Risuonano squilli di tromba...
di Giovanni Invitto
Chi sta aspettando che il Concilio Vaticano II sia realizzato in maniera definitiva, dopo quarantacinque anni dalla sua conclusione, ricorda bene il senso della “costituzione pastorale” intitolata “Gaudium et Spes” che affrontava il problema dei cattolici in politica e lasciava alla coscienza del singolo cristiano le opzioni da compiere. Fondava, credo per la prima volta nella storia della Chiesa cattolica, una cultura della pluralità delle scelte: “Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia, altri fedeli, altrettanto sinceramente, potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, come succede abbastanza spesso e legittimamente”.
Come mai, allora, si ripropone oggi il discorso dei cattolici in politica? Se la diaspora, cioè la presenza di credenti nella pluralità delle formazioni partitiche e politiche, è già un fatto esistente e consolidato, perché rilanciare il problema? La causa principale sarà stata sicuramente il fatto che molti politici e governanti del nostro paese, pur dichiarandosi cattolici e utilizzando questa “sigla”, hanno pubblicamente adottato atteggiamenti che non hanno niente a che fare non solo con l’etica cattolica, ma neanche con il comune senso del pudore. E non ci si riferisce soltanto o anzitutto a modalità di gestione del privato, ma soprattutto alla gestione della cosa pubblica.
Quindi richiamare ai principi è fatto legittimo e doveroso. Ma forse qualcuno ha voluto dare a questo invito un significato che supera le intenzioni di chi lo ha posto. Si è parlato di una nuova “Democrazia Cristiana”, di un nuovo partito cattolico, evento poco immaginabile nel contesto attuale che, tra l’altro, vede il cosiddetto “integralismo cattolico” ampiamente ai margini della realtà e del dibattito ecclesiale. Nondimeno non sono mancati i politici zelanti, anche nostrani, che hanno subito voluto tranquillizzare tutti affermando: io ho il dna cattolico e l’ho sempre rispettato.
È certo che, se etica e politica sono cose diverse, il governo di una comunità non può ignorare le emergenze sociali che sono altrettante istanze etiche. L’etimo del termine “comunità” sta ad indicare che tutti i componenti hanno lo stesso impegno: oggi è l’impegno a riprendere quello che, con termine desueto, chiamiamo stato sociale, distrutto da una politica che ha privilegiato chi gestisce grossi interessi economici e, ai restanti cittadini, di fatto ha detto: “arrangiatevi”. Questa non è né una buona politica né ha a che fare con uno Stato giusto: e la giustizia è una delle virtù cardine (o cardinali) perché, come dice il libro biblico della Sapienza: “Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza”. La giustizia, anche quella sociale, è alla radice di ogni altro comportamento virtuoso.
Diceva don Tonino Bello, dodici giorni prima di morire: “Amate i poveri perché è da loro che viene la salvezza, ma amate anche la povertà. Non arricchitevi, non arricchitevi! Non vale. Nel gioco della vita è sempre perdente chi vince sul gioco della borsa”. L’ammonimento riguarda tanto i singoli laici quanto gli esponenti della gerarchia: torniamo ad una politica nella quale l’etica, dove c’è, non sia facciata ma sostanza delle scelte, rispetto e aiuto “istituzionale” ad ogni uomo e ad ogni condizione sociale.