

di Bruno Moroncini

Recentemente è stato pubblicato un libro collettaneo dal titolo tanto accattivante quanto potenzialmente ingannevole: Quale filosofia per il partito democratico e la sinistra (Mimesis 2012).  Non v’è dubbio che se  i quadri del partito democratico leggessero qualcosa che non si riduca soltanto alla  mazzetta dei giornali, al romanzo alla moda e al libro del compagno dirigente, sarebbe meglio per noi e per loro: è vero che i tempi di Critica marxista e del Contemporaneo sono tramontati per sempre, ma un po’ di buona filosofia e soprattutto di saggistica gli potrebbe fare solo bene. Senza teoria  un partito di sinistra non  va da nessuna parte e  accontentarsi, come accade, della adorniana Halbbidung (semicultura)  con la scusa che tanto l’avversario è ancora più incolto e sboccato di noi vuol dire sottovalutarlo e non prendere sul serio i saperi complessi e articolati che esso usa per continuare a governare. 

Senza mettere minimamente in dubbio la buona fede e la serietà di chi ha voluto partecipare all’operazione politico-intellettuale, il rischio insito nella stessa formulazione del problema - quale filosofia per il partito democratico e la sinistra -  è quello di far del male alla filosofia ridando fiato ad un antico equivoco: che la filosofia in quanto scienza dei principi e delle cose ultime si senta investita dell’obbligo di dettare la verità alla politica  intesa come una mera arte o tecnica, oltre tutto solo del possibile, mai e poi mai del necessario e/o dell’impossibile. La filosofia in questione non sarebbe altro che filosofia politica, quella branca cioè dell’enciclopedia filosofica che prova ad applicare la verità onto-teo-logica  alla regione delle forme del vivere in comune rette dalla contingenza e dalla relatività degli interessi e dei desideri. Il paradosso sta nel fatto che buona parte della filosofia contemporanea debitamente citata d’altro canto  in molti dei saggi che formano il libro ha preso posizione (Badiou e Ranciére più di chiunque altro) contro la filosofia politica a favore  della tesi che la politica  debba essere riconosciuta come una procedura di verità, per dirla con Badiou, in quanto tale, del tutto indipendente dalla verità propria della filosofia. 

Alla filosofia sono possibili due cose: in quanto “cura del sapere con il pensiero” o decostruisce pretese di verità  per mostrarne il carattere infondato o costruisce  concetti per restare fedele a quelle verità che si producono nella politica, nell’arte, nelle scienze, nell’amore e nei saperi in generale. La filosofia non è cultura, è la sua critica. Ogni difesa del patrimonio culturale è, come diceva Benjamin,  oblio della massa senza nome che ha contribuito controvoglia a edificarlo e difesa del dominio  che su quell’edificio poggia la propria  legittimità.

Forse nella politica italiana più recente si sta facendo strada una verità che la filosofia dovrebbe fare propria: dico ‘forse’ perché in casi come questi il rischio è di essere smentiti alla velocità del fulmine. Ma il filosofo militante, simile al fante prussiano di cui parlava Kant, azzarda, come è suo dovere, il passo, rischiando consapevolmente di cadere come Talete giù nel fosso. La sfida che Matteo Renzi sta portando alla dirigenza del partito democratico e che ha già costretto quest’ultima a modificare addirittura lo statuto per cambiare la norma che prevedeva la coincidenza fra la figura del segretario politico e il candidato premier alle elezioni politiche potrebbe alludere, al di là degli aspetti più meschini e contingenti della lotta politica e anche delle capacità del contendente di essere all’altezza di quanto consapevolmente o meno sta innescando (ho già scritto su Inschibboleth che i riformatori italiani si sono spesso rivelati dei cialtroni), ad un mutamento nell’idea stessa di politica. Quel che colpisce nella reazione rabbiosa da parte della dirigenza democratica e soprattutto dei suoi quadri intermedi di fronte al modo di condursi dello sfidante (uso della parola d’ordine della rottamazione, presenza sul territorio, attacco frontale alla dirigenza, al ‘quartier generale’) è la sorpresa per uno stile di lotta politica del tutto estraneo alle tradizioni comuniste-staliniane che nonostante tutto continuano a informare i comportamenti e le convinzioni più profonde del corpo del partito democratico. Non che fino a adesso lo scontro interno al partito non ci fosse e che, soprattutto  a partire dallo scioglimento del partito comunista, non fosse ben visibile; il punto è che esso veniva affrontato e risolto sempre all’interno del partito e soprattutto attraverso  una procedura che prevedeva l’elisione della ali estreme e la vittoria del centro, di chi cioè fosse stato in grado di offrire la miglior fomula di compromesso (di questa pratiche ne sanno qualcosa, ad esempio, Pietro Ingraio e Giorgio Napolitano perennemente sconfitti dal corpo molle del partito che, in perfetto stile nicciano, compattandosi diventava forte  ed esprimeva ogni volta la segreteria; appartiene da  questo punto di vista o all’eteregenesi dei fini o alla nemesi storica che solo da una posizione esterna, cioè da quella di Presidente della Repubblica, Napolitano abbia potuto finalmente  costringere il suo partito ad adottare  la sua linea politica). 

Renzi non mira, perlomeno fino a quando non avrà vinto perché a quel punto è prassi che si conceda agli sconfitti l’onore della armi, al compromesso, non tenta di occupare il centro (lo farà se sarà il candidato premier, ma quella è un’altra storia). Vuole vincere  dalla posizione estrema e infatti fra lui e Bersani non è possibile nessuna terza via, nessun compromesso (Vendola è in realtà una candidatura di appoggio a Bersani, non un terzo nome): non accadrà come spesso è accaduto in tante situazioni che si chieda ai contendenti eccessivamente contrapposti di fare un passo indietro a favore di una candidatura che rappresenti tutti (overossia nessuno). Questa volta  le posizioni contrapposte non si elideranno a vicenda e non sbucherà come il coniglio dal cilindro del prestigiatore il nome che metterà d’accordo tutti (e cioè nessuno).

Coloro che hanno tentato, fallendo, di riformare  la politica italiana  hanno dovuto sempre tentare di sparigliare il gioco: secondo lo schema classico degli ‘Homines novi’ o dei rivoluzionari si sono chiamati fuori dal  gioco delle differenze e delle opposizioni  sistematiche, che cioè fanno sistema e ne permettono la riproduzione e la continuità; hanno fatto leva su di un punto che per  essere posizionato allo stesso tempo dentre e fuori  del sistema da combattere permettesse  la sua decostruzione. Hanno dovuto oltrepassare il limite  che segna i confini legittimi del sistema perché esso si aprisse e si predisponesse al cambiamento.

Nella storia repubblicana due sono stati i tentativi di sparigliare il gioco e aprire la politica italiana, quello di Craxi sul fronte della sinistra e di Berlusconi su quello della destra. Entrambi falliti per la forza della resistenza del sistema e soprattutto per i limiti teorici e umani dei protagonisti. Mai però un simile tentativo si era dato nella vera e unica sinistra italiana, quella erede nel bene e nel male del partito comunista (l’operazione di Veltroni del partito a vocazione maggioritaria non ha mai visto la luce veramente perché il suo protagonista non è mai riuscito a pensarsi come un estremo, voleva avere il partito dietro di sé e alla fine i compromessi lo hanno portato alla sconfitta).   

Quale verità sembra farsi strada in quelle che possono apparire (e in gran parte sono) come delle mere beghe di partito? Quale verità della politica che la filosofia dovrebbe fare propria e rilanciare? Proverò a dirlo utilizzando le tesi sostenute da Jean- Claude Milner in un libro di qualche anno fa (2003) che gli editori e gli intellettuali italiani si sono ben guardati dal tradurre gli uni e dal discutere gli altri, Les penchants criminels de l’Europe démocratique (Le inclinazioni criminali dell’Europa democratica). La società moderna - questa la tesi fondamentale del libro - è illimitata, è l’illimitato stesso. Tutto ciò che permetteva di trattare la società umana come un tutto chiuso e limitato, composto a propria volta da cerchie più piccole ma altrettanto identificabili perché dotate di confini certi e stabili, salta nella modernità. La società moderna assomiglia agli insiemi inconsistenti di cantoriana memoria, ad insiemi cioè non unificabili, che non si possono contare per uno. Insiemi illimitati i cui elementi si possono contare singulatim, uno a uno, ma mai come se  costituissero una unità finita e circoscritta. In verità gli insiemi illimitati non sono né finiti né infiniti, non formano un tutto limitato, ma nemmeno si confondono con il concetto di infinito attuale, non prendono surrettiziamente il posto di Dio. Si potrebbe definirli, utilizzando, come fa Milner, una terminologia lacaniana, i  ‘pastout’, i ‘non tutto/i’, il cui modello è la lista delle conquiste di Don Giovanni che, come è noto, in Spagna ‘son già mille e tre’. 

  Il problema è che questa  lettura  della società moderna come l’illimitato stesso, coniata in larga parte sulle descrizioni che da Tocqueville in poi sono state date della democrazia americana come di un trionfo dell’immanenza e dell’orizzontalità della società su tutte le vecchie  forme  di controllo  trascendenti e gerarchizzanti, va in rotta di collisione con il concetto di politica elaborato dalla tradizione occidentale: Milner fa i nomi di Tucidide e Aristotele. La teoria politica europea, la teoria della politica elaborata  dalla filosofia  politica sulla  scorta della storiografia, è una teoria dei tutti limitati. Da qui  due modi di intendere-praticare la politica: una europea tendente a contrapporre la politica alla società, l’altra americana a farle confluire fino all’indistinzione.  Se la soluzione americana rischia  di riprodurre il teologico-politico attribuendo alla società, come ha fatto notare Derrida (in Stati canaglia), tutte le caratteristiche del Dio aristotelico - essere causa e fine di tutto, ciò da cui tutto deriva e ciò a cui tutto è ricondotto -, quella sperimentata dall’Europa democratica, dall’Europa uscita dalla rivoluzione francese, è però tale che, impegnata com’è a     ridurre la società a un tutto, quando le capiti d’imbattersi nelle concrete manifestazione del pastout, dell’illimitato, non le resti altra via che lo sterminio (è per Milner il caso degli ebrei; ed ecco le inclinazioni criminali dell’Europa democratica: il ricorso inevitabile alle camere a gas e ai forni). Non so se l’opposizione individuata da Milner fra una politica europea centrata sulla regola della maggioranza come luogotenente dei ‘tutti’(Rousseau) e una americana fondata al contrario su quella delle  minoranze, dette al plurale come conviene al pastout, sia giusta. Quel che è certo è che la verità della politica moderna è un’oscillazione fra limite e illimitato, fra tutto e pastout, consiste, si potrebbe dire, in una costante illimitazione del limite (vedi il bel libro di Carmelo Colangelo Limite e malinconia).

Era forse questa la verità che faceva capolino nelle affermazioni di qualche leader dei DS quando auspicava la trasformazione del vecchio partito comunista in un partito all’americana, in un partito leggero? Certo quelle affermazioni denotavano piuttosto cedimento alla peggior ideologia americana (quella messa in berlina da Alberto Sordi e  Renato Carosone) che assunzione cosciente del potere dell’illimitato.  Resta vero che la questione è quella: basta d’altronde ascoltare il linguaggio dell’attuale dirigenza del partito democratico, simile in questo a quella che affonda le sue origini nella prassi staliniana dopo la fine della nep, per capire l’urgenza del problema. La politica è katechon, messa a freno, trattenimento delle spinte all’illimitato che provengono dalla società moderna; la politica è fatta per unire, non per dividere, per  smussare il conflitto, non per farne la leva delle trasformazioni; se Renzi  è  colpevole lo è perché semina zizzania, incita all’odio, se la prende coi vecchi, perché  lavora per spaccare non per ricomporre.

Forse Matteo Renzi non è all’altezza del compito, ma la  sua sola presenza pone all’ordine del giorno della sinistra italiana la questione  della trasformazione della politica dal primato del limite e  dell’unità a quello dell’illimitato e del conflitto. E quindi la domanda è: non ‘quale filosofia per il partito democratico  e la sinistra’ ma ‘quale politica per il partito democratico e la sinistra che la filosofia possa  fare sua elaborandone il concetto’.

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