Ma dov’è finito il Dio che allieta la mia giovinezza?
(Una riflessione a margine del Festival Con-vivere: Europa - quale futuro? Carrara, 10-12 settembre 2010)
di Roberta De Monticelli
Non è per niente cristiano il mito della “radici cristiane” dell’Europa. Perfino nella messa cattolica c’era un momento splendido – ma che fine ha fatto? – in cui il celebrante diceva: “Introibo ad altare dei – ad deum qui laetificat juventutem meam”. Il Dio cristiano è questo Iddio che riaccende la nostra giovinezza, che la ravviva o la resuscita. Non ha niente, o ben poco, a che fare con il passato, con la memoria, con la tradizione, con le radici. E’ un Dio delle fioriture e delle fronde, anzi dei frutti da cui giudicheremo la bontà dei vivi, e del grano di senape, che sembrava nulla e un giorno, improvviso, è immensa chioma di foglie, folta di grida e canti, dimora a tutti gli uccelli del cielo. Poche cose sono più certe, fra le poche comuni ai Vangeli e alle Epistole di Paolo, che le immagini e le parole del rinnovamento – della rinascita, del soffio, del respiro, della liberazione, della vita che è ora, dei morti che debbono seppellire i loro morti. E poi del lasciare casa e padre e madre, anzi dell’”odiarli”, dell’andare per terre straniere e oltre i mari, della fioritura di lingue straniere che si accendono nella mente come scintille d’intelligenza nuova, del non volersi salvare l’anima propria ma anzi perderla – perché solo chi l’avrà perduta l’avrà infine salva. Renovatio mentis, conversione, vita nuova, ri-creazione: non c’è tema più caratteristico di questa spiritualità dell’oggi, che disdegna la conservazione del patrimonio e delle eredità di affetti quanto l’indefinito rinvio del Mondo Nuovo nelle promesse messianiche. Un giorno qualunque, un mattino azzurro di settembre in una città toscana, o una sera d’inverno nella neve dove cammina scalzo il pellegrino russo: una svolta del cuore e sei già di là, nell’assoluto, come i tram di Majakowski svoltavano nel Socialismo. L’assoluto, che non è affatto di là, ma è una rivoluzione che nulla rivela e tutto rileva dell’aldiqua – una trasvalutazione di tutti i valori, un vedere il mondo con gli occhi di Dio, e portarne il peso con spalle e braccia d’uomo. Hodiernum tuum, aeternitas. L’eternità è l’oggi di Dio – dunque è qui e ora. Ogni punto del mondo, ogni sua ora è “il punto pullulante dell’origine continua”, come scriveva il poeta cristiano Mario Luzi. In ogni punto del mondo e in ogni istante è in atto la creazione – e la creazione passa attraverso di noi, soli capaci di novità, noi che rompiamo i cicli eterni del cosmo e vi facciamo irrompere la storia. Noi imprenditori d’essere, nel bene e nel male, che “fummo fatti perché ci fosse il nuovo”, perché ogni momento di ogni vita fosse un possibile inizio. E come potrebbe essere attaccata al mito delle radici una religione che ha nel suo cuore oscuro e però folle di speranza il concetto di redenzione? Nel bene e nel male, anche ogni momento di risveglio della spiritualità che possiamo dire cristiana sa di liberazione e nuova intelligenza, di rigetto del passato e delle sue catene – “l’uomo vecchio”, e addirittura di annuncio di nuovo millennio. Ma perfino nella più umile e sommessa preghiera del mattino c’è questa sorta di familiarità con la gioia creatrice, il vento che si leva, la nascita dei mondi: “tu fai cieli nuovi e terra nuova…”
Fin dall’inizio della storia che fu poi detta “cristiana” però, due porci sono entrati nell’anima nostra di poveri ossessi che nessuno ancora ha liberato: uno di tonaca nera, il male clericale; l’altro di mano rapace, il male del potere temporale e secolare. Sono le bestie che hanno nei secoli assalito e spesso distrutto le due ali dell’anima che anche un analfabeta riconoscerebbe come veramente “cristiana”: la laicità e la gratuità. Nei nostri anni confusi, abbiamo dovuto aspettare un critico caustico e angelico come Marco Travaglio, per sentirci dire la sola cosa cristiana che invano aspettavamo da monsignori e cardinali e papi, a proposito del crocefisso nelle scuole: “Gesù Cristo è un fatto storico e una persona reale, morta ammazzata dopo indicibili torture, pur potendosi agevolmente salvare con qualche parola ambigua, accomodante, politichese, paracula. È, da duemila anni, uno “scandalo” sia per chi crede alla resurrezione, sia per chi si ferma al dato storico della crocifissione. L’immagine vivente di libertà e umanità, di sofferenza e speranza, di resistenza inerme all’ingiustizia, ma soprattutto di laicità (“date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”) e gratuità (“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”)”.
Non può essere che opera loro l’immane confusione che ha fuso in un mostro idiota i due sentimenti che solo la loro distinzione rende giusti e compossibili: l’amor di patria – e il sogno di un Iddio. Quanto la fierezza del proprio passato, in quello che ha di buono o di grande, è una virtù civile e politica – e un po’ di senso dell’appartenenza europea è l’ultima salvezza possibile di questo sventurato Paese – tanto è un povero e interessato vizio ridurre il soffio dello Spirito all’ossessione delle radici, l’eterno alla storia di una regione del mondo e la renovatio mentis alla superstizione delle reliquie.