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Lo spettro dell’antipolitica

di Giovanni Invitto

Uno “spettro si aggira” per l’Italia: l’antipolitica. Abbiamo sentito questa previsione di sciagura prima e, soprattutto, dopo le ultime elezioni amministrative. Non abbiamo ascoltato tale minaccia di sciagure solo dai diretti interessati, ma persino da personaggi autorevoli e di primario livello istituzionale, come il Presidente della Repubblica, già comunista. Il problema non è deprecare l’antipolitica come forma di qualunquismo, ma vedere che cosa ne genera il fenomeno. Siamo proprio convinti che non sia la classe politica a produrre in maniera automatica e immediata la reazione dell’antipolitica? Ci troviamo di fronte ad una classe che, in una fase di assoluta recessione, taglia tutto a dipendenti, lavoratori, pensionati ecc. e non taglia niente dei propri proventi e dei propri privilegi arroganti. Avete mai sentito parlare, da quando c’è questo Parlamento, di una riforma del sistema elettorale? Ci troveremo ancora nel 2013 con la nomenclatura di candidati decisi dai vertici di partito in ordine di eleggibilità? Perché andare a votare, allora? Perché, ad esempio, un assessore regionale viene incriminato e, per dargli l’immunità dall’arresto, diviene senatore, grazie alle dimissioni di un collega? Dove è la democrazia, che prima voleva dire “governo del popolo”? Chi ha creato e sta ora alimentando l’antipolitica? Alla fine degli anni Quaranta, mi si dice, i democristiani, quando e dove perdevano, definivano gli elettori “popolo bue”. La metafora era palese: il bue non ha attributi “maschili”. Ma fino a quando i politici di oggi penseranno (o spereranno?) di avere davanti solo un popolo bue? Se qualcuno ricorda loro che “quando il popolo si desta, Dio si mette alla sua testa”, come diceva una poesia del periodo risorgimentale, molti si preoccuperebbero. Certamente Dio ha altre cose da pensare. Ma forse i “filo-politicanti” dovrebbero cominciare a fare l’esame di coscienza.   

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