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La sinistra

in Germania 

di Paolo Soldini

“C’è, in Germania, una maggioranza a sinistra del centro”. Sono passati più di trent’anni da quando Willy Brandt, in piena era Kohl, incitava la sua Spd a non perdersi d’animo di fronte alla dura evidenza delle miserie in cui era caduto il sogno socialdemocratico. Crisi politica, determinata dalla corrosione del rapporto con le basi tradizionali del consenso e dall’emergere prepotente del nuovo (allora) fenomeno dei Verdi, ma ancor più crisi culturale visto che a vent’anni e più dalla svolta epocale del Programma fondamentale di Bad Godesberg, la Spd sembrava incapace di dare risposte convincenti ai mutamenti della società tedesca: quelli che, pretendendo di dir tutto e forse dicendo troppo poco, venivano definiti come inevitabili connotati della società post-industriale. 

 

La crisi di consenso di allora, già ampiamente percepibile, veniva letta da Brandt come il passaggio dal blocco omogeneo del modello socialdemocratico classico, rappresentato dal più classico dei partiti socialdemocratici d’Europa, a una costellazione assai più nebulosa, in cui i Verdi, ma anche forze ancor più centrifughe, come il movimento pacifista, da un lato mangiavano pezzi di consenso tradizionalmente appannaggio della Spd, ma dall’altro si allargavano verso aree fino ad allora non toccate dalla politica istituzionalizzata. La sinistra, nella visione di Brandt, perdeva in chiarezza e coerenza, ma guadagnava in estensione sullo spettro delle idee. E allora si trattava, secondo il vecchio leader, di trasformare il partito rendendolo capace di dialogare con l’”altra” sinistra;  la naturale alleanza che sarebbe scaturita da questo dialogo avrebbe tradotto in politica concreta, di schieramento, una maggioranza che esisteva, per l’appunto, “a sinistra del centro”. Non tutti, nella Spd, la pensavano come lui. Tendeva a prevalere, anzi, l’opinione di chi riteneva che la socialdemocrazia dovesse ritrovarsi in una sua purezza d’intenti e di coerenze, ancorandosi allo schema sperimentato della concorrenza al centro e accettando semmai il dialogo con l’”altra sinistra” solo in termini di contingenti alleanze, temporanee e basate sulla coincidenza momentanea dei programmi.

Se si guarda alle vicende politiche degli ultimi trent’anni, si vedrà che in Germania la sostanza del dibattito interno alla socialdemocrazia è rimasto sempre ancorato a quel dualismo. Certo, le condizioni sono profondamente mutate, innanzitutto con l’unificazione e con la conseguente necessità di fare i conti con una sinistra ancora più “altra”: quella dell’est e delle sue interferenze (che vedremo) con la parte più radicale della sinistra dell’ovest. E poi con le necessità nuove di confrontarsi con il tumulto della globalizzazione, con la denazionalizzazione dell’economia e con la confusione dell’assetto internazionale post-bipolare. Ma per molti versi il problema è, ancora oggi, quello che era ai tempi di Brandt e delle sue polemiche con i “realisti”, i “Macher” anti-idealisti impersonati emblematicamente da Helmut Schmidt e in modo forse ancor più forte da Gerhard Schröder, partito da posizioni quasi estremistiche, e comunque molto à la Brandt, e approdato all’iperrealismo della Neue Mitte. Le esitazioni a prenderlo di petto, questo problema, hanno frenato pesantemente l’iniziativa politica della Spd e sono state d’impaccio persino a quella coscienza di sé del partito che dovrebbe esprimersi sul piano dei programmi di lungo respiro. Chi ha seguito un po’ la vicenda del nuovo Grundsatzprogramm che la Spd si è data alla fine del 2007 ha un’idea abbastanza precisa della penosa difficoltà che i socialdemocratici tedeschi incontrano a dare concretezza politica alle astrattezze dei massimi princìpi. Il Grundsatzprogramm del 2007, oltretutto, è il secondo che resta nella storia degli archivi di carta: quello del dicembre ’89, arrivato in sciagurata coincidenza con la caduta del Muro, fu una specie di monumento all’incongruenza dei tempi. 

Oggi la “maggioranza a sinistra del centro” di brandtiana memoria è composta in un sistema di rapporti di forza che il vecchio leader non avrebbe mai immaginato (e che forse lo fanno rivoltare nella tomba). La Spd ha perso, negli ultimi tre decenni, almeno una decina di punti percentuali di consenso. La crisi è stata pesantissima nei primi anni del nuovo secolo e, secondo le sciagurate tradizioni della sinistra europea, si è accompagnata a lacerazioni interne al gruppo dirigente che hanno toccato il punto più acuto negli ultimi tempi dell’esperienza della grosse Koalition con la cancelliera Merkel. I sondaggi più recenti testimoniano un debole trend positivo e, fatto forse più importante, alcuni risultati elettorali nei Länder (clamoroso quello di Amburgo in febbraio) segnalano una sensibile ripresa di consensi, almeno a livello locale. Resta il fatto, però, che la Spd fatica addirittura a conservare il posto di partito leader della sinistra, nonché di secondo partito della Germania. Nell’ottobre scorso, il sondaggio di un importante istituto demoscopico mise in luce il fatto, davvero storico, che a livello federale i Verdi, con il 24% delle intenzioni di voto, avevano sorpassato i socialdemocratici (23%) e da allora le rilevazioni periodiche dei grandi istituti segnalano un testa a testa. Il 27 marzo scorso questo trend ha trovato una conferma clamorosa nelle elezioni nel Baden-Württemberg e in Renania Palatinato.

A sinistra non c’è più, insomma, la costellazione classica, consolidata dall’inizio degli anni ’80, di un partito maggiore, la Spd, e di un partito minore, i Verdi. Anche se molti socialdemocratici continuano, magari inconsapevolmente, a ragionare con quello schema la situazione è molto diversa. Ora ci sono due partiti più o meno sullo stesso piano e un terzo partito, la Linke, che a livello federale ha un quarto dei consensi degli altri due, ma che in alcune realtà, specie ovviamente all’est, compete ad armi pari con la Spd, surclassa i Verdi e qua e là è addirittura il primo partito. Questa articolazione della sinistra ha modificato in modo prepotente lo schema tradizionale, un tempo (lontano) tripolare, della politica tedesca. Nonostante la legge elettorale e lo sbarramento al 5%, oggi, i partiti rappresentati nel Bundestag sono cinque – sei, calcolando separatamente Cdu e Csu - e quelli presenti nei vari parlamenti dei Länder sono ancora di più, considerate le formazioni di estrema destra nonché partitini episodici e liste civiche. Circostanza, sia detto per inciso, che dovrebbe essere tenuta presente da chi, in Italia, pensa che si possano tenere insieme bipolarismo e modello elettorale tedesco.

E’ tutto da vedere se la “maggioranza a sinistra del centro” abbia o no bisogno, per esistere, di includere anche la sinistra-sinistra della Linke. Qui i sondaggi non sono molto d’aiuto: secondo alcuni Spd e Verdi da soli avrebbero, se si votasse oggi, già più del 50%, se noi dei voti almeno dei seggi al Bundestag. Secondo altri, no. Soprattutto perché si dovrebbe mettere nel conto il fatto che da settimane e da mesi l’ottimo stato di salute del centro-sinistra nei sondaggi è certamente un po’ gonfiato dalla circostanza che uno dei partiti del centro-destra, la Fdp, è a un minimo storico (addirittura al di sotto della fatidica soglia del 5% che sbarra la strada alla rappresentanza parlamentare federale) dal quale sarebbe ragionevole aspettarsi, prima o poi un “rimbalzo”, magari favorito dal sottrarsi all’abbraccio soffocante, nel governo, della Cdu-Csu. 

Siano i suoi consensi determinanti o no, è certo comunque il fatto che la Linke appartiene ormai di diritto, e da più di qualche anno, al panorama istituzionale della sinistra tedesca. Il rapporto con essa è, sia in positivo che in negativo, imprescindibile e si è visto quanto, sia pure tra molte difficoltà e prudenze, abbia finito per trovare sbocchi concreti in esplicite alleanze a livello locale. A cominciare dal caso più clamoroso del governo di Berlino. Tanto più è importante, perciò, che nella sinistra tedesca (e forse non solo tedesca) si approfondisca l’analisi su quel che rappresenta il fenomeno Linke, ancora relativamente giovane e soprattutto non del tutto definito e non privo di contraddizioni. L’ambiguità fondamentale della Linke è, ovviamente, nella sua genealogia: il partito è erede della vecchia Pds, figlia dirazzata, a sua volta, della Sed, il partito egemone della fu Ddr. E’ evidente che questa connotazione tende a sfumare con il trascorrere del tempo. Ma si illuderebbe chi pensasse che il legame con il passato, con quel passato, sia diventato o tenda facilmente a diventare ininfluente. In realtà nel consenso elettorale della Linke pesa ancora moltissimo la componente “orientale”. Non tanto in termini di nostalgia per un regime che pochi davvero rimpiangono, quanto come espressione di quella Ostalgie che non è, o almeno non è solo, passatismo, ma anche critica, magari implicita, ai modi in cui l’unificazione ha cambiato la vita della nazione,  ricerca, sincera, di stili di vita meno alienati di quelli imposti dal capitalismo rampante. E’ così, d’altronde, che si spiega il gap, ancora fortissimo, tra i consensi della Linke all’est e quelli all’ovest, pur se questi ultimi sono in evidente e sensibile crescita. L’aver saputo coniugare questa “Östlichkeit”, questa “orientalità” con le istanze della sinistra socialista e laburista critica verso la Spd, minoritaria ma da sempre presente all’ovest specialmente negli ambienti più influenzati dai sindacati, fondendole in una federazione prima e in un vero e proprio partito, è stato il miracolo compiuto da due personaggi dotati di un forte carisma politico: Oskar Lafontaine, all’ovest, e Lothar Bisky, all’est. Il progetto è riuscito perché ambedue i personaggi avevano una “storia”. Il primo era stato il dirigente socialdemocratico che più di ogni altro, nelle dure crisi degli anni ’80 e ‘90, aveva còlto la necessità che la Spd rinnovasse il suo armamentario ideologico e cercasse un rapporto con gli strati  che andavano emergendo nella società postindustriale della Repubblica federale. Il secondo era il rappresentante di quella comunità di dissidenti che si era ribellata alla dittatura del “socialismo reale” in nome  di una trasformazione democratica illuminata dai valori del “socialismo vero”. Lafontaine e Bisky, comunque si giudichino le loro idee (e anche le ambizioni da “Napoleone della Saar” e le asprezze di carattere del primo), erano degli innovatori, avevano capito che cosa si doveva muovere nella morta gora della politica tedesca e questa caratteristica permise loro di collocare a pieno titolo la Linke nel campo della sinistra.  

Lafontaine e Bisky, però, non ci sono più e i loro successori non possiedono certo il loro carisma. La Linke continua a progredire, ma certo non è più il fenomeno dirompente degli anni passati. Il che, forse, potrebbe favorire il dialogo con una Spd un po’ tranquillizzata sul fronte della concorrenza e ammorbidita dal venir meno dei furori antisocialdemocratici dell’”ex” di lusso che era il vecchio Oskar. Il problema è che non solo la Linke, ma tutta la sinistra tedesca, massimamente la Spd, soffre di una crisi di leadership che rende ancor più difficile la definizione di un quadro politico coerente e di un programma di lungo termine davvero convincente. Difetti da correggere rapidamente perché il tempo corre e se dalle urne nel 2013 dovesse uscire la conferma della profezia di Brandt sulla “maggioranza a sinistra del centro” si dovrebbe arrivare preparati all’appuntamento con il governo.

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