L’epoca dell’ingrati-tudine
di Andrea Tagliapietra
L’ingratitudine è la bancarotta dell’economia del dono. Con una differenza, tuttavia, rispetto a quanto accade nella partita finanziaria dei debiti e crediti, che già Rousseau rimarcava: «la riconoscenza è sì un dovere a cui bisogna adempiere, ma non un diritto che si possa esigere». Anche per quanto concerne l’ingratitudine, cioè, emerge l’impossibilità di ridurre il fenomeno della donazione al mero fatto economico e alla simmetria del dare e dell’avere, ossia si palesa la difficile miscela di libertà e di obbligo che il dono contempla. Se sono libero di donare, parimenti dovrei esser libero di ringraziare e di manifestare gratitudine.
Ma le cose non sono così semplici. Perché, mentre il benefattore sta all’inizio della catena del dono e può scegliere, in certa misura senza incorrere nelle accuse di insensibilità o di avarizia, se donare o no, il beneficiato non può che subirne le conseguenze. Quand’anche fosse libero di respingere il dono, non può evitare l’imbarazzo, né il rischio che il suo rifiuto venga interpretato come un atto ostile. Inoltre, spesso la condizione di bisogno del beneficiato non consente a quest’ultimo una concreta possibilità di scelta.
Il divario incolmabile fra benefattore e destinatario del dono è stato fissato, con la consueta lucidità, da Kant, nella Metafisica dei costumi, per cui «non è possibile sdebitarsi con alcun compenso di un beneficio ricevuto, perché il beneficiato non riuscirà mai a togliere al benefattore il merito di esser stato il primo a manifestare all’altro la sua benevolenza». Allora, la difficoltà essenziale della gratitudine sta nell’accettazione, da parte del beneficiato, di uno stato di dipendenza che è tanto più pesante quanto più ingente è il valore del dono ed elevata la posizione del donatore.
I potenti della Terra, del resto, hanno sempre usato graziose elargizioni di doni per esercitare la loro influenza su sudditi e cortigiani, per comprarne la deferenza e affermare la propria sovranità. Il potere assoluto finisce per corrompere assai più di quanto tiranneggi. Plutarco racconta che Alessandro Magno, avendo deciso di regalare un’intera città ad uno dei suoi ufficiali, che sembrava riluttante nel ricevere un beneficio così grande, disse « Non mi preoccupo di che cosa ti convenga accettare, ma di che cosa mi convenga dare».
Se il dono del potente è un dono avvelenato, perché in realtà è strumento del suo stesso potere, allora l’ingratitudine potrebbe essere catalogata come una forma, benché tardiva e meschina, di ribellione. Vile, dal momento che essa si manifesta, assai spesso, in coincidenza con l’indebolimento o la caduta del potente, quando non si sperano benefici, né si temono rappresaglie. Del resto, sull’aspetto politico dell’ingratitudine si soffermava già Machiavelli in vari passaggi della sua opera, come nel famoso capitolo dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (libro I, cap. XXIX) che si interroga Quale sia più ingrato, o uno popolo o uno principe, nonché in un breve componimento in terzine, dedicato a Giovanni Folchi e redatto probabilmente prima del 1518. In questo poemetto l’autore delPrincipe osservava che il vizio dell’ingratitudine «trionfa nel core/d’ogni potente, ma più si diletta/nel cor del popul quando egli è signore».
La storia, infatti, da Temistocle, che non ebbe la riconoscenza degli Ateniesi per la vittoria sui Persiani e morì in esilio, a Scipione l’Africano che, dopo aver sconfitto Annibale, arrivò a pronunciare la famosa invettiva ingrata patria non avrai le mie ossa, attesta la tendenziale irriconoscenza dei popoli verso i loro capi e condottieri. L’asimmetria tra il principe e i suoi sudditi presto o tardi dev’essere risarcita, anche al di là dei meriti e delle colpe del potente. L’ingratitudine è, per Machiavelli, un sentimento complesso, figlio d’avarizia e di sospetto, nutrito e cresciuto al seno dell’invidia. Esso trafigge il cuore degli uomini con tre frecce, che testimoniano tre gradi o forme d’ingratitudine diverse: la prima spinge a ricevere i benefici senza ricambiarli; la seconda a riceverli negando di averli ricevuti; la terza, la più odiosa, non solo non ricambia e nega, ma, se può, fa che «il suo benefattor laceri e morda».
Nietzsche, citando l’arguzia di Swift, sosteneva che «gli uomini sono riconoscenti nella stessa misura in cui covano vendetta». Fatta salva la predisposizione dei rari animi nobili alla generosità e, quindi, anche alla gratitudine, c’è un sotterraneo risentimento, anzi, una percezione risentita della propria inferiorità, che, guardando alla mano che dona, in realtà, desidera soprattutto addentarla. Per questo, consiglia il filosofo tedesco, il benefattore non dovrebbe mai dimenticare di dissimulare il suo gesto, di nasconderlo, ossia di praticare il pudore di colui che dona. Se si vuole neutralizzare il veleno del dono, suggerisce Derrida un secolo dopo Nietzsche, bisognerà pensare ad un dono paradossale, che prevede un donatore anonimo e un beneficiato per caso. Del resto, cosa sono le grandi istituzioni assistenziali nazionali e internazionali, come la Fao o l’Unicef, se non strutture donative di questo tipo?
Exemplum classico dell’ingratitudine, a cui Seneca dedicherà un intero capitolo del suo De beneficiis, è Bruto. L’assassino di Cesare, secondo le voci dell’epoca, si diceva fosse addirittura suo figlio naturale e, comunque, un suo beneficiato, trasformando l’uccisione del “Padre della Patria”, ossia il tirannicidio dei congiurati delle idi di marzo, in un autentico parricidio, cioè nel cupo dramma di una doppia ingratitudine. Ma la storia umana dell’ingratitudine cresce proprio intorno ai rapporti affettivi apparentemente più naturali e spontanei, padre-figlio, madre-figlio, moglie-marito, o tra gli amanti, come narrano le vicende tragiche di Didone ed Enea, di Arianna e Teseo e di Medea e Giasone. Inoltre, il famoso detto, tratto dall’Etica nicomachea di Aristotele, per cui sono amico di Platone, ma lo sono, assai di più, della verità, esprime, nobilitandola teoreticamente con il confronto fra i due maggiori filosofi dell’antichità, l’ingratitudine che spesso caratterizza il rapporto fra allievi e maestri.
Tuttavia, l’ingratitudine può essere anche il tratto distintivo di un’epoca, come insinuava, qualche anno fa, il filosofo francese Alain Finkielkraut (L’ingratitude. Conversation sur notre temps, Gallimard, Paris 1999), sostenendo che il nostro tempo è l’età ingrata della democrazia radicale, incapace dell’“arte di ereditare”. Al di là del suo ultraconservatorismo e del mancato bersaglio critico – il decennio abbondante trascorso dall’uscita del suo libro mostra che la nostra è tutt’altro che l’età della democrazia radicale, avviandosi l’epoca piuttosto verso un neototalitarismo (l’eurocrazia), per ora di velluto, ma alla lunga devastante -, Finkielkraut ci fa riflettere sul nesso molto stretto fra gratitudine e cura della memoria, nonché sul valore cognitivo e infine coscienziale che collega la “ri-conoscenza” alla responsabilità storica e al valore della trasmissione culturale.
Il futurocentrismo dell’età moderna e l’assolutizzazione del presente di quella postmoderna concordano nel confinare il passato nell’inutilità accessoria di un ornamento. Eppure, facendolo, tali declinazioni collettive della temporalità non riescono a mascherare quella percezione risentita e vendicativa che, come suggeriva Nietzsche, anima il sentimento dell’ingratitudine. Certo, sembra davvero assai lontana l’autorappresentazione di quei primi moderni che si sentivano come dei nani sulle spalle di giganti. Ma anche la furia iconoclasta dei contemporanei e dei postmoderni nei confronti del passato e persino della sua stessa idea denota un persistente nanismo spirituale, un complesso irrisolto che, forse, ha la sua remota radice in quella che Blumenberg avrebbe chiamato la legittimità dell’età moderna.
L’epoca dell’ingratitudine è l’età del tramonto della cultura. Non diunacultura, ma di ogni cultura. Tutte le principali questioni del nostro tempo sembrano potersi ricondurre a un paradigma generale complessivo che è sintetizzabile come la credenza che la naturalizzazione, ossia la riduzione a dispositivi non simbolici, dell’essere umano, della sua vita sociale e della sua stessa attività espressiva, sia un fatto possibile, perseguibile e per certi versi, anzi, auspicabile. Questa naturalizzazione ha come suo corollario la rimozione della prospettiva storica, ritenuta, assieme alla dimensione sociale, un fattore di superficie e secondario, mentre la stessa attività tecnica degli esseri umani, inseparabile dalla prospettiva simbolica e collettiva, viene ridotta alle figure della produzione e dello scambio, concepite entrambe in un quadro che vede l’economia, anzi una certa idea storicamente determinata dello spazio economico, svolgere non la funzione di parte integrante, ma quella di un tutto immutabile. Non sono lontani i tempi in cui l’autocomprensione del contemporaneo descriveva la nostra epoca come quella della “fine della storia”, sintetizzando in questo slogan non tanto un dato di fatto sorto dalle rovine novecentesche del Muro di Berlino e dall’affermarsi di un’idea di globalizzazione che oggi mostra tutte le sue contraddizioni, quanto una strategia e un’interpretazione che potremmo riassumere nel programma di “farla finita con la storia” di modo che i popoli, le società e gli individui si convincano che “questo” modo di vivere è “il” modo di vivere. In una parola: per limitare, da principio prevalentemente in alcuni campi sensibili come quello della vita collettiva o dei modi e dei rapporti di produzione, la capacità delle società e degli individui di pensare e di vivere diversamente.
Del resto, che la storia non sia più magistra vitae è forse uno dei sintomi dell’incapacità di ereditare che, non soltanto condanna alla ripetizione e alla smemoratezza degli errori delle generazioni passate, ma soprattutto induce a non fare mai i conti fino in fondo con l’incubo del presente e con il dovere critico di affrontarlo e di rifiutarlo, di assumersi la piena responsabilità storica che seppero esercitare quei popoli e quegli individui che ebbero il coraggio di dir di no.
Infatti, come insegnava Ernst Bloch, si può ereditare anche dal presente (Eredità del nostro tempo (1935), il Saggiatore, Milano 1992). Basta saper guardare. Ma per guardare bisogna avere gli occhi ben addestrati, bisogna saper vedere attraverso la polvere sollevata, giorno dopo giorno, dal conformismo e dalla banalità quotidiana. Il presente, infatti, è spesso opaco e si rischia di capire troppo tardi che cosa abbiamo realmente davanti.
Oggi, quando si parla ancora di storia, è di moda il processo sommario, soavemente persuasi che una prospettiva imbalsamata del presente permetta l’arroganza del giudizio e l’inesorabilità della sentenza definitiva. Insomma, per non tornarci più sopra, per naturalizzare anche il ricordo. Ma questo modo di guardare al passato non serve a nulla. Al limite, aiuta solo a dimenticare meglio, organizzando e istituzionalizzando “giornate della memoria” per non dover ricordare tutti i santi giorni ciò che è importante e decisivo. Invece, direbbe Bloch, bisogna saper ereditare qui e ora, perché l’eredità è qualcosa di vivo e presente che, se passa, passa con noi.
Come negli anni Trenta del Novecento l’impiegato tedesco e il commerciante impoverito dalla crisi economica distoglievano lo sguardo dalla concreta realtà storica per lasciarsi inebriare dal mito dei «sassoni senza foresta», «rimpiazzando il pane imburrato» con il piacere di sentirsi biondi e nobili come i cavalieri teutonici delle favole, così oggi il lavoratore precario con la lettera di licenziamento sempre in tasca e il giovane assunto a tempo determinato credono, forse ancora in buona fede, nel mito della crescita infinita e dell’innovazione continua, nello Star Trek della scienza e della tecnica. Si prospetta loro, in quanto appartenenti all’indefinita categoria dei “giovani”, che ha nella disoccupazione e nell’irrilevanza economica le sole determinazioni effettive, un domani in cui dovranno cambiare lavoro spesso, vivere all’estero o lontano dai loro cari e parlare una lingua straniera. Se non li immaginate, come vuole lo spotdell’inebriamento collettivo, gironzolare in finanziera o tailleur firmato per i quartieri della City di Londra o per le strade della moda e del lusso di Parigi o di Manhattan, avrete la condizione sociale, attualissima e non certo invidiabile, dell’immigrato extracomunitario, sottopagato e costretto a vivere da solo e sradicato dai propri affetti.
Magari questi cosiddetti “giovani”, funzionali all’argomentazione repressiva come i “bambini non-nati” nei dibattiti sull’aborto degli anni Settanta, si gingillano con l’i-pad comprato a rate e fabbricato dal loro avvenire di schiavi cinesi d’Europa. Essi così potranno sognare a occhi aperti, stringendo in mano l’icona in bianco e nero di Steve Jobs, che, infatti, le “offerte di lavoro” le prometteva già nel nome. D’altra parte, anche se i “giovani”, disillusi in numero sempre maggiore, non credono più al mito costruito a loro spese, non si ha la forza di pensare diversamente. Sospetto che ormai non vi siano neppure i mezzi intellettuali e morali per farlo, se si accetta senza fiatare lo scambio semantico della parola “diritto” con “privilegio” e se si continua a chiamare “riforma” (il più ambiguo dei termini del lessico politico) la progressiva abolizione dei diritti, ossia un sostanziale regresso civile.
L’indignazione, di cui si fa un gran parlare per mettere un’etichetta sulle fin troppo moderate proteste contro lo scandalo del presente, è solo un sussulto nel corpo comatoso della rassegnazione. Già Nietzsche, in Al di là del bene e del male (II, § 26), diceva che nessuno mente tanto quanto l’uomo indignato, che - integriamo il detto del grande diagnosta -, è soprattutto abile nel mentire a se stesso. Egli non sa dir di no, ma soltanto urlare, come il coniuge tradito,perché non possiamo ancora dir di sì? e, quindi, continuare tutto come prima. Privi di quella che una volta si chiamava “coscienza di classe” e nel deserto europeo della rappresentanza politica, i giovani e i vecchi, disoccupati e pensionati, vanno verso il macello sociale del futuro con la stessa visione del mondo dei loro sobri e compassati pastori.
Allora è forse di fronte alla superiorità e al dono del coraggio di chi, in passato, seppe dir di no, combattendo e accettando ogni rischio per il valore non negoziabile della propria dignità, che i contemporanei si vergognano e distolgono lo sguardo, ormai gonfio d’ingratitudine. Si imprigiona così l’epoca che stiamo attraversando nella più grande sterilità e grettezza simbolica, di cui la crisi materiale globale è solo il riflesso. Infatti, chi non sa ringraziare, non sa neppure donare, e il terrore della bancarotta monetaria nasconde una bancarotta già avvenuta, quella dello spirito.