Il silenzio
della Sinistra
di Alfredo Reichlin
La grottesca vicenda delle liste elettorali è la spia del tramonto di una intera era politica. Dopo anni di confusione tra pubblico e privato e di disprezzo per la certezza e l’uguaglianza della legge è la «casa comune», lo Stato, che si sgretola e rischia di caderci addosso. Ho vissuto tutte le traversie della Repubblica, ma questa è la crisi più grave del Paese dopo l’8 settembre. La denuncia è necessaria ma non sufficiente.
Come ne usciamo? Non pretendo di conoscere le risposte, mi chiedo però se siamo consapevoli che l’Italia è arrivata a un appuntamento difficile con la sua storia. Teniamo conto che l’armatura materiale e culturale, etica addirittura, del Paese, ridotta com’è al degrado e quindi all’impotenza sembra non più in grado di fronteggiare la sfida più grande: quella del mondo.
La questione è molto semplice e, al tempo stesso, drammatica. L’Italia come si colloca rispetto a un cambiamento così radicale della geopolitica e della geoeconomia? È questo il prezzo enorme che ci sta facendo pagare Berlusconi. Con questo demagogo a Palazzo Chigi e con la sua miserabile cultura che offende ogni valore etico-politico è molto difficile procedere alla necessaria ridefinizione dell’identità e del ruolo di questo Stato. Il quale, così come è, non regge essendosi formato e poi sviluppato in un contesto storico del tutto diverso, nell’epoca della potenza della vecchia Europa, a quel tempo «officina del mondo».
Non c’è più quello spazio per lo sviluppo italiano. In questa contraddizione sta la gravità dei nostri problemi e la necessità che il Pd ridefinisca a un livello alto il suo profilo ideale e la sua presenza nella società italiana. Più a destra, più a sinistra? » un vano quesito. Si tratta di fissare l’asticella dell’alternativa al livello di quello che è il suo problema cruciale di oggi: difendere il futuro degli italiani, il nostro attuale livello di benessere, il nostro contare qualcosa nel mondo. Oppure dobbiamo mandare i nostri figli a vivere e studiare all’estero? Se le cose stanno così, affrontare il problema della crisi dell’unità nazionale diventa la stessa ragione d’essere del Pd, ciò che ridefinisce la sua presenza e il suo ruolo storico. Cioè quella ragion d’essere che non consiste affatto come si continua a dire nella scelta tra non si sa quale neopartito socialdemocratico che minaccerebbe la «presenza cattolica» oppure non si sa quale partito del presidente. Chiacchiere politologiche sulla base delle quali non si formerà mai il collante di un partito nuovo, né si rendono credibili le sue politiche. Noi possiamo
cantare l’inno di Mameli quante volte vogliamo, ma se restiamo ai margini dei nuovi processi mondiali la Padania e il Regno del Sud non troveranno più le ragioni del loro stare insieme. Perché non parliamo al Paese con questa chiarezza?
La verità è che non siamo di fronte solo a un problema di modello economico ma alla necessità di mettere in campo una nuova cultura politica perché solo forti identità potranno affrontare con successo la fase sempre più aspra di competizione che si è aperta. Questo è il problema della sinistra, non quello (penso al ridicolo dibattito su Casini) di storcere il naso di fronte alle forze che cercano di rompere il blocco di potere berlusconiano. Certo che ci confronteremo. L’importante è che sia chiara in noi un’idea forte dell’Italia. Quale Italia dunque? Certamente un Paese sempre più integrato in un disegno europeo ma non come un’appendice passiva. Ricordiamoci che il solo terreno possibile di identità della nazione è il suo rapporto con la storia repubblicana, cioè con quella rivoluzione democratica, la sola che abbiamo conosciuto e che può restituire al Paese il senso del suo cammino e quindi un’idea del suo futuro. Altrimenti come usciamo da questa crisi? Con una nuova avventura cesarista? Con un ritorno al neoguelfismo sotto il protettorato del cardinal Ruini? Non so se la legislatura arriverà alla fine. So che diventa sempre più attuale una nuova alleanza tra le forze più vitali del lavoro, dell’impresa e dell’intelligenza creatrice disposte a battersi contro il grumo di tentazioni sovversive che attraversano la società italiana. Si è ben visto che in Italia non si difende la democrazia se si indebolisce il regime parlamentare. Se non tornano in campo, quindi, partiti veri, organizzati. Non uffici stampa del capo. E tuttavia partiti nuovi, meno assillati dalla gestione dell’esistente e più sociali, cioè più ‘culturali’, fattori di rinascita della società civile, capaci di ricostruire quei legami sociali e quei poteri democratici che la lunga ondata della destra ha distrutto. Richiamerei molto l’attenzione su questo problema cruciale (le precondizioni dell’economia) senza affrontare il quale diventa astratto il dibattito su come uscire da una crisi così profonda per mettere in campo un nuovo modello di sviluppo. Non credo a nuove formule magiche. Dopotutto conosciamo a memoria le ricette degli economisti. In buona parte sono anche giuste. Ciò che non sappiamo è altro. Conosciamo poco la nuova società italiana. Voglio dire che se tornassimo a riflettere sulle ragioni del «miracolo economico» dell’Italia anni Cinquanta del secolo scorso, più che rileggere l’Einaudi o il Vanoni di allora, dovremmo capire le ragioni per cui i partiti popolari riuscirono a mobilitare con quella vastità le energie di un popolo in gran parte costituito da contadini analfabeti. Quella fu la vera sostanza del «miracolo». Si rileggano le pagine di Becattini e si rivedano i film del neorealismo. Il miracolo fu il messaggio di fiducia e di speranza che la politica dettea quegli italiani. Ecco ciò di cui oggi abbiamo bisogno, di un nuovo partito che dia un messaggio analogo a questi italiani.
Vedo bene la difficoltà. A chi parliamo? Bisognerebbe tornare a leggere (come da anni non facciamo) la società italiana di oggi, quale essa è: le famiglie di oggi e la società ‘liquida’ dei consumatori che si ispirano ai valori berlusconiani e della Tv spazzatura, l’enorme esercito dei precari, i tanti che fanno i soldi illecitamente, i nuovi miserabili. Ma gli italiani sono sorprendenti e sono numerosi anche i nuovi italiani moderni, civili, preoccupati del bene comune.
Il compito del vertice politico è questo: rompere quel grande muro che paralizza l’Italia, e che consiste nella totale mancanza di una qualche identità di sé e del suo futuro. Secondo me questo è il punto. La sinistra può ripartire solo da qui. Perciò io dico partito nazionale, per indicare un partito che include, che si apre alle alleanze necessarie: certamente politiche ma prima ancora sociali. Fare un partito «nazionale» è dunque una grande impresa etico-politica e culturale. Essa parte dal rischio di una regressio-ne storica che incombe sull’Italia per rimettere in campo una ipotesi di futuro valida per ricchi e poveri, laici e cattolici, borghesi e popolari. È una impresa che non nasce sul vuoto ma si riallaccia a quello straordinario moto risorgimentale che – ricordiamolo – esplose dopo secoli di decadenza e che vide le élite del Paese, soprattutto giovani, impegnarsi in un insieme di slanci rivoluzionari che hanno dell’incredibile (l’impresa dei Mille, la Repubblica romana, le Cinque giornate di Milano, e poi, dopo il fascismo, la ricostruzione dello Stato democratico sulle rovine dell’8 settembre). Cose mai viste in Europa. L’Italia è anche questo strano Paese dotato di risorse morali grandi. Forse io esagero ma la mia impressione è che il Pd è tuttora
al di qua dei problemi. Pensiamo solo a un fatto. Dopo l’orgia della speculazione finanziaria mondiale, il grande quesito su quali basi rilanciare lo sviluppo, pena un impoverimento generale, non della Cina ma certamente di un Paese occidentale come il nostro, è restato del tutto aperto. Tutti dicono chebisognerebbe rilanciare i consumi. Ma quali consumi? La moltiplicazione dei soliti che hanno saturato le società moderne crea già oggi problemi enormi di sostenibilità. Quindi anche altri consumi, evidentemente. Ma è chiaro che ciò comporterebbe grandi trasformazioni sociali: nulla di meno che il riconoscimento di nuovi bisogni umani e quindi di nuovi modi di vivere. Persone come Joseph Stiglitz propongono una gigantesca redistribuzione del reddito per investire nei consumi collettivi. Ma allora pensare una nuova società dovrebbe tornare a essere un problema centrale per la sinistra, non solo un esercizio intellettuale. Questi sono solo accenni, per dire quanto sia necessario che la sinistra esca dal silenzio in cui è piombata da alcuni decenni. Se non ora quando la sinistra deve ricominciare a pensare? Io penso che si possa ormai dire che è arrivata quella «grande trasformazione» di cui parlava quasi un secolo fa Karl Polanyi, cioè quella crescente contraddizione tra la logica del capitale finanziario che tende a invadere non più solo i mercati delle merci, ma i significati e i valori della vita, i bisogni, le culture, i modi di pensare e di vivere, perfino le logiche delle imprese produttive (vale il suo prodotto oppure il suo valore di borsa?). Questo da un lato. Ma dall’altro il fatto che inesorabilmente lo sviluppo umano avanza e tende sempre più a far valere la sua autonomia. E quindi a condizionare a sua volta l’economia al punto di sovvertire i suoi meccanismi. Con la conseguenza che in una economia dell’immateriale il mercato che sembra così potente è in realtà sempre meno in grado di sovradeterminare lo sviluppo degli altri sistemi sociali.
Di qui l’enorme importanza della battaglia culturale e identitaria. Il bisogno di un nuovo movimento democratico profondo. Il problema non è alla portata della destra. La sinistra ha uno spazio enorme se però riesce a misurarsi anche col potere di condizionamento che è insito nella esplosione delle comunicazioni e nella loro perversità. Si è scatenata una forza inaudita e quindi un potere tale che può ormai ‘colonizzare’ i mondi vitali, le identità degli individui e dei luoghiche hanno fatto finora la diversità del mondo. Una forza che investe direttamente l’esperienza della vita quotidiana. Non per caso è emerso un nuovo tipo di intellettuale che non scrive libri e non produce opere di cultura ma la cui forza consiste nella ‘comunicazione’, cioè nella produzione dell’opinionismo. Questa è la novità. Non è l’informazione sulle cose reali ma è la messa in scena del teatro delle opinioni, una chiacchiera che si sottrae a ogni prova, che non esprime concetti né conoscenza, che riduce, di fatto, il confronto delle idee a insensati plebisciti. Qui sta la forza del potere. Essa consiste nel controllo della conoscenza: il potere dei poteri. Per cui dovremmo smetterla di considerare questo tema una chiacchiera per intellettuali perché esattamente questa – come ci ha insegnato Berlusconi – è la politica nell’epoca attuale. Non è più solo quel famoso mestiere del politico come professione di cui parlano quelli che hanno letto Max Weber. La base del potere poggia sempre più sul definire che cosa è la realtà, nell’imporre una visione del mondo e della realtà e per questo mezzo controllare l’azione umana.
Prendere atto di questo non significa affatto arrendersi ma, al contrario, scoprire quali nuovi spazi si aprono alle forze di progresso. Non servono i grandi demagoghi. Governare il mondo moderno significa in realtà governare una enorme e crescente complessità di fenomeni, di nuove realtà emergenti, di relazioni. Questa è la sfida che la sinistra più di altri potrebbe accogliere. La condizione, se vogliamo tenere i piedi per terra, è fare un passo avanti sostanziale nel delineare un modello dell’innovazione europeo che non sia la semplice imitazione di quello americano. Un modello di sviluppo capace di stabilire una relazione molto più stretta tra economia postfordista, identità culturale, ambiente e riorganizzazione dei modi e dei tempi del vivere e del lavorare. L’Unione monetaria è stata una premessa necessaria ma non ha risolto il grande problema di una visione europea del futuro. Eppure in nessun altro luogo del mondo sarebbe più facile progettare una società in cui i diritti di cittadinanza siano garantiti a tutti; una società in cui sia libero l’accesso alle nuove tecnologie, e larga l’alfabetizzazione informatica. Dove cose come queste siano un diritto e un’opportunità e non un fattore di disuguaglianza sociale.
Berlusconi è davvero un reperto archeologico.