
Come uscire dall’accidia politica
di Giorgio Ruffolo*
Anziché esprimere insoddisfazioni e lagnanze abbiamo tentato di indicare le principali questioni di una riflessione ad ampio raggio intesa a riscuotere la sinistra italiana dall’attuale stato di accidiosa confusione.
Niente di più che un indice di temi, inteso a pro muovere una discussione. Non una serie di tesi, ma un seguito di impegni, di iniziative, di proposte. Non un manifesto. Piuttosto, un’agenda.
Sui valori della sinistra non c’è niente da inventare. Restano anzitutto quelli tradizionali: libertà eguaglianza fraternità. Coniugati nelle forme della prassi democratica. Libertà degli uni condizionata solo da quella degli altri. Eguaglianza non come egualitarismo ma come equità. Fraternità come solidarietà sociale, a partire dalla comunità nazionale.
A questa triade classica del diciottesimo secolo si è affiancata quella emersa dalle tormentate esperienze dei due secoli successivi. L’aspirazione alla pace, al benessere individuale e sociale (welfare), al benessere ambientale. Nel loro insieme questi sei valori costituiscono il nucleo di un umanesimo socialista. Sul governo del mondo constatiamo il declino della supremazia dell’Occidente e in particolare, anche se non imminente, quello dell’egemonia americana. Non consideriamo probabile, e non auspichiamo l’avvento di una nuova egemonia nazionale. Nuove potenze mondiali stanno emergendo. La pluralità dei nuovi protagonisti renderà il governo del mondo al tempo stesso più difficile e più necessario.
Il problema fondamentale è costituito dalla fitta interdipendenza di un mondo sempre più globale e sempre più incompatibile con i principi e le pretese della sovranità nazionale assoluta. È improponibile nell’orizzonte visibile la realizzazione di un governo mondiale.
È necessario e possibile però battersi per la costituzione di un codice etico universale di diritti mondiali imprescrittibili (esempio, l’abolizione della pena di morte e il bando della tortura) sottratti alle sovranità nazionali e assistiti da impegni e da sanzioni internazionali .
È possibile e necessaria altresì l’assunzione di impegni mondiali comuni (dal bando delle armi nucleari al controllo della atmosfera) nell’ambito di un progetto mondiale di sopravvivenza della specie gestito, come sua prerogativa suprema, dall’Organizzazione delle Nazioni Unite.
In una accezione molto più pratica, il problema dell’integrazione politica internazionale è stato affrontato pragmaticamente con l’istituzione di riunioni sistematiche dei governi politicamente più ‘influenti’:G7, G8, e, seguendo l’inevitabile coinvolgimento di nuovi soggetti emergenti, negli ultimi tempi, G20.
Questa nuova forma di consultazione re c i p roca è ancora affidata a un processo pragmatico e informale, e pertanto per molti aspetti più efficace di quello faticoso e irto di ostacoli delle organizzazioni internazionali e sopranazionali formali (Nazioni Unite).
Prima o poi, tuttavia, un raccordo tra i due approcci sarà inevitabile, per la confusione generata dalla loro compresenza. A questo proposito, è opportuno che le forze che si richiamano ai valori e ai principi della sinistra, in tutto il mondo, e quindi anche in Italia, si impegnino nella ricerca di nuove forme di organizzazione mondiale che realizzino un’integrazione politica delle interdipendenze mondiali (una qualche forma preliminare di governo mondiale) su una base democratica.
In questo senso si sono già sviluppate ricerche sulla possibilità di fondare una nuova forma di democrazia cosmopolitica. Vi sono in proposito significativi contributi da parte italiana, che potreb bero utilmente essere sviluppati in una proposta di governabilità mondiale.
L’ impresa europea dopo una partenza folgorante, l’impresa europea si è accartocciata in una condizione di avvilente sterilità, incapace di evolvere com’è verso il naturale sbocco di un nuovo grande Soggetto politico, in una crisi di identità che condanna l’Unione a una performance politica nettamente inferiore al livello potenziale rappresentato dalle risorse della sua economia e della sua civiltà.
In questo stato di sterilità e di disagio l’Unione è stata spinta dal modo sciagurato nel quale sono stati gestiti i due processi paralleli della sua integrazione e del suo allargamento, sotto l’influenza interessata, ai limiti del sabotaggio, dagli Stati Uniti all’ esterno e soprattutto dall’Inghilterra all’interno. Superata alla meno peggio la crisi del Trattato di Lisbona, si pone oggi il problema di una revisione radicale delle strutture e delle politiche dell’Unione. È sintomatica della attuale condizione di scollamento politico la totale assenza di una intesa tra le forze democratiche e socialiste europee . Appare sempre più chiara, anzi ovvia, la conclusione che si deve trarre dall’attuale stato dell’Unione: un problema comune – l’integrazione economica europea – esige un potere comune. In sua assenza, il più importante passo sulla via dell’integrazione – la moneta unica – rischia di diventare causa del suo fallimento.
Senza un governo, un soggetto politico non esiste. Senza governo l’Europa cesserà di essere un soggetto politico. La prima e decisiva esigenza è quella di trasformare l’attuale Commissione in un governo democratico, a cominciare dell’esecuzione dell’articolo 17.7 del Trattato di Lisbona: «Il Consiglio Europeo propone al Parlamento Europeo un candidato alla carica di Presidente della Commissione». Secondo punto: la piena realizzazione dell’Unione economica, con una politica di bilancio e fiscale che integri la politica monetaria comune, con un bilancio che deve passare dall’attuale 1% del prodotto economico al 2,5% (proposta Mc Dougall del 1977) e con la facoltà di emettere Union Bond europei per finanzia e progetti di sviluppo comuni.
Terzo punto: l’adozione di una politica comune di sicurezza. Quarto punto: l’adozione di una politica estera comune, con l’unificazione delle rappresentanze dell’Unione nelle sedi e negli organismi mondiali.
Quinto punto (last, not least): l’apertura nel Parlamento europeo di un grande dibattito sulle finalità del progetto europeo. Un patto di nazioni che realizzi in tempi definiti la costruzione della Federazione degli Stati Uniti d’Europa, attraverso la votazione del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali e la sottomissione del testo finale ai cittadini in un referendum europeo.
Democrazia e capitalismo
Da gran tempo la sinistra riformista ha abbandonato il «programma mssimo» di abolizione del capitalismo. Ma ciò che oggi risulta abbandonato è anche il compromesso socialdemocratico raggiunto tra democrazia e capitalismo negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, e battuto successivamente da una cont roffensiva capitalistica che è culminata nella liberalizzazione dei movimenti di capitale e nella globalizzazione dell’economia che ne è seguita.
Il trionfo del capitalismo, sanzionato dalla teatrale scomparsa del suo rivale sovietico, è stato salutato come l’avvento di una condizione di crescita costante e immune dalle grandi fluttuazioni del passato. La grande illusione è naufragata nella grande crisi nella quale, malgrado ogni quotidiano annuncio, siamo ancora immersi.
La ragione profonda della crisi sta nel fallimento delle pro messe della crescita continua.
La crescita ha comportato innegabilmente l’uscita dall’area della povertà di una grande parte della popolazione mondiale, ma è stata accompagnata da (e ha provocato un) crescente aumento delle disuguaglianze economiche e sociali e un aggravamento drammatico delle condizioni dell’equilibrio ecologico.
I conflitti sociali devastanti che avrebbero potuto derivare dalla disuguaglianza sono stati evitati grazie a un ricorso massiccio all’indebitamento. In tal modo, all’uso ecologicamente dissennato delle scarse risorse naturali esistenti, si è aggiunto il ricorso su grande scala a risorse inesistenti: il risparmio delle generazioni future. Il conto della crisi è stato pagato finora dallo Stato, sostituendo il debito privato con il debito pubblico. Il costo della crisi è stato posto sulle spalle dei disoccupati licenziati dalle imprese e dei cittadini utenti della pubblica spesa, soggetta a tagli compensativi dell’indebitamento pubblico.
Niente è stato fatto finora per affrontare le cause fondamentali della crisi: la libera circolazione dei movimenti internazionali del capitale e il potere di creazione di moneta da parte del sistema bancario e finanziario.
La risposta alla prima esigenza può essere l’introduzione di una « Tobin tax» che penalizzi le speculazioni valutarie a breve e brevissimo termine. Una tassa modesta, dello 0,1% delle transazioni totali, frutterebbe 166 miliardi di dollari l’anno, il doppio della somma annuale necessaria per sradicare entro dieci anni la povertà estrema in tutto il mondo.
La risposta alla seconda esigenza comporta una scelta radicale:
demercificare la moneta, sottraendola al mercato finanziario per ricondurla alle sua natura di istituzione che svolge le due funzioni regolatrici, di unità di conto e dimezzo di pagamento.
Insomma: moneta come arbitro, non come giocatore. Ciò presuppone un accordo politico del tipo di quello proposto senza successo a Bretton Woods da Keynes, sull’istituzione di una moneta mondiale di conto gestita da una Banca che ne garantirebbe il potere d’acquisto in termini delle altre monete «reali» (tasso di cambio) e in termini di beni futuri (tasso d’interesse) .
Il nuovo sistema comporta la piena trasparenza dei movimenti di capitale. Qui si pone l’esigenza di un’altra innovazione radicale: la chiusura dei paradisi fiscali, che sono la fonte dell’evasione fiscale e della criminalità internazionale. Si calcola che il Plc (Prodotto lordo criminale) che ha nei paradisi fiscali la sua tana, ammonti a un quinto del prodotto mondiale.
(A tale proposito, appare scandaloso, e dovrebbe essere denunciato, che la Chiesa cattolica, da cui giungono ogni giorno messaggi di accorata denuncia dell’avidità materialistica, sia la sede di uno dei più potenti paradisi fiscali del mondo: insomma, caritas senza veritas). Finora, i governi si sono limitati a pubblicare «liste nere» dei paradisi fiscali successivamente e regolarmente ‘imbiancate’. La soluzione del problema è, puramente e semplicemente, la completa abolizione del segreto bancario. I redditi dei lavoratori non sono segreti. Non si vede perché debbano esserlo quelli dei «risparmiatori» (e degli speculatori).
Un altro aspetto di una risposta efficace alla crisi finanziaria è costituito dal ristabilimento delle regole di incompatibilità riguardanti i vari comparti dell’attività creditizia, introdotte in America dal New Deal e in Italia dalla legge bancaria del 1936. Il ristabilimento di rapporti funzionali corretti tra finanza ed economia deve inquadrarsi in una più ampia visione dello sviluppo economico che richiede un graduale ma decisivo passaggio dall’economia della crescita all’economia dell’equilibrio.
Questo passaggio non dovrebbe essere neppure posto in discussione in una civiltà dotata di ragione. La crescita a interessi composti è una pretesa dei conti in banca, non può essere una realtà dell’economia. Ogni processo di crescita comporta un punto di equilibrio. Un indefinito aumento di scala della produzione è inconcepibile. Prima o poi esso entra in conflitto con risorse e con spazi ‘finiti’. Mercati e tecnologie possono risolvere problemi di composizione, non il problema della s c a l a della produzione. Il costo dell’aumento, oltre un certo livello, della scala della produ z ione è misurato dall’esaurimento (depletion) e dall’inquinamento (pollution) delle risorse.
La regola ottimale di un sistema economico vitale dovrebbe essere quella di contenere il flusso delle risorse (produzione) entro i limiti del ricambio energetico e il deflusso dei consumi entro i limiti dell’assorbimento naturale dei rifiuti. Ciò che si dovrebbe massimizzare non è la quantità della produzione, ma la qualità dei servizi che essa rende. Minimizzare il mistico Pil? Ecco uno scandalo, per i dottori dell’economia, di portata non inferiore a quello a suo tempo suscitato dalle ragioni di Copernico e di Galileo nei dottori della Chiesa.
Una economia ‘stazionaria’, non ‘statica’, un lago aperto, non uno stagno chiuso, è la visione razionale di un’economia altrimenti votata all’autodistruzione. La conversione di un’economia sfrenata a un’economia ecologicamente regolata comporta formidabili problemi tecnologici, sociali, politici; e, non da ultimo, morali (che sono evocati dalla Chiesa cattolica: giustamente, non fosse per la gigantesca contraddizione già richiamata).
Questi problemi, tuttavia,possono essere affrontati e risolti:questa volta, certamente, con l’aiuto della tecnologia; ma soprattutto con quello della persuasione e dell’educazione politica, se solo la politica se ne occupasse.
Uno di questi grandi problemi di «conversione» è indubbiamente quello energetico .
La sinistra deve riconsiderare la sua posizione riguardo all’impostazione generale del rapporto tra Stato e Mercato. L’evoluzione dell’organizzazione economica comporta un superamento della netta contrapposizione tra i due «massimi sistemi». Negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito a una enorme espansione delle transazioni non mercatizzate e non monetizzate che passano attraverso lo scambio gratuito e la produzione associata e cooperativa. Come pure, allo sviluppo del «prosumerismo»: e cioè delle attività di autoproduzione e di autoconsumo. L’enorme importanza di questo «terzo sistema» (giunto ormai a circa la metà delle transazioni economiche complessive) è dovuta alla crescente incidenza della produzione di servizi, della circolazione dell’informazione e allo sviluppo delle tecniche di informazione istantanee.
Appare sorprendente l’indifferenza della sinistra cosiddetta riformista per questa riforma spontanea del sistema; e la totale assenza di una politica diretta a facilitarne lo sviluppo e a utilizzarne le immense potenzialità politiche e sociali.
Infine. Una riforma essenziale è quella che riguarda il modo di calcolare il reddito e la ricchezza del Paese. Insufficienze e contraddizioni dell’attuale sistema di contabilità nazionale sono ormai generalmente riconosciute,ma il sistema continua a essere adoperato quotidianamente dal discorso politico, che in tal modo travisa la realtà e altera la sua funzione. Perché proprio di un problema politico, non tecnico, si tratta. E sembra opportuno che la riforma della contabilità nazionale sia ‘politicamente’ orientata, nel senso di tener conto degli obiettivi economici e sociali, per verificarne la coerenza e il grado di realizzazione. Abbiamo più che mai bisogno di un ritratto fedele del nostro Paese. E di una chiara idea degli obiettivi e dei risultati dell’azione dei suoi governi .
L’Italia a un secolo e mezzo dalla sua unificazione si parla con insistenza,ma con superficialità, del cosiddetto declino italiano.
In realtà il quadro italiano è più complesso di quanto possa essere descritto con una formula così perentoria . L’economia italiana presenta, accanto a indubbi problemi di tradizionali arretratezze e di nuovi e preoccupanti arretramenti, condizioni di normale sviluppo e situazioni di eccellente performance in settori importanti dell’industria e dell’organizzazione sociale.
Il giudizio del declino rivela, più che una condizione oggettiva, che non corrisponde che in parte alla realtà, un malumore diffuso per l’incapacità della classe politica, di destra e di sinistra, al governo e all’opposizione, di trasmettere al paese idee chiare sui suoi progetti e, soprattutto, consapevole fiducia nelle rispettive leadership.
Non è consapevole fiducia il fanatismo populista che una parte del Paese esprime ancora per un personaggio a dire il meno singolare (si dovrebbe dire plurale, in ragione del suo spigliato eclettismo) e non è ragionata sfiducia il dileggio sistematico per una classe politica talvolta ingiustamente screditata . Il fatto è che a distanza di un trentennio dalla devastante crisi di quella che si usa definire come la Prima Repubblica e dal naufragio dei grandi partiti che l’avevano fondata, non si è mai più profilata l’immagine di una repubblica seconda. I partiti storici sono stati avvicendati da aggregazioni politiche del tutto prive di tradizioni, frutto di suggestioni pubblicitarie o di disegni freddi e opportunistici. Senza storia e senza progetti. Dunque, senza politica. Non c’è alle spalle (e per fortuna!) una guerra che abbia sconvolto il formicaio del Paese, provocando il brulicare di energie sommerse; ma solo il naufragio di una classe politica stanca. E quanto al contributo che in tempi di crisi politica avrebbe potuto provenire dalle altre élite, sindacali e imprenditoriali, anch’esso si è rivelato carente per non dire inesistente, nel primo caso per degenerazione burocratica, nel secondo per la tradizionale irresponsabilità politica di una classe imprenditoriale non priva di «spiriti animaleschi», ma, disperatamente, di immaginazione.
Di qui un senso generale di accidia. E di qui i due pericoli reali che il Paese corre, a pochi anni dalla celebrazione della sua unità.
In questi centocinquant’anni questo Paese non si è mai riconosciuto in un vero sentimento dello Stato. Ma piuttosto, questo sì, in una passione politica che animava i partiti in una misura ignota ad altri Paesi con cui si confrontasse. I partiti, non lo Stato, hanno costituito la vera anima della politica italiana. Questa passione si è spenta. I partiti si sono isteriliti. Toccherà allo storico spiegare le ragioni di questo degrado. Il fatto è che alla passione politica è subentrata una privatizzazione populistica della società italiana. Privatizzazione, nel senso del suo sbriciolamento in un mucchio di granelli di sabbia privi di capacità coesive che non andassero al di là della sempiterna famiglia italiana. Populismo, nel senso in cui il mucchio di sabbia è esposto a venti emotivi e a suggestioni demagogiche. Non più, come nel fascismo, quelle della potenza guerriera. Ma quelle del facile arricchimento, del gioco, del tifo, del gallismo, dello spettacolo.
Il pericolo che da questo processo incombe sul Paese è la disgregazione della sua già malcerta identità.
Questa minaccia di disgregazione si manifesta anzitutto lungo la crepa della debole saldatura territoriale: la minaccia della separazione tra il Nord e il Sud, ingigantita dalla crisi della Repubblica. Questi sembrano dunque i due pericoli che la sinistra, una volta che li abbia seriamente riconosciuti, distogliendosi dalle sue beghe, dovrebbe fronteggia re. La sinistra italiana porta nella sua storia, insieme a molti errori funesti, il retaggio di un passato autentico e glorioso di solidarietà. La sinistra può investire quella sua storia identificandosi nella forza più rappresentativa
dell’unità nazionale. Non retoricamente, però. L’occasione concreta è rappresentata dall’istanza federalista rinata, fuori della sinistra, nel solo movimento che, sia pure in modo rozzamente campanilistico e a volte culturalmente grottesco, presenta oggi i segni di una passione politica. Il federalismo leghista si è identificato nella proposta del federalismo fiscale, ispirato, è vero, molto più da intenti separatistici che solidali. Senza re s p i n g e re pregiudizialmente le esigenze reali di questa proposta, che pure esistono, si tratta di travasarla in un grande disegno che riprenda i messaggi federalisti risorgimentali (Cattaneo, Salvemini, Dorso) per rifondare l’unità nazionale sulla base di un patto costituzionale tra il Sud e il Nord del Paese. Ciò comporta la ricomposizione delle Regioni, un istituto che nell’insieme è mancato gravemente alle aspettative in due grandi soggetti il Nord e il Sud, federati sulla base del patto, del quale un Presidente della Repubblica eletto dal popolo sarebbe il garante, e la Capitale romana, come scriveva Cattaneo, il maestoso luogo di incontro.
La privatizzazione ha investito in pieno la politica, con la conseguenza di una dilagante proliferazione del malaffare. La corruzione di Tangentopoli aveva un pretesto, per quanto in larga misura ipocrita: il finanziamento, illegale, ma apparentemente inevitabile, dell’attività politica.
L’attuale dilagante corruzione non ha neppure questo pretesto. Ieri l malaffare tentava di giustificarsi con la politica. Oggi la politica è apertamente utilizzata per finanziare il malaffare.
Il discorso è diverso per le forze di governo e per quelle di opposizione.
Non che le prime siano tutte coinvolte. Nella grande maggioranza il personale politico della destra è tanto ‘onesto’ (meglio: incolpevole di grandi disonestà) quanto quello della sinistra. Ma la destra ha la responsabilità culturale del fenomeno.
Quando non un qualunque esponente, ma il Capo della destra descrive la funzione fiscale dello Stato come un furto («mettere le mani nelle tasche degli italiani») si capisce che l’evasione fiscale sia giustificata come comprensibile difesa dal furto e non come «il mettere le mani nelle tasche dello Stato»: ciò che puntualmente avviene da quelle parti.
Come nei riguardi delle tasse, anche nei riguardi della Giustizia
il messaggio è quello di riconoscerla solo a patto che non tocchi i propri interessi, e di sottrarsene in caso contrario. E anche qui l’esempio viene dall’alto.
Quanto all’opposizione. Essa si limita a lasciare il compito di combattere la degradazione criminosa della politica alla magistratura, senza sospettare che il compito di contrastarla è un dovere primario della politica.
Questa abdicazione di responsabilità ha anche effetti pratici devastanti. La infinita lunghezza dei processi fa ristagnare situazioni di dubbio e confusione, aggravando il discredito della politica nella pubblica opinione.
Il principio sacrosanto per cui l’innocenza deve valere fino a prova contraria è utilizzato dalla consorteria degli azzeccagarbugli, particolarmente fiorente in questo paese, per eternare le condizioni di sottrazione ai giudizi. L’aumento del numero dei sospettati aumenta il peso del sospetto, riducendo la credibilità della giustizia, che è la base della politica, e aumentando l’impunità degli imbroglioni, a cominciare dai più eminenti. I quali sono spinti dalla pretesa di impunità assoluta a esigere dai loro ‘burattini’ nelle aule parlamentari leggi di repressione della libertà d’informazione sui crimini dei quali sono accusati.
Non è possibile porre un qualche rimedio a questo stato di cose? E a che serve un’opposizione se non fa di tutto per opporsi a questa deriva della democrazia?
Un modo concreto può essere quello di pro m u o v e re una riforma del costume politico.Non si tratta di prediche in ultima della istituzione di una Commissione parlamentare bicamerale che indaghi, non sulla fondatezza o no delle accuse, che resta ovviamente compito della magistratura, ma sul loro grado di credibilità, che per un rappresentante del popolo deve essere misura sufficiente della sua dignità politica. Vi sono tutte le possibilità di stabilire condizioni di ammissibilità delle indagini che ne evitino gli abusi; e misure di riparazione dei danni sofferti per chi fosse oggetto di giudizi di credibilità poi smentiti dalle sentenze
della magistratura.
Non si deve pre t e n d e re da un uomo di governo e da un onorevole deputato che si ponga all’altezza di ‘onorabilità’ della moglie di Cesare, ma neppure che scada a quello di una ‘escort’ politica.!
-
*In collaborazione con la rivista Argomenti umani
diretta da Andrea Margheri