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Le elezioni regionali, 

la supposta imprevedibilità del risultato e l’astensione

di Mauro Visentin

Le ultime elezioni regionali hanno sancito l’ennesima sconfitta della sinistra – e, in particolare, del suo partito maggiore e più rappresentativo, il PD – ad opera della destra berlusconiana. Questo è un dato di fatto. Come tale, almeno in politica, innegabile. Ma a questo dato di fatto si sono poi sovrapposte interpretazioni, spesso interessate, come sempre accade in casi del genere, a portare acqua al proprio mulino. E chi più ha mostrato di attingere, a questo fine, ad un repertorio retorico debole e poco fantasioso è stato, dispiace doverlo riconoscere, proprio chi più aveva bisogno di risultare efficace in una simile, scontata operazione di maquillagepost-elettorale, ossia Pierluigi Bersani. Sebbene lui stesso non abbia poi potuto evitare di riconoscere onestamente l’insuccesso del partito nella successiva tornata di ballottaggi per il rinnovo della carica  di sindaco in un certo numero di comuni, tra i quali anche un capoluogo significativo del Nord-Italia come Mantova, retta, prima, da un sindaco di centrosinistra e passata ora al centrodestra, cosa che non riveste solo un’importanza politico-amministrativa, ma, data la collocazione geografica di questa città, anche politico-simbolica. Oltre alle interpretazioni tendenziose, difensive o autoassolutorie, tuttavia, ce ne sono state altre effettivamente interessate a decifrare e comprendere le ragioni del successo o dell’insuccesso degli attori politici che si sono contesi, con diversa fortuna, la posta in gioco. E queste sono proprio quelle la cui insufficienza colpisce di più perché mostra chiaramente il ritardo della maggior parte degli osservatori nell’adeguare le proprie categorie di “lettura” al mutato clima politico e soprattutto alla nuova realtà sociale e culturale di cui questo clima è in parte lo specchio e in parte il prodotto. L’insufficienza di queste analisi appare particolarmente grave nella sorprendente tendenza a confondere ed equivocare il significato dei dati più eclatanti tra quelli emersi dall’esito del voto, che sono: l’astensionismo, l’imprevedibilità del risultato e il successo della Lega Nord.

L’astensionismo c’è stato, ed era un fenomeno decisamente atteso. Per varie ragioni. 1) Perché in linea con una tendenza generale delle democrazie occidentali europee (negli Stati Uniti si tratta di un atteggiamento consolidato e diffuso nel corpo elettorale già da decenni), di cui le recenti elezioni in Francia avevano rappresentato una significativa conferma. 2) Perché il centrodestra, che era inizialmente accreditato di un consenso in crescita, aveva commesso alcuni errori piuttosto spettacolari (come la fallita presentazione delle liste a Roma e nella provincia, con il conseguente, maldestro tentativo di risolvere il problema per mezzo di un decreto che aveva tutta l’aria di una prevaricazione, oltretutto inutile – aspetto che le vicende successive, fino alla sua bocciatura alla Camera, hanno ampiamente dimostrato – e perciò alquanto goffa; come i litigi fra le due componenti costitutive del PDL sulle candidature e la concorrenza malcelata con l’alleato principale al nord; come il tentativo di candidare alla carica di Governatore della Campania un proprio esponente inquisito per legami con l’ala più violenta e arrembante della camorra; come, infine, il bavaglio imposto alla televisione pubblica che poteva in qualche modo creare sconcerto negli elettori liberali anche fra i moderati. L'elenco può limitarsi a questi, che sono, probabilmente, gli errori più offensivi del comune senso – politico – del pudore e comunque quelli che hanno avuto maggior risonanza mediatica). 3) Perché i sondaggi confermavano una disaffezione crescente dell’elettorato di destra (quello, negli ultimi tempi, più convinto e “fidelizzato”). 4) Perché proprio in Francia, in un contesto non troppo diverso, gli elettori di Sarkozy avevano mostrato, astenendosi,  tutta la loro sfiducia e delusione per le mancate promesse di un leader che aveva suscitato nell’elettorato di destra consensi simili (benché espressivi di una situazione politica molto meno patologica) a quelli suscitati in Italia da Berlusconi.

Per le ragioni appena elencate l'astensionismo, nelle aspettative dei principali osservatori, avrebbe dovuto penalizzare soprattutto la destra. Da qui l'imprevedibilità che tutti hanno colto nell'esito elettorale, visto che esso ha, invece, confermato la tendenza alla crescita politica di questo schieramento, tendenza già da tempo in atto come trend di lungo periodo.

Il successo della Lega era preventivato, anche se, forse, non nelle proporzioni in cui si è realizzato, soprattutto per la conquista del Piemonte, tutt'altro che scontata, e strappata, infatti, per pochi voti. Ma è stato letto da molti come l'inizio di un mutamento destinato a consolidarsi nei rapporti di forza interni al centrodestra.

 

L’astensionismo, a prescindere dalle altre forme di non-voto (ossia dalle schede bianche e da quelle intenzionalmente annullate dall’elettore), è senza dubbio molto cresciuto: addirittura più, sia pure di poco, di quanto sia cresciuto il raggruppamento politico che ha visto aumentare in misura maggiore i propri consensi, cioè la Lega. Ma l’esito del voto si può definire effettivamente così imprevedibile come per lo più si è ritenuto e si ritiene che sia stato? Indubbiamente, nessuno o quasi lo aveva previsto: dopo una fase in cui tutti pensavano che il centrodestra avrebbe recuperato gran parte dello svantaggio che sul piano del governo delle regioni esso aveva accumulato nel 2005 nei confronti del centrosinistra, gli errori plateali e anche un po’ grossolani che la maggioranza ha commesso nel corso della campagna elettorale (e dei quali abbiamo, più su, riportato un breve elenco) avevano finito col convincere un po’ tutti, a destra e a sinistra, che questo recupero non ci sarebbe stato o sarebbe stato molto contenuto. E’ accaduto l’opposto. Ma questo significa che ciò che non si è previsto fosse effettivamente imprevedibile? A ben vedere significa solo che si era previsto male. O meglio, che si era previsto solo uno dei due aspetti che il fenomeno atteso – e che si è effettivamente prodotto – consistente nell’aumento considerevole della percentuale degli astenuti ha fatto emergere, ma non l’altro. Vale a dire: si è previsto l’aspetto riconducibile alla disaffezione degli elettori di centrodestra rispetto al Popolo delle Libertà (fenomeno che l’esito del voto ha confermato), non quello in cui ha trovato modo di riflettersi una disaffezione uguale e contraria (percentualmente, anzi, forse addirittura più accentuata) degli elettori di centrosinistra nei confronti della loro parte politica. In ultima analisi, ad un PD accreditato nei sondaggi di almeno il 28% dei consensi ha corrisposto un PD che nei fatti non ha raccolto più del 26%, ribadendo il risultato, un po’ deludente, delle europee. Il PDL, in effetti, ha perso molto di più, sia rispetto alle precedenti regionali, sia, in maniera addirittura alluvionale, rispetto alle politiche del 2008 e alle europee del 2009. Ma il recupero dei voti persi dal partito berlusconiano da parte della Lega al nord e di qualche lista locale fiancheggiatrice nelle regioni del centro-sud (come è accaduto nel Lazio, dove, non per caso, l’aumento degli astenuti è stato superiore a quello già assai significativo che si è avuto in media nel resto del Paese) ha fatto sì che per l’alleanza nel suo complesso l’emorragia di consensi sia stata contenuta e il risultato finale abbia potuto assumere l’aspetto (non illusorio o ingannevole, ma incontestabile) di una vittoria. In altri termini: non è che il PDL non abbia perso voti: è che ne ha persi anche il PD. Inoltre, mentre la Lega ha recuperato gran parte dei voti persi dal partito di Berlusconi, gli alleati del PD e, in generale, i partiti di sinistra, hanno recuperato assai meno o addirittura (rispetto al 2005) sono percentualmente arretrati, cioè hanno perso anch’essi.

Di conseguenza, non è vero che il risultato delle nostre regionali mostri una controtendenza rispetto a quello delle amministrative francesi. Questa affermazione rispecchia solo il fatto, importante, ma, rispetto al fenomeno che qui intendiamo sottolineare, tutto sommato abbastanza estrinseco, che da noi ha vinto la destra, al di là delle Alpi la sinistra. Se si osserva l’esito del voto con più attenzione, tuttavia, si nota che qui come in Francia hanno perso i partiti che hanno deluso i propri elettori. Nello stesso tempo l’indicazione che emerge dalla consultazione italiana non meno che da quella francese è che l’elettorato “fidelizzato” di destra e di sinistra può astenersi o votare un’alternativa della stessa area politica, non spostarsi da uno schieramento all’altro (salvo casi marginali che nel nord-Italia possono interessare soprattutto le ali estreme dei due schieramenti – il passaggio di un elettore dell’estrema sinistra alla Lega è molto più facile e, in fondo, comprensibile se si guarda alle dinamiche che ispirano le scelte radicali ed estremistiche, che quello di un elettore non occasionale del PD al PDL o viceversa – e salvo, ovviamente, quel fattore distorsivo del consenso elettorale che è rappresentato dal controllo sul voto, in certe aree d’Italia, della criminalità organizzata). Questo significa che tutti discorsi degli analisti e degli esperti sui cosiddetti “flussi elettorali” sono vaniloqui insensati? No davvero. Significa solo che essi riguardano una certa quota, numericamente non troppo significativa, di elettori moderati, che possono, a seconda dei casi, astenersi oppure votare per l’uno o per l’altro dei due schieramenti. Se oggi i rapporti di forza in termini quantitativi o di consenso tra centrodestra e centrosinistra si aggirano intorno a percentuali che, quanto alla distanza che le separa, oscillano entro una banda variabile fra il 5 e il 10%, questo significa che uno spostamento del 2-3% di votanti da uno schieramento all’altro, come pure la decisione di partecipare al voto per sostenere uno schieramento piuttosto di un altro da parte di un 5% di elettori che altrimenti si sarebbe astenuto può, a parità delle restanti condizioni, determinare la vittoria di uno dei due contendenti. In certi casi, anche senza che le due eventualità si sommino, in altri solo se all’una si aggiunge l’altra. 

“A parità delle restanti condizioni”. Ossia, sempre che una parte degli elettori fidelizzati di ciascuna coalizione non decida di astenersi. Quindi, per vincere, centrodestra e centrosinistra devono puntare: a) a non scontentare il proprio elettorato di riferimento e b) a guadagnare consensi in quella piccola ma determinante percentuale di moderati di centro che possono votare, potenzialmente, sia l’uno sia l’altro schieramento oppure astenersi (scelta, quest’ultima, che nelle più recenti tornate elettorali sembra essersi imposta in misura crescente tra gli elettori che rientrano nella tipologia indicata). Un compito che si presenta particolarmente arduo per il centrosinistra, in quanto fare le due cose insieme è, per questa parte politica e con un elettorato come quello italiano (di sempre, ma, in particolare, di oggi) molto più difficile di quanto la stessa cosa non risulti essere per il centrodestra. La questione l’ho già ripetutamente proposta sulle colonne di questa rivista e non vorrei risultare monotono ritornandoci ancora una volta: essa riguarda, in primo luogo, la diffidenza costitutiva (in altre occasioni l’ho definita “antropologica”) che caratterizza in Italia l’atteggiamento dell’elettorato di centro nei confronti della sinistra, e riguarda poi, in secondo luogo, il persistente conservatorismo ideologico di una parte cospicua dell’elettorato tradizionale (“fidelizzato”, appunto) di questa parte politica, che rende difficile, come ho già detto, ai limiti dell’impossibilità, il tentativo di soddisfare insieme entrambe le esigenze di cui sopra (una sorta di “quadratura del cerchio”). Al di là dei tatticismi, degli improbabili tentativi di inseguire al nord la destra leghista sul suo terreno, dei programmi fatti per far coesistere tutto e il contrario di tutto, della tenace ma sclerotica idea che si possa vincere con accordi di vertice tra partiti diversi e dalle identità eterogenee o addirittura incompatibili (idea dalla quale non sanno distaccarsi alcuni dirigenti la cui cultura politica appare oggi precocemente obsoleta di fronte al rapido avanzamento, anche da noi, dei processi di massificazione e mediatizzazione degli elettori e a causa dell’incapacità che essa mostra di dotarsi delle categorie necessarie per comprendere e interpretare la novità rappresentata da questi processi e dalle dinamiche che innescano nelle motivazioni del corpo elettorale), al di là di tutto questo, il problema di cui il centrosinistra deve finalmente decidere di farsi carico è quello di individuare i modi attraverso i quali sia possibile indurre, nell’elettorato, un processo virtuoso di crescita della coscienza politica e civile, simile a quello che si è imposto storicamente in epoche diverse nei maggiori paesi d’Europa, dove è ovunque, ormai da tempo, consolidato. 

Nei paesi nei quali una simile coscienza si è prodotta essa è stata ottenuta dall’assuefazione al principio generale dell’osservanza dei diritti altrui e delle regole che discende da un sistema istituzionale forte, radicato, efficiente e rispettato, in grado di consentire, attraverso un efficace meccanismo di contrappesi, all’esecutivo di decidere senza forzature unilaterali e senza imporre il prepotere della maggioranza alla minoranza, al legislativo di legiferare, controllando l’esercizio del potere di governo, e alla giustizia di sanzionare i reati, da chiunque siano commessi, vincolando i responsabili della conduzione politica della nazione, nell’esercizio del loro potere, allo stesso rispetto delle leggi cui sono tenuti gli altri cittadini. In un sistema di questo tipo le istituzioni contano più (e agli occhi di tutti) degli individui e dei partiti. Non accade questo da noi, e i progetti di riforma che si sentono ventilare da parte del centrodestra sembrano mirare esattamente all’opposto: a investire il governo di un potere carismatico e plebiscitario, senza contrappesi istituzionali, con un legislativo docile strumento nelle mani dell’esecutivo e una giustizia impotente nei confronti di chi ha la massima responsabilità politica. Tutto questo non può che inquietare le coscienze liberali del paese, siano esse di destra o di sinistra. Non è un caso se, dopo un periodo lungo e travagliato di schermaglie fra il Capo del Governo e il Presidente della Camera, subito dopo una tornata elettorale amministrativa vinta, contro i pronostici, dal centrodestra, le fughe in avanti e le forzature della Lega riguardo al percorso della riforma istituzionale hanno indotto Gianfranco Fini ad uscire allo scoperto dando luogo ad una frattura senza precedenti nella casa comune, recentemente inaugurata, di berlusconiani ed ex aennini. Il Presidente della Camera sembra attualmente l’unico, nel centrodestra, ad avere il senso dello Stato e a sentire il bisogno di dare vita ad una destra europea, di stampo liberale. Il problema è se oggi esista lo spazio, in Italia, per un progetto di questo tipo. E la risposta sembra essere negativa. La sensazione, nel momento in cui le cose appaiono sul punto di precipitare, è che Fini sia stato costretto ad una prova di forza dalla quale difficilmente potrà uscire politicamente indenne (anche se il suo intento era forse solo quello di conquistare spazio mediatico per la sua proposta, gettando scompiglio fra coloro che                      nel suo schieramento lo avversano, e, entro questi limiti, può darsi che l’obiettivo sia stato centrato). La difficoltà con la quale la posizione del Presidente della Camera si direbbe destinata a scontrarsi consiste soprattutto nel fatto che le sue dichiarazioni, forse per la volontà di marcare la distanza con la Lega, da una parte, e con il Presidente del Consiglio, dall’altra, lo hanno spinto su un terreno del quale è difficile riconoscere il profilo autenticamente conservatore, senza contare che per un profilo simile non si direbbe che l’elettorato italiano abbia, al momento, un interesse ideologico sufficiente a consentirgli di distinguere fra le posizioni opportunistiche della maggioranza degli esponenti della coalizione di governo e quelle più nutrite di idee e ragioni dell’ala minoritaria che si richiama al Presidente della Camera. Da questo punto di vista, il problema di Fini è simile a quello del centrosinistra: arrivare ad una riforma delle istituzioni che non sia una scatola vuota fatta solo per coprire il desiderio di avere le mani totalmente libere che da sempre contraddistingue l’atteggiamento insofferente di Berlusconi nei confronti delle regole, delle garanzie  e dei vincoli istituzionali, ma serva ad alimentare, con il tempo, un processo di evoluzione e crescita della coscienza pubblica volto nel senso cui accennavo prima. Tuttavia, da questo processo (la cui lunghezza è difficilmente prevedibile) Fini potrebbe uscire leader di una destra europea solo se nel frattempo avrà saputo dotarsi di strumenti culturali e di un’identità ideologica caratterizzati da un tratto più marcato nel senso della conservazione e del richiamo ai valori etico-politici che sono tipici della corrente tradizionalista del pensiero continentale. Si può, per esempio, avere una posizione liberale di destra (cioè più orientata a garantire il rispetto della tradizione) anche se si sposa l’ideologia dell’efficienza dello Stato e della modernizazione dell’economia (come ha fatto in Francia Sarkozy): si tratta solo di porre l’accento più sulla crescita che sulla sostenibilità ambientale e sociale di quest’ultima. Ugualmente, una destra europea può avere sulle questioni che lo sviluppo della scienza moderna solleva a livello di etica religiosa un atteggiamento più cauto della sinistra, senza per questo cadere nelle forme illiberali e para-confessionali che, nel loro oltranzismo opportunistico, esprimono gli esponenti dell’attuale maggioranza di  destra in Italia. Ma, ripeto, il serrato e tuttavia civile confronto che deve stabilirsi tra una destra di questo tipo e una sinistra liberal e occidentale richiede, perché la sua possibilità si realizzi, delle condizioni delle quali, al momento, non si intravvede, da noi, neppure lontanamente il possibile maturare, e che del resto, in modo, stando ai suoi interessi, molto lucido, la destra berlusconiana e leghista lavora per rendere impossibili. Il fatto, tragico o – a seconda dei gusti, del sarcasmo e dell’ironia – tragicomico dell’attuale situazione politica italiana è che anche a sinistra solo una minoranza, e neppure una minoranza troppo coesa, si prodiga per realizzarle. Il resto del PD, con quella cieca volontà che è il prodotto dell’inviadia degli dei, i quali, notoriamente, tolgono la vista a coloro che vogliono condurre a perdizione, è impegnato a dare man forte alla destra (senza esserne consapevole) nell’intento di lasciare le cose come stanno (o addirittura come stavano) quando, per esempio, chiede una legge elettorale “alla tedesca”, prescindendo del tutto dal fatto che se lì ha funzionato – e ora nemmeno più tanto – è perché In Germania, al di là delle apparenti analogie, nella sostanza la storia politica e la situazione sociale sono state e sono molto diverse dalle nostre.

E con questo confronto giungiamo al terzo dei risultati eclatanti di queste regionali 2010, che, a mio parere, è stato letto in modo equivoco riguardo al significato politico che riveste: il successo della Lega. Questo successo è certamente una delle chiavi interpretative di quanto è accaduto nell’immediato dopoelezioni. Infatti, se Fini ha sentito il bisogno di uscire allo scoperto sarà stato per un complesso di fattori, alcuni personali o addirittura “personalistici”, come quelli che possono essere legati alla suscettibilità (d’altra parte, nel suo caso abbastanza legittima, tenuto conto della carica istituzionale che riveste), ma sarebbe un segno di grave misconoscimento della sua statura politica e della serietà delle questioni che lui ha sollevato (più che nella concitata direzione PDL del 22 aprile, nel corso dei mesi precedenti, in tutti i casi in cui è capitato – ed è capitato spesso – che Berlusconi o Bossi si siano lasciati andare a dichiarazioni ad dir poco “irrituali” nei confronti della magistratura, delle istituzioni di garanzia, dei problemi dell’immigrazione e quant’altro) pensare di poter ridurre tutto a questo. La molla politica che lo ha indotto a formalizzare il suo disaccordo rispetto alla gestione berlusconiana del partito e del governo ritengo sia stata proprio il successo della Lega e la preoccupazione che questo risultato potesse alterare gli equilibri politici interni al centrodestra, già abbastanza sbilanciati a favore di Bossi. Si tratta di una preoccupazione fondata? Per quasi tutti gli analisti politici la risposta è “sì”. Personalmente credo che si debba distinguere il pericolo rappresentato dal federalismo da quello rappresentato dalla Lega. Per un Paese come l’Italia, che ha alle spalle una storia di divisioni (ma non, come la Germania, di divisioni religiose e ideali, sempre controbilanciate da un forte senso di appartenenza – alla terra, alla lingua e alla cultura – che ha fatto sì che Goethe fosse venerato e riconosciuto con orgoglio da tutti tedeschi anche quando la Germania era territorialmente divisa, mente Dante, Manzoni e Leopardi non sono mai diventati patrimonio spirituale collettivo prima che l’unità d’Italia imponesse, attraverso la scuola pubblica, la loro importanza nazionale), per un Paese così diviso e privo di ogni identità che non fosse quella della famiglia, della parte politica (i Guelfi e i Ghibellini, i magnati e i popolani, ecc.) o, al più, del campanile (si pensi alla rivalità fra Pisa e Lucca) era impossibile che con l’unità territoriale si potesse conseguire, come per incanto, anche quella spirituale e morale. E, in effetti, questo non è avvenuto. Così come non è avvenuto neppure con l’avvento del retorico nazionalismo fascista, che nei fatti e nella sostanza ha ulteriormente diviso gli italiani, assai più di quanto non li abbia uniti (indipendentemente dal largo consenso di cui per un lungo periodo il regime ha goduto). E come non è avvenuto neppure con la Resistenza e l’avvento della democrazia repubblicana. Ad opporsi all’unità non semplicemente politica e formale ma veramente e autenticamente nazionale del Paese, è stato, oltre alla miopia, alla grettezza e all’egoismo delle classi dirigenti e al bassissimo livello culturale dei ceti popolari, il divario economico e sociale fra nord e sud, che nessun governo e nessun regime ha mai saputo nemmeno scalfire. Da questo punto di vista, il federalismo appare più come il veleno del definitivo cedimento alla tragica tendenza che abbiamo descritto, che come la medicina destinata a curare i mali del Paese. Anche il cosiddetto “federalismo fiscale” si presenta come un’incognita dal punto di vista dei costi (economici e sociali). Indubbiamente, una moltiplicazione dei centri di spesa è assai difficile che riduca i costi dei servizi a carico della collettività, come una moltiplicazione dei centri di riscossione delle imposte è altrettanto improbabile che contribuisca ad abbassare la pressione fiscale, e, dato il divario che sussiste tra le regioni italiane in termini di ricchezza e qualità della vita, tutto questo comporterà un aumento, probabilmente anche significativo, delle diseguaglianze territoriali e fra i cittadini. Sarebbe, pertanto, molto più sensato avviare una riforma di questo tipo in via sperimentale e su base volontaria, consentendo a ciascuna regione di scegliere fra il regime attuale e quello “federalistico”. Cosa che, in parole povere, vorrebbe dire, sostanzialmente, permettere ad ogni realtà locale di scegliere se diminuire la quota di imposte riscosse centralmente e destinate al bilancio dello Stato, aumentando quella riscossa localmente e destinata al bilancio della regione, con la conseguente messa a carico di quest’ultimo dei costi dei servizi non più coperti dai trasferimenti ad opera dell’Amministrazione Centrale. In aggiunta si potrebbe concedere al Lombardo-Veneto (che è, alla fine, l’unica area effettivamente interessata al federalismo) una più larga autonomia (sul tipo di quella di cui già godono le regioni a statuto speciale), come è stato fatto in Spagna e in Gran Bretagna, ossia in paesi con problemi analoghi ai nostri (anche se più seriamente motivabili, almeno dal punto di vista storico) derivanti dalla presenza su una parte del territorio nazionale di minoranze che accampano richieste indipendentiste. Ma sarebbe opportuno tenere sempre presente, anche avviando una fase sperimentale di questo genere, che si può dividere bene solo ciò che è da gran tempo saldamente unito, come nel caso dei paesi europei che ho appena citato. Mentre in Italia l’unità è, storicamente parlando, non solo molto più recente ma è anche sempre stata, almeno sin qui, un aspetto assai più formale che sostanziale della vita del Paese. Per tutte le ragioni indicate sarebbe ragionevole che gli entusiasmi neo-fedealisti di una parte della sinistra (convinta, non si sa bene perché, che inseguire la Lega sul suo terreno possa essere un modo vincente di rispondere alla sfida della destra nel nord, e soprattutto nel nord-est) si moderassero in attesa di vedere se non sia possibile articolare meglio e in un contesto più pragmatico quella parte delle istanze territoriali che si possono considerare legittime e che, probabilmente, per la maggioranza degli elettori del nord non si spingono fino al punto di volere quello che chiede la Lega (la quale, anche alle ultime regionali ha, in fondo, raccolto, nel complesso della sua area di riferimento, un ragguardevole, certo, 25% dei consensi, ma nell’insieme pur sempre una quota di suffragi che la mantiene, comunque, ancora a qualche lunghezza di distanza dalla quota del PDL).

In definitiva, tenendo conto del fatto che la base di consenso della Lega è fatta soprattutto da ceti medio-bassi e piccoli imprenditori e che il suo insediamento territoriale di elezione è rappresentato dalla provincia piuttosto che dai centri urbani; che l’isolamento e le piccole dimensioni, in un mondo globalizzato sono, probabilmente più penalizzanti della stessa inefficienza burocratica e che il malessere di quella parte del nord i cui umori sono meglio intercettati dalla Lega è fondato più sul pregiudizio che sulla realtà (a ben vedere, il nord Italia è una delle aree geografiche che, anche senza federalismo, è cresciuta di più in Europa nel corso del secondo dopoguerra), è ragionevole pensare che la minaccia rappresentata dalla crescita elettorale di questa formazione politica non sia così grave come per lo più si pensa e anche che il suo trend di crescita non sia irreversibile. A renderlo apparentemente tale sono, oggi, soprattutto tre fattori: 1) la debolezza e la pavidità dell’opposizione; 2) l’opportunismo cinico della maggioranza del PDL (e in particolare del suo leader, disposto, per accelerare la riforma della giustizia che a lui sta a cuore, ad offrire in cambio a Bossi mano libera sulla riforma federale dello Stato); 3) l’ottusità e la paura insensata (che è paura del diverso e paura, insieme, del futuro, ossia senso generale e indeterminato di insicurezza di fronte a qualcosa che appare indominabile) di una parte, la più retriva e culturalmente la meno attrezzata, dell’elettorato del nord.

Dato il comune interesse, al centrosinistra converrebbe formulare una proposta coerente (verosimilmente ispirandosi al modello francese, senza accomodamenti “all’italiana”) di riforma istituzionale e cercare un asse con Gianfranco Fini, probabilmente in grado di condizionare nell’attuale parlamento, le scelte del centrodestra su questo terreno. Il PD seguirà al riguardo la logica, o il suo istinto autolesionistico? I primi segnali sembrano indicare che la sua attuale leadership sia purtroppo orientata in questa seconda direzione.

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