Cosa resta della sinistra nella sinistra
di Alfonso Maurizio Iacono
Cosa resta di sinistra nei partiti della sinistra? A vedere le cose astraendo dalla quotidianità di uno scontro politico che spesso, dietro l’emergenza, nasconde limiti e rimozioni, direi purtroppo niente o quasi niente.
A me sembra che si sia persa l’abitudine a una riflessione critica e collettiva, spregiudicata e di lungo periodo, e si sia dissolta la capacità e forse la volontà di visione generale della società e della storia. Dietro l’apparente realismo politico, che dovrebbe essere rassicurante e invece non lo è, si cela la paura di pensare e di agire. Temo che si sia affermato ovunque ciò che Leonardo Sciascia attribuiva allo scetticismo dei siciliani, il non credere alle idee.
Da tempo la sinistra non ha più l’egemonia culturale e subisce fondamentalmente la visione del mondo di destra che oscilla tra un plebeismo plebiscitario e mediatico e un giustizialismo conservatore. Avendo quasi del tutto abbandonato la presenza territoriale, la sinistra italiana si è illusa e si illude di poter contrastare il regime da terzo millennio, espresso attualmente dal Berlusconi, che stiamo subendo e che opera all’interno di regole democratiche, opponendovi una lotta mediatica del tutto perdente perché contraddittoria con l’essenza stessa della sinistra. Si è lasciato libero terreno o alla tentazione mediatica di sostituire la politica con la giustizia, oppure, al Nord, a una forza come la Lega che, nell’epoca del dominio dei mass media, non ha perso affatto territorialità, avendola paradossalmente ereditato, rovescandola, dalla tradizione di sinistra.
Temo che per riaprire un discorso di sinistra occorra azzerare molte cose dell’attuale sinistra. Temo che non ci sia molto ormai da salvare. Temo che assumere la finzione di una continuità con il passato, con una tradizione, con una cultura sia soltanto, appunto, assumere una finzione che forse ci rassicura nell’immediato sulla nostra identità politica, ma che ci lascia nello sconforto e nella depressione dopo che ci si rende conto di essere caduti nel peggiore dei conformismi e nella più disastrosa assenza di fantasia e di visione ampia. Non si può né si deve delegare la propria partecipazione a quelle trasmissioni che oppongono al potere mediatico di Berlusconi un altro potere mediatico. Non si può e non si deve esaurire la propria conoscenza e cultura nella lettura dei giornali che allo svilimento della politica operato da quelli berlusconiani contrappongono una politica scandalistica, moralistica, padronale. E’ un segno di debolezza il dovere sperare in una giustizia che di fatto si sostituisce alla politica. E’ sconvolgente come si chiuda troppo facilmente un occhio, anzi tutt’e due gli occhi, sulle connivenze, i piccoli e grandi privilegi, le ipocrisie che hanno certamente favorito l’egemonia e il potere di Berlusconi. La voglia grande sarebbe quella di ritirarsi a vita privata, ma la politica, si sa, contiene una legge alla quale non si può sfuggire: se non vi partecipi tu direttamente, gli altri la faranno per te. Ma oggi è la politica, supervisibile e superpresente nei mass media, che tiene lontano, spinge nell’isolamento della vita privata, perché a dispetto di un senso comune fin troppo stolidamente radicato, non è vero che la scarsa o mancata partecipazione sia considerata un male. È vero purtroppo il contrario. Più spettatori ci sono, i quali rimangono inchiodati davanti allo schermo, meno cittadini sono disposti a muoversi e a occupare le piazze, meglio è per una politica fatta da professionisti che possono così decidere senza vincoli; professionisti in gran parte più o meno incapaci, perché, a differenza di un tempo, spesso, troppo spesso, si avvicina alla politica come professione chi la pensa come una carriera, talvolta purtroppo perché incapace di fare altro. Sto esagerando? Non nego naturalmente che vi siano per fortuna donne e uomini che lo fanno perché ci credono, ma sono loro a caratterizzare e a determinare oggi la politica dei partiti di sinistra? Credo che dovremmo avere il coraggio di farci questa domanda.
Vi sono due modi di concepire la politica: o come amministrazione del potere oppure come attività di partecipazione al potere. Nel primo caso la politica è dei pochi, coloro che i molti hanno delegato ad amministrare, nel secondo caso è dei molti, i quali delegano sì ai pochi, ma senza una delega in bianco e invece con dei vincoli e a tempo determinato. In entrambi i casi, come detto, vige una legge non scritta che è senza eccezioni. Alla politica non si sfugge. O te ne interessi tu direttamente oppure sono gli altri che la fanno per te, anche se non sono stati delegati da nessuno a farlo. O sei tu a farla oppure sono gli altri che la fanno per te. Per questo il consenso non può essere il solo e dominante metro di misura di una democrazia. O meglio non è il metro di misura che distingue la democrazia da un regime totalitario. Sono le modalità con cui si ottiene il consenso a creare la distinzione. E una modalità decisiva è costituita dal senso della partecipazione.
Come ebbe a osservare Primo Levi: “A contrasto con una certa stilizzazione agiografica e retorica, quanto più è dura l'oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere”. Egli fa un elenco delle forme di disponibilità: terrore, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore, voglia miope di un qualsiasi potere, anche assai circoscritto, viltà, calcolo finalizzato a eludere gli ordini. In modo variegato e sfumato la vittima si identifica con il carnefice, il suddito con il re. L'oppressione stimola il potere mimetico che è in noi. La domanda è: tutto questo è scomparso in democrazia? Seguendo la lezione di Primo Levi che analizzava i Lager anche come momento di riflessione più generale sul potere e le sue forme, mi devo chiedere, ci dobbiamo chiedere, cosa in un sistema democratico può portare (sta portando) a una nuova forma di regime dove al gioco del consenso non corrisponde la partecipazione?
Allora, è necessario indagare su ciò che ci ha portati a un regime che, pur mantenendo le forme e le pratiche della democrazia, è diventato appunto un regime. Il potere sui mass media. D'accordo. Ma vi è anche, a mio parere, dell'altro. Per esempio, la condizione del precariato, quando diventa una condizione esistenziale permanente, finisce con lo svuotare la persona fino a renderla psicologicamente disponibile ai voleri del padrone.
Qualche anno fa fu esaltata la precarietà, chiamata però, soprattutto a sinistra, con un nome ipocrita e allettante, flessibilità. La critica al posto fisso ha fatto perdere di vista la necessità e il diritto di tutti a un posto sicuro, a partire dal quale sarebbe bello pensare alla flessibilità, la quale ha senso se è scelta da chi lavora, là dove la precarietà è invece imposta da chi comanda. Di certo non auguro a nessuno di essere tutta la vita un precario. La precarietà non rende flessibili; al contrario irrigidisce il corpo e la mente e fa diventare gli uomini più disponibili al consenso senza partecipazione.
Un tempo la sinistra aveva la capacità di unire riflessione, ricerca e azione collettiva. Oggi non è più così. La sinistra, negli ultimi anni, è stata connivente sia con l’idea di politica come amministrazione, sia con l’angoscia mediatica del consenso, sia con la condizione sociale della precarietà. Nella patetica ansia di non sembrare passatista e arretrata, si è data una pallida visione della società, osservata con occhi da miope, senza uno sguardo lontano. L’impallidimento degli ideali e l’offuscarsi di una visione egualitaria ha spinto fin quasi a idolatrare i manager e gli imprenditori, e ad accettare o subire del tatcherismo l’idea che una divaricazione fra dirigenti e diretti, economica e culturale, avrebbe aiutato l’organizzazione sociale e invece ha favorito purtroppo soltanto la sperequazione e la corruzione.
A proposito di imprenditori, lo scorso anno è stata ricordata dal Comune di Pisa e dall’Università, la figura di Adriano Olivetti del quale Luciano Gallino recentemente ha sottolineato quel senso di responsabilità sociale che ormai gli imprenditori hanno deliberatamente perso. Gli utili, che la Olivetti sapeva ben realizzare, erano ripartiti fra i dipendenti e nel territorio. L'organizzazione del lavoro fece epoca. Adriano seguì sempre il suggerimento del padre Camillo: “tu puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia”. Strana e meravigliosa affermazione da parte di un imprenditore che sembrava avere letto le considerazioni di Marx sugli effetti devastanti per gli operai e le loro famiglie delle rivoluzioni tecnologiche del capitalismo. Ma non c’era bisogno di essere marxisti. Bastava avere quel senso etico-sociale, laico o religioso che sia, oggi dissolto. Stride la contrapposizione fra questo modo di pensare la produzione e le teorie attualmente dominanti le quali affermano che lo scopo dell'impresa è unicamente quella di fare buoni affari. Oggi tutti o quasi, chi per cinismo, chi per ignavia, accettano la fine della responsabilità sociale. Si obietta che il mondo è cambiato, che siamo nell’epoca della globalizzazione. Una buona scusa per tutti i filistei. La parola sociale un tempo, ora non più, qualificava il termine responsabilità. Una parola che nessuno vorrebbe più fra i piedi, visto che viviamo in un mondo dove le relazioni sociali sono tornate ad essere sempre più e quasi esclusivamente dei mezzi per i fini privati degli individui. Sì, il mondo è cambiato, ma da questo punto di vista, in peggio. Non dovremmo riprendere, a sinistra, il discorso sulla responsabilità sociale delle imprese?
Recentemente è stato pubblicato un libro di due sociologi britannici, Richard Wilkinson e Kate Pickett, il cui titolo italiano è a dir poco improprio, La misura dell’anima (Feltrinelli 2009). In realtà il titolo originale fa riferimento alla livelletta, quella dei muratori e di Totò, ed è un’interessante analisi delle società occidentali che dimostra come nei paesi ricchi ma caratterizzati da un maggiore livello delle diseguaglianze, aumentano i malesseri sociali, crescono la violenza, il disagio psichico, lo sfruttamento del lavoro, le malattie, dipendenze. Essi sfatano il pregiudizio diffuso e più o meno condiviso secondo cui la crescita economica rende automaticamente una nazione più sana e più soddisfatta di sé. “Nelle società moderne, essi scrivono, si osserva uno straordinario paradosso: pur avendo raggiunto l'apice del progresso tecnico e materiale dell'umanità, siamo affetti da ansia, portati alla depressione, preoccupati di come ci vedono gli altri, insicuri delle nostre amicizie, spinti a consumare in continuazione e privi di una vita di comunità degna di questo nome. In assenza del contatto sociale rilassato e della gratificazione emotiva di cui abbiamo bisogno, cerchiamo conforto negli eccessi alimentari, nello shopping e negli acquisti ossessivi, oppure ci lasciamo andare all'abuso di alcol, psicofarmaci e sostanze stupefacenti. Com'è possibile che abbiamo creato tanta sofferenza mentale ed emotiva, nonostante livelli di ricchezza e di agio che non hanno precedenti nella storia umana?”.
Wilkinson e Pickett sostengono, dati comparativi alla mano, che questa situazione paradossale è causata dal divaricarsi delle diseguaglianze che, tra l’altro ha spinto gli individui a ridurre i risparmi, ad aumentare gli scoperti bancari, i saldi delle carte di credito e ad accendere un secondo mutuo per finanziare i consumi. Gli autori in sostanza anticipavano (il libro è del 2009) le conclusioni a cui è giunto Obama nel valutarte l’attuale crisi economica.
“Sappiamo anche, scrivono gli autori, che la crescita economica non è il metro con cui si misura tutto il resto….. Non dobbiamo neppure lasciarci convincere che i ricchi sono la rara e preziosa espressione di una razza superiore di individui più intelligenti, dai quali dipende la vita di tutti noi. Questa è una semplice illusione creata dalla ricchezza. Piuttosto che assumere un atteggiamento di gratitudine verso i ricchi, dobbiamo riconoscere gli effetti dannosi che essi hanno sul tessuto sociale”.
Forse, perché vi sia qualcosa di sinistra nella sinistra, dovremmo ripartire da qui, dal problema dell’eguaglianza, che ben lungi dall’essere un eguagliamento plebeo da sudditi verso un capo, deve caratterizzarsi come un’aspirazione legittima di cittadini, nella consapevolezza che non vi può mai essere libertà piena per tutti nello stato di diseguaglianza.