Lo spirito della democrazia e i suoi paradossi
di Mauro Visentin
Due eventi molto significativi e ancora in corso di svolgimento hanno evidenziato di recente e portato alla luce in modo abbastanza traumatico per il mondo economicamente e socialmente sviluppato, al di qua e al di là dell’Atlantico, alcuni aspetti paradossali dello spirito che ne anima le democrazie. Questi eventi sono: innanzitutto la crisi economica, che ha investito l’intero occidente, ma che – dopo aver aggredito gli Stati Uniti tre anni fa – interessa oggi, in particolare, l’Europa; in secondo luogo, le rivolte che nei paesi arabi del medio oriente e del Nord-Africa hanno portato quasi ovunque al rovesciamento dei sistemi corrotti e autoritari che li governavano. Si tratta di fenomeni che, per il modo in cui sono stati e vengono vissuti nei paesi dell’occidente capitalistico, così come per le reazioni che in questi stessi paesi essi hanno determinato e prodotto, fanno emergere il conflitto, di solito latente, che contrappone, entro il quadro della democrazia rappresentativa di massa, la natura strumentale di questo sistema politico (il fatto che esso deve “funzionare” e far fronte a circostanze mutevoli) con la sua identità assiologia e con l’ideologia che la sostiene. Il primo dei due, cioè la crisi economica, ha avuto, in Italia, un’evoluzione molto interessante. Ciò è dipeso, in primo luogo, dal fatto che, distinguendosi in questo da quella innescata tre anni fa negli Stati Uniti, la crisi in atto è una crisi del debito sovrano, ossia del debito pubblico di alcuni paesi particolarmente esposti in questo settore. Quella del 2009 è stata, senza dubbio, l’antefatto di quella attuale, ma, nello stesso tempo, per la diversità dei sistemi economici americano ed europeo (in particolare, riguardo a quest’ultimo, con specifico riferimento alla zona-euro), ha avuto origine da fattori diversi, a cominciare dalla moltiplicazione di titoli di debito e/o credito che venivano garantiti da altri titoli di debito e/o credito del settore bancario ed è stata quindi, essenzialmente una crisi del sistema creditizio e del debito privato. In entrambi i casi si è, comunque, trattato di una crisi dell’economia finanziaria, non di quella industriale. Ma il primo episodio (o, come lo abbiamo definito poco più su: l’antefatto) ha messo in luce, in America e nei due rami del Parlamento statunitense, un conflitto che ha visto contrapporsi le ragioni del realismo a quelle dell’ideologia, ossia quello, in parte trasversale rispetto ai due maggiori partiti USA, fra coloro che ritenevano che lo stato dovesse sostenere o salvare gli istituti bancari più significativi (in considerazione della reazione a catena che il loro fallimento avrebbe prodotto nel sistema economico integrato, non solo americano ma di tutto il mondo), e coloro che, invece, in nome di un’ideologia liberistica intransigente, pensavano che lo stato dovesse astenersi da ogni intervento, costasse pure quello che sarebbe costato adottare una linea di questo tipo. Nella situazione odierna il sostegno della comunità europea ad alcuni stati a rischio di insolvenza per il loro eccessivo indebitamento (Grecia, innanzitutto, ma poi anche Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna) è stato subordinato, soprattutto per Grecia e Italia, all’introduzione di misure restrittive della spesa, in grado di incidere direttamente sul debito, rallentandone la crescita. Queste misure, avendo un costo sociale piuttosto alto, perché la riduzione della spesa pubblica comporta riduzione nell’erogazione di prestazioni e servizi da parte dello stato, hanno prodotto reazioni talvolta anche molto vivaci, sia in Grecia, dove si è sfiorata l’insurrezione, sia in Italia, dove i sindacati, e in particolar modo la CGL, hanno opposto e continuano ad opporre, spalleggiati da alcune formazioni politiche minoritarie, una resistenza tenace all’introduzione delle riforme più attese, riguardanti il lavoro. Una resistenza non meno significativa è quella venuta da parte delle categorie interessate alle misure di liberalizzazione del mercato dei servizi e delle prestazioni professionali.
Fino a questo punto, quella descritta è una situazione che, all’incirca, fotografa lo stato dei fatti. Ciò che è interessante vedere è come in Italia, e in parte anche in Grecia (non così in Spagna), si è arrivati ad introdurre le misure richieste dall’Europa. Diversamente dalla Spagna, che quando la crisi è iniziata era in procinto di votare un nuovo parlamento, Grecia e Italia erano governate da partiti che già intravedevano, essendone, però, ancora abbastanza lontani, l’approssimarsi della scadenza elettorale. E’ il momento in cui, nei sistemi liberali, le formazioni politiche e i loro leader sono più deboli, e soggetti al ricatto degli elettori. Il loro comportamento è, perciò, particolarmente significativo, in questa fase, e può risultare abbastanza sintomatico di una debolezza strutturale della democrazia in tempi di crisi economica. Sia in Grecia che in Italia, infatti, il capo del governo in carica ha dovuto rassegnare le dimissioni e il suo posto è stato preso da un “tecnico” alla guida di un governo che, in Italia, è stato esso stesso costituito ricorrendo a “tecnici”. Una sorta di governo di salute pubblica, sostenuto da una coalizione anomala, comprendente l’ex-maggioranza insieme all’ex-opposizione. Solo questo escamotage ha consentito al parlamento (e quindi ai partiti) di approvare misure di imposizione fiscale, di riforma del regime pensionistico, di (relativa) liberalizzazione e aumento della concorrenza in alcuni settori protetti da forme di tutela corporativa (taxi, farmacie, ordini professionali, banche ecc.). Misure impopolari presso i gruppi sociali organizzati che ne erano i destinatari e gli obiettivi e che, in virtù degli effetti attesi da questi provvedimenti, vedevano profilarsi la perdita dei cospicui vantaggi (altrettante “rendite di posizione”) fino ad ora garantiti loro da normative volte a tutelare le corporazioni piuttosto che il bene pubblico o l’interesse collettivo. Senza la copertura di un “governo tecnico” nessuno dei partiti che siedono in parlamento avrebbe avuto la forza o il coraggio di sfidare il consenso dei gruppi e dei ceti sociali che rappresentano la componente più cospicua del loro elettorato di riferimento. Solo un ingenuo può scandalizzarsene: sia le resistenze dei ceti colpiti dalle misure di rigore, sia quelle dei partiti che fondano il loro peso parlamentare sul consenso degli elettori, è del tutto naturale che in queste circostanze si manifestino così, ovvero per ragioni legate ad interessi settoriali e non all’interesse generale. Questo, però, comporta che, in condizioni critiche, il ruolo e la funzione dei partiti tendano ad avvicinarsi, fino, in certi casi, ad arrivare al punto di confondersi con essi, al ruolo e alla funzione dei sindacati, che consistono nel tutelare interessi di parte. Questo è tanto più vero in una situazione generale in cui, come da noi è avvenuto da tempo, l’unico autentico motivo di diversità fra partito politico e sindacato è venuto a cadere (o ad offuscarsi notevolmente) a misura che il ruolo del sindacato andava ideologizzandosi (processo che la contrattazione nazionale collettiva ha certamente incoraggiato e favorito). Il partito, infatti, pur essendo come il termine lascia facilmente intendere, portatore di interessi “di parte”, deve (o dovrebbe), a differenza del sindacato, fornire, di questi, un’interpretazione ideologica in chiave di interesse generale (ovvero fornire, il che è lo stesso, un’interpretazione orientata ideologicamente, e quindi, appunto, “di parte”, dell’interesse collettivo). Atteggiamento che sarebbe indizio di superficialità accusare di semplice ipocrisia, quando, bene o male, è la radice dell’indispensabile processo di eticizzazione dell’interesse corporativo. Ma una condizione di crisi economica tale da non lasciare margini di manovra ideologici, spinge i partiti a privilegiare esclusivamente gli interessi delle componenti sociali che costituiscono il loro elettorato di riferimento In altre parole, in una situazione di particolare criticità la democrazia mostra di avere (e per ragioni costitutive, ossia intrinseche al tipo particolare di sistema politico che essa incarna e che è a base rappresentativa) i riflessi lenti. La lentezza è essenzialmente determinata dal tempo che i partiti impiegano per mettere a fuoco la realtà che sta oltre la linea del loro orizzonte ideologico e, soprattutto, per trovare un accordo fra di loro che, grazie ad un accorgimento sagace, non penalizzi nessuno o penalizzi tutti in egual misura e comunque il meno possibile. Questo tempo può essere di lunghezza variabile e la soluzione che esso prepara può anche abortire, nei casi in cui, con il suo eccessivo prolungamento, la sua gestazione venga sopravanzata dal precipitare degli eventi e dal degenerare della crisi (la Grecia ci è andata molto vicina).
L’ideologia, perciò, è il fattore che, accanto e insieme agli interessi corporati dotati di rappresentanza politica, può indebolire endemicamente le democrazie. Nel senso che se essa assolve, come abbiamo detto un ruolo insostituibile, ai fini della democrazia, nell’eticizzare questi interessi, rallenta però il tempo necessario sia ai partiti sia ai leader politici (ma anche alle corporazioni, ai cartelli sindacali, ai gruppi e alle associazioni con finalità particolari, ai singoli cittadini portatori di interressi specifici) per mettere a fuoco il divario incolmabile che nei momenti critici intercorre tra la realtà e i propri desideri, le proprie aspirazioni, i propri obiettivi. E prendere coscienza di questo divario è l’unico modo che consenta di far convergere realisticamente e non ideologicamente l’interesse particolare con quello comune. Solo, in altre parole, quando ci si rende conto del fatto che, come parti di un insieme sociale, la propria personale salvezza in tempi di crisi generalizzata dipende dalla salvezza dell’intero paese si può decidere di sostenere senza troppe recriminazioni l’onere che la singola partecipazione al processo collettivo di messa in sicurezza del sistema sociale comporta. Ma l’ideologia rallenta e inibisce questa presa di coscienza. In diverse maniere. La prima, meno indiretta e piuttosto grossolana, è rappresentata dal confronto tra la propria situazione e quella del vicino più favorito. Brandendo, ideologicamente, il principio di uguaglianza (che, certo, la democrazia fa proprio, insieme a quello della libertà individuale) si decide che un onere aggiuntivo, per essere sopportato, deve, prima, prevedere la parificazione di fattodella ripartizione degli oneri, fin qui, di fatto, ingiustamente distribuiti (per esempio per quanto riguarda quelli fiscali e contributivi, in conseguenza dell’ampiezza delle fasce sociali che riescono a sottrarsi, in tutto o in parte, alla loro imposizione). La correttezza del rilievo non toglie che esso rappresenti un alibi ideologico: non si può abolire per legge o attraverso qualche disposizione ministeriale il divario fra la norma e la sua efficacia applicativa, per l’eccellente ragione che, facendolo, se ne riproporrebbe immediatamente un altro, identico, di secondo livello (quello fra la nuova norma, introdotta ai fini di imporre la corrispondenza fra le norme e il loro rispetto, e la sua concreta efficacia). Il che significa, non che non si debbano fare leggi rigorose, rassegnandosi al fatto che non potranno, comunque, che essere ininfluenti, ma che è illusorio attendersi, nel rapporto fra disposizioni normative e applicazione di quanto la norma prevede, anziché il rispetto e la realizzazione di possibilità concrete (variabili e perciò in grado di estendersi e svilupparsi progressivamente), il rispetto e la realizzazione (che, ove si potessero ottenere sarebbero immutabili e definitivi e pertanto dovrebbero essere conseguiti risolutivamente e una volta per tutte, in brevissimo tempo) di possibilità ideali.
Un aspetto ulteriore dell’interferenza ideologica nell’applicazione di norme emergenziali restrittive è costituito dall’idea che anziché ricorrere ad una certa misura sarebbe più opportuno (equo, ragionevole ecc.) ricorrere ad un’altra. La questione riguarda il caso, piuttosto frequente in una democrazia di massa, che l’opposizione ad una norma non sia dettata (come certamente può accadere) da preoccupazioni “tecniche” suggerite da un’autentica competenza specifica, ma dalla necessità di dare copertura ideologica a interessi settoriali, o dalla suggestione ideologica preconcetta di chi valuta un provvedimento alla luce di principi etici che prescindono interamente dalla sua efficacia o realizzabilità (soggetta al condizionamento di fattori numerosi e complessi). Nella misura in cui queste resistenze possono rallentare o addirittura bloccare e magari dirottare l’adozione di norme efficaci, volte ad assolvere il compito di portare con rapidità il paese fuori della condizione d’emergenza, esse rendono la democrazia un sistema fragile in situazioni critiche. Ma la cosa che conta è che questo inconveniente non è eliminabile: esso dipende da un principio che fa costitutivamente parte delle regole della democrazia, dove a ciascuno deve poter essere consentito esprimere liberamente le proprie opinioni e mettere in atto tutte le iniziative che possano, legittimamente, promuoverle e dove nessun principio consente di selezionare un’opinione piuttosto di un’altra solo per la sua caratura tecnica.
Un ultimo aspetto sul quale vorrei soffermarmi a proposito delle possibilità di interferenze ideologiche nelle decisioni “tecniche” in democrazia riguarda il fatto che, come nella società di massa (che è una società con forti connotazioni ideologiche, anche se per lo più disparate e non univoche, proprio perché diffuse e dilatate oltre i limiti di quelle tradizionalmente considerate “ideologia” in senso classico) anche la tecnica può essere ideologizzata, così nella civiltà della tecnica l’ideologia può sentire il bisogno di appellarsi alla tecnica per rafforzare la sua posizione. Di conseguenza, quando un’opinione ideologica ne contrasta una tecnica, in genere lo fa (o lo fa, quantomeno, in alcuni casi) richiamandosi a ragioni tecniche, proposte come più corrette e oggettive, di contro a quelle che, presentate come tecniche, vengono accusate di non esserlo che in apparenza (essendo, invece, in realtà, l’espressione di interessi sociali e politici camuffati). Un forte impulso a questo processo (che è, essenzialmente, un processo di entropizzazione o di aumento del disordine semantico e della confusione dei linguaggi che certo non aiuta le capacità di discernimento critico della maggioranza degli elettori, i quali, sommersi da una valanga di informazioni disparate e difficilmente valutabili in base al grado della loro attendibilità, spesso esprimono un voto che nessuno addurrebbe realmente come prova di una qualche forma di discernimento) viene dalla diffusione della rete. Le comunicazioni che avvengono attraverso i canali che internet mette a disposizione potenzialmente di tutti contengono informazioni, notizie, convincimenti, affermazioni, idee che non sono sottoposte (e soprattutto non sono sottoponibili) a nessuna forma di controllo e verifica. Internet è stato un formidabile strumento di diffusione di notizie che altrimenti non sarebbero mai giunte in occidente in occasione dell’ondata di proteste e della loro violenta repressione, che hanno fatto seguito alle ultime elezioni presidenziali in Iran, i cui risultati i manifestanti denunciavano essere effetto di brogli su larga scala. E’ quindi, innegabilmente, un fattore che conferisce una forza che prima non avevano a tutte le opposizioni ai regimi dittatoriali già solo per il fatto che rende molto difficile la censura dell’informazione. Ma è anche, e allo stesso tempo, un mezzo efficacissimo per adescare la credulità, per diffondere nuove fedi e credenze, per propalare deliranti teorie di complotti planetari, per creare allarmismo annunciando prossimi, catastrofici eventi della natura, per consolidare gli orientamenti ideologici dei soggetti psicologicamente più fragili e indirizzarli verso un radicalismo tanto più attraente quanto più capace di fornire chiavi di facile decifrazione della realtà.
Veniamo ora al secondo dei due eventi cui mi sono richiamato all’inizio: la cosiddetta “primavera araba”. Molti, in occidente, hanno accolto con grande favore sia i sollevamenti popolari che hanno portato in Tunisia e in Egitto, all’abbattimento dei regimi che governavano da decenni quei paesi, sia al conflitto civile scatenatosi in Libia e all’intervento successivo delle forze NATO in difesa delle popolazioni delle regioni insorte contro Gheddafi, con l’esito cruento cui la vicenda ha alla fine condotto per quanto riguarda la sorte dell’ex leader e di una parte della sua famiglia. Altri ha guardato alla situazione che andava creandosi in quell’area con speranza mista a timore o addirittura con preoccupazione e scetticismo. L’entusiasmo e il favore dei primi è apparso, da subito, come il frutto di un’aspettativa abbastanza ingenua: quella che dalla caduta dei regimi impopolari, personalistici, familistici, corrotti e dittatoriali o quantomeno illiberali, il cui potere si era retto fino a quel momento su un forte legame con l’esercito, di alcuni dei principali paesi arabi del nord-Africa potesse emergere, rapidamente e senza troppi traumi, una democrazia laica e liberale del tipo di quelle da noi felicemente sperimentate in Europa e in America. L’unico elemento di realtà che potesse alimentare questa illusoria speranza era rappresentato dal fatto che una componente dei movimenti di protesta antiregime, quella più moderna e intellettuale, ma non certo quella maggioritaria, era costituita da studenti, ceto medio ed esponenti dei settori produttivi di varia estrazione. Il fattore più forte al quale l’aspettativa ottimistica si è appoggiata, tuttavia, è stato offerto dall’idea che la democrazia cresciuta e sviluppatasi in occidente sia l’esito naturale e inevitabile del processo di evoluzione storica, ovunque e per tutti i popoli. La realtà dei fatti ha ben presto dimostrato quanto questa idea sia astratta ed ingenua: nella migliore delle ipotesi i regimi che in tutta l’area interessata da questo fenomeno politico-sociale sostituiranno quelli abbattuti saranno dei sistemi islamici di tipo moderato. E questo significa che il tramonto dei regimi laici – spesso fondati su una curiosa miscela di socialismo monopartitico e cultura araba, il più delle volte sostenuti dal favore dell’esercito – che si sta manifestando in questa parte del mondo islamico mostra nel modo più chiaro che rispetto a questo mondo l’alternativa di fronte alla quale ci pone la storia non è quella cui siamo abituati fra democrazia e dittatura, ma piuttosto quella fra una religione asservita alla politica (ad una politica, oltretutto, che con l’andar del tempo è destinata a diventare – come è accaduto pressoché ovunque in questi paesi – oligarchica e corrotta) e una politica asservita alla religione.
Possiamo allora concludere che oggi la democrazia appare, rispetto al ruolo storico che in occidente le è stato di norma assegnato, messa in discussione su due fronti. Riguardo a quello interno essa si direbbe arretrare davanti alla crescita e all’espansione della società di massa e dei processi di massificazione culturale che sono la naturale conseguenza del diffondersi dei canali di comunicazione mediatica e informatica. Con riferimento a quello esterno, dal confronto, per ora tutt’altro che vincente, con il mondo islamico. Tanto basta ad incrinare la fiducia che il futuro che attende tutti i popoli della terra sia una democrazia sempre più estesa, diffusa e perfezionata. Sempre più corrispondente, cioè, al modello europeo o anglo-americano e all’idea che ne informa il progetto originario. Dietro a questa fiducia, comunque molto ingenua e ideologica, talvolta anche interessata (si pensi alla singolare idea di muovere guerra all’Iraq – cosa che si poteva fare per diverse ragioni, alcune legittime altre meno – con lo scopo di importarvi la democrazia liberale), sta un’inconsapevole e abbastanza rozza filosofia della storia, cioè, in parole povere, una visione universalistica, europeocentrica, tardo settecentesca e insieme romantica dell’evoluzione della storia mondiale. Segno che il diffondersi di una visione pessimistica dell’insecuritas non ha inciso, finora, che superficialmente sul modo in cui, nelle società democratiche occidentali, vene percepito il rapporto fra la realtà presente e il futuro planetario. Pertanto, sarebbe, bene attrezzarsi mentalmente (o cominciare, almeno, a pensare di farlo) per una “navigazione a vista”, nella prospettiva che l’evoluzione incresciosa e potenzialmente imprevedibile delle vicende storiche possa metterci di fronte ad impegni per i quali i nostri strumenti culturali e ideologici di decifrazione dei fatti risultino in parte (in gran parte) o del tutto inadeguati (perché insufficienti, ma anche perché depistanti). Non solo sul piano della filosofia accademica, ma anche su quello – ben più vincolante, nelle sue scelte, per i destini di tutti – della politica e dei suoi valori. Almeno di quelli, se non altro, che continueranno, persino in un mondo senza mete ultime, ad alimentare, giustificare e assecondare i disegni dei fautori del mito occidentale del progresso. Cosa che costituirebbe un rischio solo se questo mito non venisse vissuto per quello che è realmente – ossia una proiezione ideologica, quindi in modo spregiudicato e con “disincanto”, per promuovere l’avvento di qualcosa o impedire quello di qualcos’altro – ma come espressione di una verità non eludibile e perciò sicura: la verità illusoria, anche se confortevole, di un futuro corrispondente alle nostre aspettative.