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Incipit de

La questione morale,

Cortina, novembre 2010

 

di Roberta De Monticelli

La profondità di significato della questione morale, che pure in Italia abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, ci sfugge ancora. Questo saggio nasce dalla speranza che si possa articolare in pensieri chiari e forse utili a ciascuno, forse anche a chi voglia contribuire al rinnovamento del pensiero politico, questa profondità di significato che ci sfugge.

I dati della questione morale rendono ardua e infuocata – rossa di vergogna o di collera -  quella che Hegel chiamava la preghiera mattutina del cittadino, la lettura di giornali. Corruzione a tutti i livelli della vita economica, civile e politica. La pratica endemica degli scambi di favori, a tutti i livelli: cariche pubbliche a figli e amanti, lo scambio di carriere politiche contro favori privati, i concorsi pubblici (quelli universitari, ad esempio) decisi sulla base di accordi fra gruppi di pressione o cordate – quando non addirittura di parentele – e non su quella del merito, lo sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati, il familismo, il clientelismo, le caste, la diffusa mafiosità dei comportamenti, la vera e propria penetrazione delle mafie in tutto il tessuto economico e nelle istituzioni, la perdita stessa del senso delle istituzioni da parte dei governanti. La discesa in campo politico dell’interesse affaristico che si fa partito e prostituisce il nome di “libertà” a indicare il disprezzo di ogni regola che possa frenare o limitare la libido di  “un potere enorme” – letteralmente e-norme, sottratto a ogni norma di civiltà e diritto; la legislazione ridotta per troppi anni a fabbrica di decreti fatti per favorire interessi particolari, o addirittura a ritagliare la giustizia penale a misura di impunità dei prepotenti. E infine una sorprendente maggioranza degli italiani che approva, sostiene e nutre questa impresa, e collabora passivamente e attivamente a dissipare, insieme, la migliore eredità morale e civile e il patrimonio di bellezza e cultura del nostro Paese. Ciliegina sulla triste torta, l’alleanza delle gerarchie ecclesiastiche romane e di molto associazionismo cattolico con questo programma di disgregazione di ogni minima virtù di cittadinanza, e l’ombra di un attentato alla laicità dello stato che si profila sotto l’ala cupa di una resuscitata Teopolitica, con la minaccia che si protende sulle libertà civili fondamentali, come il diritto di vivere la propria vita e morire la propria morte secondo il proprio ed non l’altrui concetto del bene, del valore o di Dio. 

Recentemente è stata proposta una formula perfetta per descrivere quei mores così diffusi nell’Italia di oggi da costituire il fondo stesso della “questione morale”: La libertà dei servi, di un piccolo libro prezioso per ricchezza descrittiva e acume diagnostico, da cui abbiamo tratto anche la citazione sull’ “enormità” del potere vigente. Un punto su cui torneremo.

Ma sul significato profondo di questi dati, e della questione morale, c’è, dicevamo, ancora molto da meditare. C’è una storia profonda che né le teorie politiche né quelle etiche della modernità hanno saputo decifrare, e che ci conduce alla situazione nella quale ci troviamo oggi. Una ragione per la quale questa storia profonda non è stata forse veramente compresa è che siamo abituati a pensare per comparti separati – etica, diritto, politica e le relative filosofie. Mentre la questione morale li attraversa tutti, proprio perché si genera dalle dipendenze fra mores, e diritto, in un circolo vizioso che ci sfida a ripensare invece, al di là di tutte le necessarie distinzioni, l’unità della ragione pratica.

E’ questa unità della ragione, o piuttosto questo insieme di dipendenze che legano morale, diritto e politica, ad essere presa di mira dalla nostra domanda, se sia veramente possibile una fondazione razionale del pensiero pratico. C’è a ben vedere un tratto comune a queste tre sfere della nostra vita: nessuna di esse esisterebbe, se non ci fosse il male – il male di cui siamo noi stessi responsabili. E quindi se non ci fossero cose che gridano vendetta al cielo, cose preziose e minacciate, torti, ingiustizie, esigenze….in una parola, disvalori e valori. 

Chiedersi se è possibile una rifondazione razionale del pensiero pratico equivale a chiedersi, infine, se c’è verità e falsità nel giudizio di valore. Se la conoscenza nelle questioni di valore è possibile. Se ci può essere ricerca e scoperta, crescita di coscienza e capacità critica, per tutti.  

La questione morale è – in estensione – la questione del possibile rinnovamento dei nostri mores, delle nostre abitudini quotidiane. Ma è in profondità la questione di cosa questo rinnovamento significhi, di quali siano le condizioni alle quali esso è possibile.

Il rinnovamento è possibile solo se, oltre la superficie mediatica in cui prevalgono (e entro certi limiti è inevitabile sempre) disinformazione e distorsione del vero, la nostra esperienza morale è invece fondamentalmente al vero. 

Non c’è virtù senza conoscenza, e tutte le categorie della conoscenza – ricerca, scoperta, critica, evidenza, dubbio, e soprattutto verità (questa “idea disposta all’infinito”) vanno ricollocate anche nel cuore della nostra esperienza morale. Questa è la tesi che attraversa l’intero saggio. Se i nostri argomenti sono convincenti, dovremo concluderne non solo che il rinnovamento è possibile, ma anzi che non c’è altra vita morale che nel perpetuo rinnovamento, vale a dire nella sempre rinnovata verifica che la persona è disposta a fare del giudizio di valore attraverso l’esperienza e la critica – come negli altri campi di ricerca di verità. E se la ragione pratica connette le sfere pubbliche dei valori e delle norme – etica, diritto, politica – allora senza perpetuo rinnovamento morale non può stare in piedi una civiltà fondata in ragione, una  cultura radicata nella coscienza critica delle persone invece che nella tradizione, nella religione, nell’autorità o nella forza.  Forse questo intendeva Musil quando scrisse: “Ciò che chiamiamo cultura non è soggetto a un criterio di verità, ma nessuna grande cultura può reggersi su una mancata relazione alla verita”.

 

 

 

Espressione utilizzata da Maurizio Viroli, La libertà dei servi, Laterza, Bari 2010

Ringrazio Pascal Engel per averla segnalata nella sua relazione al Convegno Internazionale della Società Italiana per la Filosofia Analitica, Genova 23 settembre 2004. Non è stato purtroppo possibile ritrovare il contesto della citazione.

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